Decimo inverno
New York, 15 gennaio 2020.
«E la nave dei pirati!», squillò Noah «la disegno, così Babbo Natale capisce quale regalarmi».
Sorrisi, continuando ad asciugare i piatti appena lavati. Babbo Natale avrebbe avuto un gran da fare quest'anno. Riposi alcuni bicchieri nel mobile poco distante, lanciando qualche occhiata fugace al mio bambino biondo cenere, con il tempo sempre più simile a suo padre. New York era diventata la nostra seconda casa, anche se Londra e la nostra famiglia ci mancavano come l'aria. Certo, la presenza di Georgia era decisamente rinvigorente: Noah adorava trascorrere del tempo con Mia e Jensen e dal mio canto Georgia era diventata molto di più che la mia semplice datrice di lavoro. Tuttavia, il mio cuore restava tristemente diviso tra la vita lavorativa di New York e quella affettiva di Londra. Sistemai le forchette nel cassetto, posando lo sguardo sulla foto di Noah ed Harry poco distante. Riportando la mente a quel ricordo, storpiai le labbra in una smorfia, sorridendo mestamente.
«Ecco qui», gridò, mostrandomi il disegno.
«E' la nave dei pirati più bella che abbia mai visto», mormorai, accarezzandogli dolcemente i capelli «e adesso forza pannocchietta, a dormire».
«Mamma», sbuffò Noah, incrociando le sue piccole braccia.
«Lo sai che Babbo Natale non ama i capricci», replicai «hai ancora ben dieci giorni per comportarti da bravo bambino».
Alzò le spalle, fiondandosi al piano di sopra con ancora i pastelli in mano.
«Ricordati i denti», urlai, scuotendo la testa «tra poco vengo a controllare».
Senza Noah non sarei stata in grado di affrontare tutti gli ostacoli che la vita mi aveva posto. Persino la morte di Nathan aveva acquisito maggiore significato con la sua nascita. Sospirando, salì lentamente le scale, dirigendomi verso la camera da letto. Una volta entrata mi sedetti sul bordo del letto, aprì il primo cassetto del comodino e presi la foto di Nathan tra le mani. Non la guardavo da tempo e quello sarebbe stato il quinto inverno senza di lui.
«Noah ti somiglia così tanto», mormorai, sfiorando il contorno del suo viso con la punta delle dita «saresti stato un padre fantastico e Noah ti avrebbe adorato».
Presi fiato, inclinando la testa per trattenere le lacrime.
«Non sono stata una brava compagna per te», continuai «ti ho trattato da seconda scelta e non avrei dovuto, nessuno merita di essere considerato come tale».
Deglutii a fatica, incrociando le gambe.
«Sto cercando di essere una buona madre per tuo figlio», sussurrai «non posso rimediare agli errori del passato, ma posso cercare di renderti orgoglioso di noi».
«Mamma, ho fatto», gridò Noah, distogliendomi da quel groviglio di pensieri.
«Arrivo tesoro», replicai, asciugandomi frettolosamente alcune lacrime solitarie.
Scesi dal letto, riaprii il cassetto e riposi la foto, ma prima di chiuderlo in maniera definitiva gli lanciai ancora un'occhiata, sorridendo.
«Ti voglio bene Nat», sussurrai «te ne vorrò sempre».
New York, 20 gennaio 2020.
«Direi che è tutto sistemato», squittì Georgia, porgendomi una delle sue solite cartelline color evidenziatore «questo è il tuo ultimo incarico».
Sospirai, scrutando la sua figura visibilmente scossa. Georgia era una donna forte: difficilmente si lasciava andare ai sentimenti o alle smancerie. Eppure, in quel freddo pomeriggio di Dicembre, si stava mostrando più in difficoltà che mai. Avevo infatti deciso di lasciare New York per fare finalmente ritorno a Londra. Amavo quella città: il suo caos, la sua contagiosa vivacità. Semplicemente non era quello che volevo per me o per mio figlio: quegli ultimi tre anni erano stati i più intensi mai vissuti, ma sapevo che la mia vita non avrebbe seguito quel percorso. Volevo tornare a Londra e dare a Noah la possibilità di crescere vicino ai suoi nonni, a Gemma e a tutto quello che aveva caratterizzato la mia vita per anni. La casa con il camino, i pomeriggi da Harrods, Camden Town, il pudding natalizio e il tè bollente accompagnato da deliziosi scones. Avrei continuato a lavorare per Georgia e per Vanity Fair, ma l'avrei fatto come collaboratrice esterna, limitandomi ad un ruolo più marginale. Questo non significava che avrei messo da parte il mio sogno: il giornalismo restava la mia unica aspirazione, ma il mio cuore aveva bisogno dell'abbraccio di casa come la pasta ha bisogno del sugo di pomodoro per funzionare.
«Andiamo Georg, non farmi sentire in colpa», replicai, afferrandole la mano.
«Non troverò mai un'altra viceredattrice al tuo livello», sussurrò, trattenendo a stento le lacrime.
«Continueremo a lavorare insieme, tornerò a New York per i numeri speciali», abbozzai.
Annuii, tentando di ricomporsi.
«Bando alle ciance», squittì, afferrando la cipria poco distante «hai ancora la tua ultima intervista».
Sorrisi, scrutandola mentre malamente tentava di tornare nel suo ruolo di caporedattrice.
«Che ancora non ho capito con chi sarà», mormorai confusamente.
«Un'attrice emergente, non ricordo il nome», si affrettò a replicare, ritornando alla sua scrivania «è tutto segnato, non puoi sbagliare».
Scossi la testa, raccogliendo la borsa poco distante.
«Ti farò avere il pezzo entro lunedì», continuai, abbracciando la cartellina «Georgia?».
Alzò lo sguardo dallo schermo, speranzosa.
«Grazie», sussurrai «per tutto».
***
Una volta arrivata nella sala del costosissimo hotel scelto per l'intervista, mi posizionai sulla poltrona bianca indicatomi, una terribile sensazione ad attraversarmi lo stomaco: quella poltrona assomigliava in maniera spaventosamente reale a quella della prima intervista con Harry. Scossi la testa, tentando di scacciare quella stupida sensazione. Mi trovavo a New York, non alla Columbia Records. Dovevo solo respirare, fare quella dannata intervista di copertina e poi salire sulla prima metropolitana diretta al mio appartamento. Tentando di deglutire, feci per aprire la cartellina con gli appunti di Georgia, concentrandomi sui colori dei block-notes sparsi sulle innumerevoli pagine. Quanto tempo era trascorso da quella benedetta intervista? Dieci anni: dieci inverni, per la precisione. Io e quell'amore impossibile ci eravamo rincorsi in una maniera così assurda che ancora adesso, dopo tutto quel tempo, stentavo a trovarne una spiegazione logica. Harry aveva recuperato perfettamente la memoria: era tornato come nuovo e se possibile, ancora più attivo di prima. Dopo quelle folli settimane a Cabo San Lucas, lo seguì nelle varie visite e controlli medici. Trascorremmo insieme ancora un mese, per poi separarci alla volta di Marzo: il trauma si era perfettamente riassorbito, il suo corpo era tornato in totale funzione ed io, come da programma, avrei dovuto fare ritorno a New York il prima possibile. Ricordavo esattamente quel momento in ospedale, quando il dottor Drew aveva annunciato la totale guarigione di Harry: ci eravamo guardati intensamente e nei suoi occhi avevo scorto una grande delusione. Quella malattia che ci aveva paradossalmente riunito era fortunatamente terminata e noi, come sempre, eravamo pronti per tornare ai nostri posti di combattimento. Avrei voluto rimanere insieme a lui e smetterla di scappare: ero così stanca, così priva di forze. Era chiaro per entrambi che il nostro amore non sarebbe mai scomparso, ma le ragioni per le quali il lieto fine non poteva avverarsi erano ancora troppo opprimenti per poterle scacciare come tanti piccoli moscerini. Avevo così fatto ritorno a New York, mentre Harry aveva ripreso lentamente la sua carriera da popstar. Ci sentivamo di tanto in tanto, quel minimo necessario per garantire a Noah una certa continuità. In cuor mio, tuttavia, non l'avevo mai dimenticato. Harry restava l'amore della mia vita: il mio grande, impossibile, illogico e pazzo amore.
Gettai un'occhiata distratta all'orologio della sala, decisamente preoccupata da quell'estremo ritardo. Una volta rientrata a casa avrei dovuto terminare gli scatoloni per la partenza dell'indomani e se l'intervista si fosse prolungata, avrei avuto dei seri problemi ad organizzare quegli ultimi preparativi. Incapace di trattenere il tremore delle mani, iniziai a picchiettare nervosamente le dita sul bracciolo, facendo irrimediabilmente cadere la cartellina e gli appunti per terra. Tipico, Laura, tipico. Imprecando, feci per chinarmi, dei passi alle mie spalle ad avvertirmi che l'intervista stava per cominciare.
«Signorina, ha venti minuti», squittì quella che doveva essere la sua manager.
Era più che sufficiente sentire la loro voce per capirlo.
«Sì, scusate, ho avuto», ma non feci in tempo a terminare la frase che un fulmine a ciel sereno mi colpii.
Lui era lì, seduto sulla poltrona davanti alla mia, le gambe accavallate e un'espressione decisamente beffarda sul volto. Indossava la stessa camicia di dieci anni fa, quella stupidissima stampa rossa a fiori hawaiani che nessun'altro avrebbe potuto indossare se non lui. I capelli erano più corti e ben ordinati, mentre le sue braccia erano diventate più muscolose, segno evidente che in quell'anno la palestra era stata una buona valvola di sfogo. Sembrava stupido e ripetitivo a dirsi, ma era così indescrivibilmente bello. Rimasi immobile con quei fogli sparsi tra le mani, la bocca così spalancata da far male. La salivazione si era azzerata, mentre il cuore, presumibilmente, si era fermato.
«Ciao, sono Harry», esclamò, piegando le labbra nella sua solita smorfia.
Continuai a restare immobile, guardandomi attorno in cerca di una spiegazione logica.
«Harry, che diavolo stai combinando?», farfugliai, incapace di proferire altre parole.
«Sto tornando indietro di dieci anni», replicò, mantenendo lo sguardo nel mio «o di dieci inverni, se vogliamo essere precisi».
Deglutii a fatica, strabuzzando gli occhi.
«Non ti seguo», balbettai «e poi cosa ci fai qui, avrei dovuto intervistare una giovane attrice».
Oh, Georgia, maledetta Georgia: era tutta una farsa.
«Rifacciamo quell'intervista», sentenziò, alzandosi di scatto e prendendomi le mani «ma questa volta, ti prego, non scappiamo».
La testa mi girava così tanto da provocarmi delle forti scariche di vertigini. Di lì a poco, probabilmente, sarei svenuta.
«Sono qui per restare», continuò sempre più deciso «non voglio più andare da nessuna parte, non voglio più scappare o giocare, voglio rimanere con te».
Distolsi lo sguardo, cercando un appiglio a quel turbine di emozioni.
«E il lavoro?», domandai, scrutando nervosamente il lucente parquet dell'hotel.
Tirò un respiro profondo, aggrottando la fronte.
«Non posso lasciarlo, è ciò che amo fare», replicò «e lo stesso vale per te».
Annuii, un gigantesco peso a premere sul petto. Perché la realtà doveva fare così male?
«Non posso lasciarlo, è vero, ma posso diminuirlo», riprese «ho firmato per un album e un tour ogni tre anni».
Continuai a fissare il suo volto, incredula.
«Ovviamente starà a me e alla mia creatività, ma con questa clausola avrò molto più tempo da trascorrere con te e Noah», esclamò «il tour sarà limitato e non starò più lontano da Londra per così tanto tempo».
«Dammi l'occasione di essere più presente, ti prego», seguitò senza sosta «fammi diventare l'uomo della tua vita e un padre per Noah, permettimi di dire finalmente sì a tutte le richieste del passato».
Esitai, torturandomi il labbro inferiore con i denti. Con molta probabilità io ed Harry saremmo stati un disastro: avremmo litigato per ogni minimo dettaglio e ci saremmo persi ogni volta che le nostre carriere non avrebbero combaciato. Avremmo urlato e ci saremmo disperati, ma in qualche modo, dopo tanta fatica, avremmo ritrovato la strada di casa. Perché sì, ne ero certa: Harry era la mia casa ed io ero la sua e non importava quanto altro tempo sarebbe passato o quanta strada avremmo ancora percorso: avremmo sempre trovato il modo di tornare l'uno dall'altra.
«Ti prego, Laura, farei qualsiasi cosa per riaverti, qualsiasi», implorò «ho sbagliato, lo so, ho commesso mille errori, ma sono pronto a rimediare, a fare qualsiasi cosa».
Sorrisi, gettandogli le braccia al collo. Inspirai a pieni polmoni il suo profumo, godendomi la sensazione delle sue braccia attorno alla vita. Era bello, dopo così tanti anni, potersi finalmente abbandonare: smetterla di lottare, di mantenere quello stupido muro di divisione. Abbandonarsi a quel sentimento come se non si potesse fare nient'altro: respirare, semplicemente. Lasciarsi andare all'amore, avere fiducia. Tutta quella fiducia che non avevo mai avuto nelle persone. Harry mi aveva cambiata: prima del nostro incontro ero una semplice ragazza di Bath, una di quelle che si perde tra la folla e si uniforma alla massa. Non ero speciale, non avevo un tratto distintivo che mi facesse spiccare. Non c'era una particolare bellezza o una particolare dote. Ero semplicemente io, una giornalista di periferia con la passione per la pop-music. Piuttosto triste. L'incontro con Harry era stato devastante, ma non per i motivi che potreste immaginare. Al suo fianco non ero un semplice oggetto di accompagnamento che si posiziona sotto il braccio di uomini ricchi e senza scrupoli. Con Harry ero diventata una persona del tutto nuova perché stare con lui mi aveva fatto scoprire il valore che non pensavo di avere. La sua lontananza mi aveva rotta in mille pezzi, ma mi aveva anche costretta a rimetterli insieme, a cercare la mia strada, il mio destino. Harry mi aveva spezzata, è vero, ma da quella rottura ne era emersa una luce incredibile, una forza che non credevo di avere. Gli errori commessi erano stati innumerevoli e con molta sincerità, in quel momento, non avrei saputo dire con certezza se quella vita che Harry andava proponendomi avrebbe funzionato. L'aspetto totalmente nuovo è che questa volta volevamo scoprirlo davvero, senza più scappare, nasconderci o illuderci. Volevamo scoprirlo senza più basare la nostra vita su altri dieci inverni.
«Portami a casa», gli sussurrai nell'orecchio «portami a casa con te».
The end.
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