Settimo inverno

Io e Noah condividevamo la nostra quotidianità da oramai cinque mesi. Quel piccolo fagottino riempiva ogni istante di sensazioni impagabili: i suoi sorrisi, le sue manine paffute, il suo modo di addormentarsi stretto al mio petto. Ogni giorno era una sorpresa, una scoperta della quale mi sentivo estremamente orgogliosa. Mio figlio. Ripetevo quell'espressione ogni sera mentre scrutavo i suoi occhioni chiudersi lentamente e la sua manina stringere avidamente la mia collana. Mio figlio aveva guarito ogni ferita. Mi sentivo rinata, rifiorita da quei demoni che dalla morte di Nathan non sembravano volermi abbandonare. Tutta la mia vita ora ruotava attorno a lui: ogni mio gesto, ogni mia attività era indirizzata a lui e alla sua serenità. Certo, esisteva l'altra faccia della medaglia: essere una mamma single non si stava rivelando per nulla semplice. Nonostante il prezioso supporto della mia famiglia, di Gemma e di Harry, le notti erano estremamente dure ed interminabili. Noah conquistava ogni giorno un po' della mia energia ed io mi sentivo sempre più esausta.

Perché sì, come starete immaginando, Harry non stava vivendo con me al momento. Dopo i primi tre mesi di vita di Noah, avevo scelto di fare ritorno nel mio appartamento, pur rimanendo vicino alla mia famiglia e alle persone care. Harry si era più volte imposto al fine di rimanere al mio fianco, ma non c'era stato verso di farmi cedere. Certo, entrambi avevamo condiviso un momento unico, magico, un evento che ci avrebbe unito per il resto della vita: questo non doveva significare, tuttavia, che lui dovesse rimanere con me per puro spirito crocerossino. Noah era il figlio di Nathan e in quanto tale non era nient'altro se non il bambino di una cara amica a cui doveva semplicemente il suo amore. Harry aveva tutto il diritto di continuare la sua carriera, di viaggiare, di scrivere canzoni, di esprimere sé stesso e di trovare la donna della sua vita con la quale decidere un giorno d'instaurare una famiglia. Non l'avrei di certo incastrato in una vita non sua e della quale non aveva nessuna responsabilità. Non era quello che volevo per me, per mio figlio e soprattutto per lui. Entrambi avremmo prima o poi trovato la felicità, semplicemente non insieme.

Bath, 15 dicembre 2016.

«Ripeti insieme a me», squittì Gemma «sono il frugoletto della zia».

Sorrisi, scrutando il volto di Gemma intento a produrre delle smorfie che a quanto pare facevano impazzire Noah dalle risate.

«Frugoletto, frugoletto, sei tu il mio frugoletto», continuò, godendosi compiaciuta le risate di Noah.

Scossi la testa, piegando una delle tante magliette sparse sul letto.

«Allora, quali notizie mi portate tu e il mio bel nipotino?», domandò, rivolgendo lo sguardo al mio «diamine, amica, hai una cera invidiabile».

Sbuffai, storcendo il naso. Ero esausta. Non riuscivo a farmi una doccia da giorni e le macchie di latte sui miei vestiti avevano oramai conquistato vitto e alloggio. Paragonabile era la situazione del mio viso, delle occhiaie così scure che neanche il truccatore di un gruppo heavy-metal sarebbe riuscito a riprodurre.

«Il signorino in questione è tutto pepe», farfugliai, sprofondando nella poltrona «non vuole saperne di fare il pisolino, mi distrugge».

«Ancora non capisco perché ti rifiuti di farti aiutare», protestò, afferrando un piccolo peluche di pezza.

«Perché Noah è mio figlio», continuai, passandomi una mano sul volto «le decisioni spettano a me».

«Certo, ma questo non t'impedisce di», tentò di replicare.

«Gem, per quanto tempo ho lasciato che altre persone controllassero la mia vita?», sputai fuori, un peso ad opprimermi il petto «Harry, Nathan, i genitori di Nat».

Aggrottò la fronte, sospirando.

«Ancora nessun'ombra di accordo?», domandò con tono ansioso.

«Vogliono ogni cosa», sospirai «la pasticceria, il blog, prenderebbero persino Noah se potessero».

«Col cavolo!», gridò, continuando a far roteare la ruota della macchinina giocattolo «chi si credono di essere?».

La verità era che non gli ero mai piaciuta. Se soltanto avessero potuto, avrebbero conquistato anche l'aria che respiravo. Erano stati capaci di mettere in discussione anche la paternità di Noah: c'era voluto un test del DNA - a dir poco macabro, vista l'assenza di Nathan - e un avvocato profumatamente pagato a chiudere la questione. La pasticceria, tuttavia, restava motivo di litigio: nonostante le chiare disposizioni di Nathan, la gravidanza mi aveva impedito di pensare seriamente al da farsi. Non avevo certamente le facoltà per gestire una pasticceria, in fondo ero una semplice giornalista. Cosa ne sapevo io di un'attività commerciale? Certo, adoravo cucinare dolci, era una delle poche valvole di sfogo che trovavo avere efficacia. Eppure, la direzione di una pasticceria era tutt'altra storia: non avrei saputo neppure da dove cominciare.

«E se la vendessi?», riprese «ne otterresti un bel ricavato per te e soprattutto per Noah».

Feci per annuire, lasciando andare la testa contro lo schienale della poltrona. La vendita: quante volte avevo pensato a quell'opzione. Certi notti mi sembrava la scelta più sensata: avrei selezionato delle persone qualificate per occuparsene e in cambio avrei ottenuto dei soldi per comprare una casa più grande e far vivere a mio figlio un'esistenza felice. Eppure. Una piccola, millesimale parte di me sapeva che così facendo avrei distrutto per sempre il sogno di Nathan. L'avrei calpestato come si fa con una gomma da masticare, distruggendo totalmente l'ultima cosa che mi era rimasta del padre di mio figlio. Perché sì, Noah era frutto di un amore. Strano, forse. Non totale, ostacolato, assurdo, ma pur sempre un amore. Avevo amato seriamente Nathan: non avevo mai giocato con i suoi sentimenti, non l'avevo mai ingannato. Con lui mi sentivo protetta, sicura. Nathan era una persona comune, stabile: non mi avrebbe scaricata per nuovo tour o un nuovo disco. Non mi avrebbe ridotta in pezzi, così come faceva Harry da oramai sette anni. Mi avrebbe protetta, accolta e amata per il resto della vita. E pur consapevole dei miei sbagli, mi ero adagiata in quel confort come fanno gli animali quando vanno in letargo: raccolgono lentamente le loro provviste, si chiudono nel loro nido e dormono fino all'arrivo della bella stagione. Allo stesso modo, avevo raccolto il mio amore per Harry, l'avevo accantonato con la speranza di riuscire a polverizzarlo, mi ero chiusa tra le braccia di Nathan e avevo atteso il momento in cui finalmente la bella stagione sarebbe arrivata e avrei finalmente chiuso quel capitolo. Stagione che, sfortunatamente, non è mai giunta.

«Uh, guarda Noah», squittì Gemma, risvegliandomi dal coma di pensieri «un baubau alla finestra»

Avevo un disperato bisogno di dormire.

***

Erano le quattro di notte e come consuetudine ero sveglia, sola nel mio gigantesco letto matrimoniale, intenta ad allattare un Noah vispo quanto una pila duracell. Ero felice, non potevo negarlo: eppure, più le notti avanzavano e la stanchezza premeva sulle mie ossa rotte, più quella felicità di cui tanto andavo fiera veniva meno. Non volevo accettare l'idea di aver bisogno di aiuto: volevo farcela da sola, crescere Noah esattamente come se il matrimonio con Nathan non fosse mai finito. Volevo fare finta che le cose non fossero cambiate e che io fossi ancora insieme a lui, protetta dalle sua braccia lunghe e possenti. Guardandomi intorno, invece, nel buio e nella solitudine della mia stanza, con un bambino così piccolo attaccato al mio seno, non potevo far altro che chiedermi dove avessi sbagliato. Se quell'incontro di sette anni fa non fosse stato un errore, se avessi dovuto evitarlo, cancellarlo dalla mia vita prima che fosse troppo tardi. Tuttavia, non feci in tempo ad abbandonarmi a quei pensieri, che la suoneria del cellulare poco distante prese a squillare come impazzita.

«Che ore sono in Giamaica?», sussurrai.

«Le nove di sera», replicò serenamente, lasciandomi un brivido lungo la schiena.

Da due mesi a questa parte Harry si era trasferito in Giamaica insieme ai suoi musicisti e al suo management. Per terminare questo disco ho bisogno d'ispirazione e Londra è troppo piccola - mi aveva detto poco prima di partire.

«Noah si sta godendo la sua poppata notturna?», riprese, facendomi sorridere.

«Chi sta meglio di lui», risposi, abbassando lo sguardo al suo corpicino ormai rilassato «di certo non sua madre».

Sospirò, rimanendo in silenzio per alcuni secondi.

«Laura, sono preoccupato», sentenziò «Gemma dice che sei sfinita».

Sbuffai. Maledetti fratelli Styles.

«Sto bene», replicai «è perfettamente normale essere stanchi con un bambino di cinque mesi».

«Non è normale essere totalmente soli», puntualizzò, una buona dose di apprensione nella sua voce.

Alzai gli occhi al cielo, trattenendo a stento le lacrime. Mi sentivo esausta, non potevo negarlo. Potevo soltanto tergiversare e continuare ad andare avanti, giorno per giorno, con quel poco di energia che mi rimaneva da usare.

«Sai che basterebbe una parola, una sola», sussurrò.

«Lo so», replicai «ma è tutto sotto controllo, davvero».

Sospirò nuovamente, lasciando cadere una cortina di nebbia tra le nostre anime.

«Si è addormentato?», chiese poi, facendomi portare lo sguardo al visetto esausto di Noah.

«Vorrebbe, ma non riesce a lasciarsi andare», risposi «come sempre, ogni notte».

Percepii del gracchiare, poi il suono di un foglio di carta appallottolato.

«Mettimi in vivavoce», bisbigliò «ho una canzone per Noah»

Sorrisi di riflesso, appoggiando il cellulare sul letto: era diventato un rituale e Noah sembrava gradire, così come la madre. Chiusi gli occhi, preparandomi a godere di quel concerto privato.

«Allora?», bisbigliò poco dopo, facendomi trasalire.

Mi ero totalmente persa.

«Si è addormentato», bisbigliai «ha funzionato anche stavolta».

Seguì del silenzio, l'incapacità di entrambi di superare quello stupido muro che sembrava dividerci da anni.

«Buonanotte Harry», sussurrai, chiudendo la chiamata.

Londra, 27 dicembre 2016.

L'avevo fatto: avevo finalmente venduto la pasticceria. Era stato estremamente doloroso, ma non potevo continuare a prendere in giro me stessa. Non sarei mai stata in grado di gestire un'attività commerciale, non sarebbe mai stato nelle mie corde. Io ero una giornalista, come ironicamente mi chiamava Harry all'inizio della nostra frequentazione. Lo ero davvero: il giornalismo era la mia vocazione, adoravo scrivere gli articoli, comporre i pezzi, occuparmi di tutto il processo che sottostava alla stampa di un giornale. Quel lavoro faceva parte di me e sicuramente non l'avrei mollato per soddisfare i sogni di qualcuno che non c'era più. Nathan sarebbe comunque rimasto il padre di Noah: non avrei mai smesso di raccontargli quanto fantastico fosse suo padre e quanto avesse lottato per il nostro amore. Avrei continuato a fargli vedere le sue foto, a portarlo in Irlanda e a far vivere la sua anima. Non gli avrei mai nascosto i nostri trascorsi, così come non avrei mai fatto finta che Noah non avesse un padre. Gli avrei dato ciò che si meritava, indipendentemente dal fatto che Nathan non fosse più tra noi.

Decisi, tuttavia, di continuare a gestire il blog: mi avrebbe occupato soltanto alcune ore della giornata e avrei potuto seguirlo perfettamente anche una volta terminata la maternità e rientrata a lavoro nel mio piccolo giornale di Londra. Con i soldi della vendita decisi dunque d'iniziare a ricostruire la mia vita dalle fondamenta: abbandonai finalmente l'alloggio vicino casa dei miei genitori e ne comprai un altro decisamente più grande a Soho, a pochi minuti di distanza da Gemma. Ritornare in quel quartiere nutriva i miei ricordi in una maniera decisamente inaspettata, ma in quella fase della mia vita avevo decisamente bisogno dell'aiuto di un'amica. Comprai dei mobili nuovi di zecca e decorai l'intera casa con quadri, soprammobili e fotografie: ero seriamente intenzionata a mettere radici, a dare a Noah un posto dove crescere in maniera stabile e sana. Niente più colpi di testa.

«Diamine Laura, cosa hai messo qui dentro?», tuonò James, abbandonando l'ultimo scatolone sul parquet e passandosi una mano sulla fronte «pietre?».

Sorrisi, sistemando Noah nel seggiolone.

«Grazie ragazzi, davvero», squillai «non so come avrei fatto senza di voi».

«Questo ed altro per la mia nuova vicina», squittì Gemma, mettendo un braccio attorno alle spalle di James «e tu saresti un personal trainer?».

Scossi la testa, posizionando il bollitore sul fuoco. James e Gemma facevano coppia fissa da oramai sette mesi ed erano davvero adorabili. Nulla a che vedere con le mie disastrose capacità d'interazione amorosa.

«Sicura di avere tutto?», riprese Gemma, infilandosi il cappotto.

Annuii, scrutandola in maniera perplessa.

«Non vi fermate per un tè?», domandai, aggrottando la fronte.

«Ci piacerebbe, ma non possiamo», troncò James, abbozzando un sorriso per nulla convincente.

Rimasi immobile, confusa da quegli atteggiamenti furtivi.

«Ragazzi?», domandai nuovamente «qualcosa non va?».

Dopo alcuni istanti Gemma sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

«Va bene, non posso più stare zitta», strillò, appoggiandosi malamente ad uno degli scatoloni.

«Ma Gem, eravamo d'accordo», farfugliò James.

«Mi dispiace tesoro, non posso», tagliò corto Gemma, fulminandolo con lo sguardo.

Alzai le spalle, spegnendo il fuoco all'assordante fischio del bollitore.

«Io e James ci sposiamo!», gridò elettrizzata, mostrandomi la mano sinistra accompagnata da un delizioso diamantino verde.

Rimasi senza parole, i balbettii di Noah di sottofondo.

«Ecco, lo sapevo, ti abbiamo scioccata», mormorò Gemma, rabbuiandosi.

«Assolutamente no, io», ripresi, cercando di ricompormi «sono davvero felice per voi».

«Sicura?», domandò James, abbassando lo sguardo al parquet «non volevamo dirtelo semplicemente perché avevamo timore che insomma, dopo la morte di Nathan».

Scossi vigorosamente la testa, cercando di convincerli del contrario.

«Non scherzate», squittì, prendendo la mano di Gemma «è meraviglioso!».

Sorrisero, avvolgendomi in un caldo abbraccio.

«Avete già deciso la data?», continuai, costringendoli a togliersi le giacche ed accettare la mia tazza di tè.

«A tal proposito», mormorò Gemma, nascondendosi tra il fumo della bevanda «vogliamo una cerimonia intima, niente fronzoli».

«Nessuna esagerazione, solo i parenti e gli amici più stretti», proseguì James, afferrando la mano di Gemma «sarà il giorno di Capodanno».

Presi a tossire violentemente, strabuzzando gli occhi.

«Questo Capodanno?», squillai «tra quattro giorni?».

Annuirono, scambiandosi sguardi languidi. Ero seriamente sconcertata dalla rapidità degli eventi.

«Lo so che sembra assurdo», riprese Gemma «ma non abbiamo bisogno d'altro, lo sappiamo».

Sorrisero, stringendosi nuovamente le mani. Lo sapevano. Non avevano bisogno di spiegazioni o di particolari circostanze che gli consentissero di stare insieme. Il loro amore andava al di sopra di tutto, anche del tempo.

«Non te lo chiederei se non fosse estremamente importante, ma», mormorò Gemma, affondando i suoi occhi verdi nei miei «vorresti essere la mia damigella d'onore?».

Rimasi nuovamente senza fiato, diversi brividi lungo la schiena. Gemma era tutto per me. Non lo esternavo in maniera particolarmente convincente, ma sapevo che, senza la sua presenza, non avrei superato gli innumerevoli ostacoli che la vita mi aveva posto. Non si era mai tirata indietro, neanche quando, in preda ai pianti isterici, le avevo intimato di lasciare la mia stanza per potermi abbandonare in solitudine al dolore per la perdita di Nathan. Non aveva proferito parola quando, la notte di Capodanno di quattro anni fa, aveva trovato me ed Harry nel bagno, vestiti in malo modo e con addosso i segni evidenti di un rapporto che la faceva impazzire. Aveva gioito per la nascita di Noah come soltanto una sorella di sangue avrebbe potuto fare. Aveva raccolto i miei pezzi e li aveva rimessi insieme ogni volta che Harry, silenziosamente, aveva lasciato l'Inghilterra. Ed era pronta a tornare ogni volta che, alla volta di un nuovo inverno, suo fratello faceva nuovamente capolino nel mio cuore.

«Assolutamente sì!», strillai, avvolgendola in un forte abbraccio.

Era arrivato il turno di ricambiare tutto quell'affetto.

Londra, 31 dicembre 2016.

«Gem, scordatelo, non indosserò mai una cosa del genere», strillai, incrociando le braccia al petto.

Mancavano poche ore alla cerimonia e nonostante i mille tentativi di Gemma, continuavo a rimanere ferma nelle mie decisioni, una semplice sottoveste e dei calzettoni di lana ad ornare la mia figura.

«Laura, è il mio matrimonio», tuonò, aprendo le braccia «non puoi controbattere».

«Certo che posso», continuai «è il mio corpo».

Alzò un sopracciglio, scrutandomi dall'alto dei suoi bigodini. Quant'era buffa.

«Per l'amor di Dio», strillò «sei una frana in termini di moda».

Sbuffai, alzando gli occhi al cielo.

«Hai idea di quanto sia scollato?», farfugliai, indicando l'abito appeso all'armadio «avrò la schiena completamente nuda».

«Beh, una tecnica perfetta per far risvegliare gli ormoni di mio fratello», squittì, passandosi il rasoio sulle gambe «e farla finita con questa pagliacciata».

Spalancai la bocca, la testa sul punto d'esplodere. Se qualcuno mi avesse misurato la temperatura, probabilmente, mi avrebbe condotta dritta al pronto soccorso. Sprofondai sul divano, chiudendo gli occhi.

«Perché continui a sottovalutarti in questo modo?» domandò, abbandonando il rasoio sulla vasca.

Scrutai i suoi occhi verdi pieni di speranza, lasciando andare un lungo respiro. Dopo la morte di Nathan tutto ciò che poteva riguardare la bellezza era stato posto in una scatola e accantonato nel posto più lontano possibile. Mi ero lasciata andare alla trascuratezza, ai maglioni larghi e ai leggings scuciti: le mie occhiaie erano diventate pesanti, vivide e la mia pelle non vedeva il segno di una crema o di un trattamento esfoliante da molto, troppo tempo. D'altronde, a cosa potevo ambire se l'unico uomo presente al momento era un piccolo ometto di sei mesi al quale non era necessario altro se non del buon latte e un caldo posto dove dormire?

«So che la morte di Nathan è stata dolorosa, così come so che occuparsi di Noah da sola è estenuante», sibilò, prendendomi le mani «ma ti prego, lascia che ti riporti a delle sembianze umane».

Sorrisi, lasciando andare qualche lacrima silenziosa.

«Va bene», sussurrai, abbassando lo sguardo «ma solo perché è il tuo giorno».

***

«Santo cielo, Laura», sibilò James, sistemandosi il papillon «sei uno schianto!».

Arrossii violentemente, nascondendo il volto tra il bouquet di peonie scelto appositamente da Gemma ed abbozzando una mano dietro la schiena, come se il mio semplice palmo avesse potuto coprire quell'enorme scollatura. Il vestito che indossavo, nonostante la schiena nuda, era davvero mozzafiato: era di un color viola delicato, pastello. Il corpetto era leggero, con un allaccio al collo, mentre la gonna in tulle scendeva morbida e sinuosa. I capelli lunghi erano legati in una coda bassa e spettinata, una debole frangia e dei ciuffetti a ricadere morbidi e liberi. Il trucco era importante, ma non volgare - su questo ero stata irremovibile - in perfetta armonia con il colore del vestito. Degli orecchini lunghi e sfrangiati, poi, facevano il resto.

«Non pensavo che sotto quei maglioni nascondessi tutto questo potenziale», continuò, circondandomi le spalle con il braccio destro.

«Idiota», sorrisi, lasciandogli un buffetto affettuoso sulla guancia «faresti meglio a concentrarti sulla tua futura moglie».

Lo scrutai ridere, la tensione a pulsare viva sulla fronte lievemente sudata. Gemma sarebbe arrivata a momenti e persino io cominciavo a sentire i morsi dello stress. Era stata una giornata lunga e concitata: le corse per terminare la sala al Park Plaza - l'hotel scelto per la cerimonia e il ricevimento - le ore di restauro estetico combinate alle poppate e ai pisolini di Noah, le due crisi di pianto di Gemma e il timore di rivederlo. Sapevo che a momenti avrebbe fatto il suo ingresso trionfale nella sala, sorreggendo Gemma lungo la navata. Avevo cercato di non pensarci, di scacciare quel pensiero dalla testa: la mia mente, tuttavia, come un folle istinto suicida, continuava a rituffarsi nei suoi occhi, nei suoi ricci, nel suo sorriso. Ci sguazzava amabilmente, come se non ci fosse niente di più bello al mondo.

«Tutti in piedi, prego», annunciò l'ufficiante, dando il via alle danze.

Il mio cuore, alla sua vista, si contorse. Se avesse potuto, forse, avrebbe fatto i salti mortali. Harry, quel giorno, era materiale illegale. Indossava un completo decisamente contenuto per i suoi standard: era semplice, grigio scuro, con una camicia bianca a spuntare limpida e inamidata. I capelli ricci erano più corti e ben sistemati, mentre gli innumerevoli anelli restavano invariati come caratteristica distintiva. Era bello da far male, da lacerare la carne. Strinsi forte il bouquet, cercando di concentrarmi sul mio respiro e sulla felicità sgorgante di Gemma. Tuttavia, a pochi metri dall'arco nuziale preparato per l'occasione, i suoi occhi agganciarono i miei, fondendosi totalmente con le mie iridi castane. Le mie guance si accesero in maniera violenta e qualcosa d'inaspettato iniziò a punzecchiarmi lo stomaco e le orecchie. Una volta arrivati a destinazione, lo osservai lasciare un lieve bacio sulla fronte di Gemma, ritornando poi a squadrarmi in maniera ossessiva. Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere quel contatto. Non svenire Laura, non svenire.

***

Era da poco passata la mezzanotte, il nuovo anno era arrivato e ancora non sapevo dire con quale forza ero riuscita a portare a termine il mio compito di damigella. L'unico momento in cui potei prendere fiato fu quando Noah, accompagnato da mia madre, sporse le fedi agli sposi. A quella scena lasciai andare la tensione, concentrandomi soltanto sulla dolcezza estrema di quel pargoletto. Per il resto del tempo fu una lotta continua con i suoi occhi, i quali premevano come fuoco ardente sulla mia pelle. Non sapevo, tuttavia, se essere felice di quelle attenzioni: non riuscivo del tutto a interpretarle, forse perché ancora non ci eravamo scambiati nessuna parola, vista l'assurda affluenza di persone pronte a conoscere Noah e a riempirlo di mugolii zuccherosi. Era appena tornato, dopo tre mesi di assenza: eravamo nella stessa stanza, al matrimonio della stessa persona e ancora non riuscivamo ad avvicinarci.

«Tesoro», squillò mia madre, raggiungendo la mia mano «finalmente ti ho trovata».

Scossi la testa, osservando il suo sguardo trafelato.

«Cosa succede?», domandai, aggrottando la fronte.

«Ti ricordi di Paul, il figlio del dottor Hopkins?», squittì, lasciando spazio alla figura al suo fianco «il mondo è così piccolo».

Scrutai confusa un ragazzo sulla trentina, biondo e con gli occhi scuri. Decisamente un bell'uomo, ma nulla che potesse attirare la mia attenzione. Rivolsi uno sguardo interrogativo a mia madre, continuando a dondolare in circolo al fine d'intrattenere un Noah sul punto di rottura. Era esausto: era passata la mezzanotte e lui era ancora sveglio. Avrei dovuto farlo addormentare, trovare un luogo tranquillo per calmarlo, ma tutta quell'eccitazione mi stava dando alla testa.

«Vagamente», farfugliai, allungandogli la mano libera «come mai qui?».

«Sono un amico d'infanzia di James», replicò «tua madre ha insistito per sottolineare quanto fosse incredibile trovarci allo stesso matrimonio».

La fulminai con gli occhi, stringendo i denti.

«Perché non lasci a me Noah?», continuò, strappandomelo inaspettatamente dalle braccia «ci penso io a farlo addormentare, tu goditi il ricevimento», e così dicendo sparì tra la folla, lasciandomi con diverse parole sospese a mezz'aria.

Parole per nulla incoraggianti.

«Mi dispiace», mormorai «mia madre è leggermente invadente».

Sorrise, appoggiando il bicchiere oramai vuoto sul tavolino poco distante.

«Ti va un ballo?», propose, porgendomi la mano destra «visto che sei libera».

Esitai, confusa. Volevo davvero ballare con una persona che neanche conoscevo e della quale non mi interessava assolutamente nulla? Decisamente no, ma lo sguardo di Harry era di nuovo lì, forte come un animale che punta la sua preda. Quante volte avevo sofferto per causa sua? Quante volte avevo dovuto assistere alla scena di lui con una valigia o di lui accompagnato dalla nuova fidanzata del momento? Quante volte avevo ingoiato dei massi pur di convincermi che era normale, che era perfettamente giusto quando si ha a che fare con una persona come lui? Al diavolo: era Capodanno, Gemma si era appena sposata e io per la prima volta dopo mesi ero tornata ad indossare un bel vestito ed essere attraente.

«Volentieri», replicai, afferrando la sua mano e lasciandomi trasportare verso la pista da ballo.

Mi cinse così la vita, attraendomi a sé. Rimasi pietrificata da quel contatto così ravvicinato, ma tentai di sorridere e scacciare i pensieri negativi.

«Mio padre mi ha detto che hai avuto un trascorso particolare», squillò, tentando di sovrastare l'alto volume della musica.

«Già», troncai seccamente, poco incline alla conversazione.

Di certo non avrei raccontato le mie faccende private ad un completo sconosciuto.

«Negli ultimi anni devi essertela spassata allora», replicò.

«Scusa?», urlai, strabuzzando gli occhi.

«Beh, tutti sanno di te e di Harry Styles, per non parlare del padre di tuo figlio», ribadii con sguardo improvvisamente glaciale «io sono disponibile nel caso volessi continuare con il tour».

Rimasi di sasso, il cuore sul punto di esplodere al di fuori dei vestiti. Tentai di replicare, ma non feci in tempo ad emettere nessun suono che la sua voce mi sovrastò.

«Ti conviene andartene», tuonò Harry, opponendosi tra i nostri corpi e sciogliendo l'aggancio delle braccia.

«Altrimenti?», replicò, mantenendo lo sguardo nel suo.

«Altrimenti la tua stupida carriera da figlio di papà finisce tanto presto quanto è iniziata», continuò tagliente.

«Non mi fai paura Styles», rispose, stringendo i pugni «sei solo una cantante da quattro soldi e lei una».

«Dì un'altra parola», gridò, afferrandolo per il colletto «e ti faccio fuori».

«Harry, ti prego», strillai terrorizzata «è il matrimonio di Gem».

Non potevamo rovinarle il suo giorno, era fuori discussione. Rimasero immobili per alcuni secondi, le vene del collo in tensione.

«Vattene e non azzardarti più a toccarla», sibilò, lasciando la presa.

***

«Si può sapere dove stai andando?», tuonò Harry, cercando di sostenere il mio passo forsennato.

«A togliermi questo stupido vestito e a riprendermi mio figlio», tagliai corto, il fiato spezzato e la testa dolorante.

Una persona che neanche conoscevo mi aveva appena definito una facile. Io, Laura Davies, una facile. La stessa ragazza che nonostante conoscesse Harry Styles da ben sette anni, si era lasciata andare a una semplice sveltina in un bagno. Per amore, per di più. La stessa ragazza che qualche mese prima l'aveva rifiutato: io, Laura Davies, avevo rifiutato quel corpo, quel viso, quegli occhi e quella pelle invece che saltargli addosso come se lui fosse l'ultimo pezzo di pane rimasto sulla Terra. Io, Laura Davies, per quel poco che avevo fatto, ero considerata al pari di una prostituta.

«Fermati un secondo, parliamone», urlò.

«Di cosa dobbiamo parlare?», replicai, bloccandomi nel bel mezzo del corridoio «del fatto che una persona totalmente sconosciuta mi ha appena definito una puttana?».

Abbassò lo sguardo, sospirando. Si era tolto la giacca ed ora la camicia bianca era aperta, la pelle al di sotto evidentemente sudata.

«La sua opinione è totalmente inutile, lui è totalmente inutile», replicò a denti stretti.

«Davvero?», gridai «perché mi sembra che il mondo intero la pensi esattamente come lui».

Ero sfinita. Le gambe mi tremavano e non riuscivo più a portare quegli stupidi tacchi.

«Conoscerti è stato magico, impressionante», strillai, sfilandomi quelle dannate scarpe.

I suoi occhi si accesero come fari, mentre le sue labbra restarono immobili.

«Ho messo la persona davanti all'aspetto fisico ed è stato giusto così, perché ho avuto modo di conoscere un lato di te che altrimenti non avrei mai scoperto, un lato genuino, puro», continuai.

Non rispose, si limitò a fissarmi.

«Tu invece, per ripagarmi, mi hai ignorata, hai preferito controllare la mia vita e sistemarmi in un matrimonio che sapevi perfettamente non volessi», continuai imperterrita, aprendo la porta della mia camera e lanciando le scarpe vicino alla culla da campeggio di Noah.

«Qual è il punto?», sibilò, appoggiandosi allo stipite della porta «non capisco».

«Non capisci?», farfugliai, strappandomi di dosso quegli stupidi orecchini sfrangiati che non facevano altro che incastrarsi tra i miei capelli «hai deciso tutto tu, Harry, tutto!».

«Ti ho protetta», replicò, gettando la giacca sul letto «ho fatto tutto quello che era in mio potere per farti stare bene».

«Bene? Credi che questo sia stare bene?», continuai, sgranando gli occhi.

«Non ho scelto io che Nathan morisse, così come non ho controllato io la tua gravidanza», replicò, stringendo i pugni.

«Pensavi davvero che dopo il matrimonio io e Nathan avremmo "parlato del meteo"? Che non avremmo avuto alcun contatto?», domandai, mettendolo alla prova.

«Non ho intenzione di conoscere la tua privata», mormorò, distogliendo lo sguardo.

«E invece sì, Harry, sfortunatamente devi conoscerla dal momento che vuoi decidere per me», gridai nuovamente.

«Ho fatto quello che era giusto fare, ti ho preservato da un mondo che», tenterò di replicare.

«Nessuno te l'ha chiesto, Harry, non ti ho chiesto di essere protetta, cazzo!», gridai esasperata.

Non avevo mai gridato così tanto nella mia vita. Le mie pulsazioni erano talmente accelerate da essere paragonate alla velocità di accensione di un segnale di SOS.

«Io ti amo!», continuai, lasciandomi cadere sul letto «ecco, te l'ho servita su un piatto d'argento: ti amo e non c'è niente che tu possa fare per farmi cambiare idea, perché il mio cuore, il mio stomaco, qualsiasi pezzo di me verranno sempre a cercarti».

Presi fiato, incapace di placare quella corsa inarrestabile.

«Potrai fare tutto quello che vorrai, potrai andartene, tornare e andartene ancora, potrai farmi conoscere altri uomini o dirmi che non provi lo stesso», strillai «non cambierò mai quello che provo per te, perché il mio cuore è tuo, è tuo da sette anni e se solo avessi aperto gli occhi, se solo avessi visto come ti guardavo, come ti cercavo e quanto avevo bisogno di te l'avresti capito».

Respirai a singhiozzi, le unghie laccate di bianco a stretto contatto con i palmi. Gli avevo aperto il mio cuore, l'avevo fatto, finalmente.

«Quindi a te la scelta, Harry», sibilai, avvicinandomi pericolosamente al suo viso «rimani e giochi finalmente questa partita con me, oppure lasci questa stanza».

Deglutii, affondando gli occhi nei suoi.

«Ma questa volta la lasci per sempre», terminai.






***

Spazio autrice:

Lo so, in questo momento mi starete maledicendo in diverse lingue.

A mia discolpa posso dire che ho dovuto lasciarvi un po' di suspence proprio perché ci stiamo avvicinando alla fine degli inverni (siamo già al settimo, aiuto!) e se vi dicessi tutto ora che gusto ci sarebbe?

Quindi forza, teorie! Cosa risponderà Harry? Condividerà gli stessi sentimenti di Laura o se ne andrà come purtroppo ha sempre fatto? Voglio sentire le vostre opinioni!

Nel frattempo ne approfitto per continuare a ringraziarvi per il supporto: questa storia ha un significato davvero speciale per me e vedere che piano piano sta ricevendo del responso mi riempie il cuore di gioia. Quindi grazie!

Spero di avervi tenuto un po' di compagnia in quest'altra domenica di quarantena.

Laura

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