Buon appetito
T.w. cannibalismo
Non c'è niente di grafico ma mi sembrava giusto avvertirvi
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Di solito, i clienti iniziano ad arrivare alle nove di sera. Non troppo presto, quindi, anche se un assiduo frequentatore del De chair et d'os potrebbe facilmente individuare altri clienti abituali in giro per il quartiere nelle ore precedenti, come se la prospettiva di scendere le scalette di metallo fino al ristorante sia così eccitante che abbiano bisogno di stare nelle sue immediate vicinanze. Si riconoscono a vicenda, di solito. Non è difficile. Basta un luccichio particolare nello sguardo, una mano ingioiellata dotata di unghie un po' troppo lunghe e appuntite, un canino scintillante che scompare subito sotto labbra dipinte, una faccia così attraente e priva di imperfezioni da farti credere che non sia veramente una faccia. Si sorridono tra le luci a neon, come due cospiratori che condividono lo stesso delizioso segreto, poi fanno finta di niente, uno entra in un cinema, l'altro in un caffé, dove aspetteranno l'ora adatta a bussare sulla porta rossa. Non si salutano mai. La prima regola è non attirare l'attenzione in pubblico. Tranne che al De chair et d'os, ovviamente.
Al ristorante, nel frattempo, si fanno i preparativi. Claude cammina con passo autorevole tra cuochi, camerieri e sguatteri, mentre si apparecchiano i tavoli con tovaglie inamidate, si lucida ogni stoviglia alla perfezione e la carne viene tirata fuori dalle ghiacciaie, scongelata e affettata. Corregge ogni errore, ogni minima imprecisione con un cenno. Non ha neanche bisogno di parlare, ormai, il personale sa quello che lui vuole. Il ristorante ama coccolare i suoi clienti, e anche se non lo amasse dovrebbe farlo a prescindere, perché i clienti sono quelli che sono e chissà di cosa sarebbero capaci. Tutti hanno un bel caratterino là dentro, ma nessuno vuole rovinare un'occasione così speciale come una cena al De chair et d'os. Sarebbe uno spreco.
Claude detesta gli sprechi, ed è quello che l'estimato proprietario pensa mentre si appunta un giglio rosso sangue all'occhiello. Non è cresciuto nel lusso come molti dei suoi clienti. Non si sprecava mai niente, nelle remota regione del Canada da dove veniva. Aveva sempre apprezzato gli indigeni. Lo rispettavano più di quanto i bianchi avessero mai fatto. Stupidi francesi. Quindi, nonostante fossero molto lontani i giorni in cui cacciava nelle foreste canadesi, Claude non aveva dimenticato quanto fosse difficile e umiliante. La Fame andava combattuta, i suoi simili andavano aiutati, e niente andava sprecato. Per questo il ristorante esisteva. Claude si sistema le code del tuxedo e sorride, per quanto sorriso si possa chiamare.
"Mary, inizia a mettere la carne sul fuoco!" Grida, ma senza abbandonare il suo portamento composto. "Avremo un cliente importante questa settimana, ricordatevi!"
Poi iniziano a bussare, uno dopo l'altro. Il ristorante non si può vedere dalla strada: occorre attraversare un vicolo accanto a una drogheria ed entrare nell'edificio attraverso una finestra coperta da assi. Un tempo, prima che l'alcol fosse messo fuorilegge, era una distilleria. Probabilmente i proprietari si sono solo trasferiti in un posto un po' meno sospetto, e vendono ancora. Una volta all'interno, bisogna trovare una piccola porta color rosso ciliegia, e bussare tre volte. Solo allora bisogna dire la parola d'ordine: Tieste. A quel punto la porta si apre senza il minimo rumore, e attraverso una scala a chiocciola in ferro battuto si arriva al seminterrato.
Il profumo delle rose collocate ai lati del corridoio guida i clienti fino alla grande insegna di neon rossi che dichiara il nome del ristorante. Accanto a questa, un arco di pietra porta al salone. Dopo il buio del corridoio, non c'è che da rimanere abbagliati nella luce del ristorante. Ci sono candelabri d'argento su ogni tavolo, e lampade di vetro dalle forme astratte e misteriose diffondono una luce bianca e cruda sui commensali. Le pareti sono nascoste da lunghi drappi di velluto, da dietro i quali a ogni minuto spuntano fuori camerieri nelle loro uniformi color vino, senza un'espressione sul viso, reggendo vassoi scintillanti con un portamento perfetto; nessuno ha ancora capito dove si trovi la porta della cucina. Tutto all'interno del ristorante è rosso. C'è il rosso chiaro, quasi rosa, dei tovaglioli, quello cupo dei drappi alle pareti, quello acceso e vibrante dei tasselli lucidi sul pavimento. Sembra di essere nell'umida bocca di un animale.
Non ci sono gli stessi clienti ogni sera. Del resto non tutti hanno il privilegio di vivere in città o nei dintorni. Il ristorante è rinomato, bisogna prenotare con largo anticipo. Nonostante questo, Claude riconosce sempre facce familiari. Le saluta tutte, compiacendosi dei sorrisi beati dei clienti. La loro ammirazione per il famoso proprietario è evidente, ma la soddisfazione di Claude è maggiore quando riconosce un'altra espressione sul viso dei suoi clienti: quella felicità completa di essere lì, di essere circondati per la prima volta di loro simili, così tanti come non ne vedevano da tempo immemorabile. Oh, si ricorda di quando il ristorante aveva appena aperto i battenti, e per la prima volta anche lui aveva assaporato quella sensazione. Non avrebbe mai dimenticato l'euforia di quel momento.
Era convinto che i clienti amassero il De chair et d'os più per la compagnia che la cucina. Forse, se avesse aperto una sala da gioco invece che un ristorante, il successo sarebbe stato lo stesso.
Ecco che arrivano due delle sue clienti preferite, le sorelle Stefanidis. Greche, come si può intuire dal cognome. Come molti altri sono immigrate in America e hanno fatto fortuna. Vivono in Florida, quindi le vede raramente al ristorante, ma è sempre una delizia incontrarle. Sono vestite alla moda, con lunghi abiti verdi aperti sulla schiena e pellicce nere, i lunghissimi capelli grigi che incorniciano i loro visi quasi identici.
"Claude, che piacere vederla." Sorride la più alta, tendendogli la mano.
"Agathi, sempre il vostro umile servitore." risponde lui, baciandola. Deve piegarsi di molto, perché le sorelle non superano il metro e quaranta.
"Oh, Claude! Che galante!"
"C'è una folla notevole, oggi. Noto con piacere che gli affari vanno bene." Dice la sorella minore, guardandosi intorno.
"Michaela, sii sincera con me, ti sembra che gli affari di Claude siano mai andati male?" Sospira Agathi, facendo l'occhiolino a Claude. "Avete mai avuto delle difficoltà?"
Claude sorride appena. "Ne abbiamo avute, senza dubbio, ma la clientela è sempre stata costante e premurosa. Nessuno si è mai dimenticato di noi, esattamente come voi signore."
Le due sorelle ridacchiano come due ragazzine.
"E chi vorrebbe mai dimenticarsi di un posto unico come questo, Claude?" Chiede Michaela, con una punta di tenerezza negli occhi.
"Nessuno, spero." Dice Claude con gentilezza. "Forza, signore, non desiderate forse togliervi quei cappotti?"
Le due sorelle si guardano negli occhi, che scintillano di eccitazione e malizia.
"Beh, se insisti tanto, Claude..." Mormora Agathi, iniziando a liberare le spalle dalla pelliccia.
I cappotti cadono contemporaneamente, subito seguiti dai fruscianti abiti verdi. C'è qualche piuma grigia che svolazza nell'aria. Claude alza lo sguardo, ma non ritrova due sorelle Stefanidis che nascondono le gambe rugose sotto la sottoveste. Vede invece che al posto delle braccia dalle spalle delle sorelle spuntano ali grigiastre, così ampie che potrebbero avvolgere due esseri umani, coperte di piume grandi e spesse. Le sorelle hanno ancora un collo e un petto (coperto da un pratico corsetto nero) umani, ma alla fine della schiena spunta una coda di piume grige come quelle delle ali. Le Stefanidis stanno ancora scalciando via le scarpe, che rotolano presto sul pavimento accanto a quattro braccia di celluloide che sono cadute insieme ai vestiti, ormai inutili. Ora le due camminano sul pavimento grazie a robuste zampe di uccello dal colore scuro. Agathi e Michaela scuotono gli splendidi capelli argentati e sorridono a Claude con la stessa scintilla maliziosa di poco prima.
Il proprietario guarda le due sorelle senza battere ciglio. "Prego, signore, il vostro tavolo è pronto. Ferdinand si occuperà dei vostri vestiti."
"Spero lo faccia come si deve, visto quanto sono costati." Tuba Agathi mentre zampetta dietro di lui attraverso il ristorante. "Sembra che a Parigi il verde sia di gran moda, sa Claude?"
"Non ne dubito." Sorride il proprietario, scostando le sedie di un tranquillo tavolo all'angolo. "Prego, accomodatevi. Come sapete, non abbiamo un menù. Ditemi voi cosa gradireste stasera."
"Beh, Claude, come al solito. Giovane, tenero, con poco sale. A parte questo ci va bene tutto." Sospira Agathi. "E ben cotto, ovviamente, visto che non abbiamo questo lusso di solito."
"Sono sempre così salati una volta che li ripeschi dal mare." Dice Michaela con aria di disapprovazione.
"Provvederemo." Assicura Claude. Mentre Michaela continuava a blaterare, il proprietario vede con la coda dell'occhio un movimento presso la porta. "Vogliate scusarmi. Riferite ai camerieri le vostre ordinazioni."
Ferdinand stava prendendo i cappotti di un terzetto di clienti, due uomini e una donna, tutti alti, pallidi, e con folti capelli scuri. La donna si volta verso di lui, lo saluta e gli si avvicina. Con un po' di difficoltà, date le pesanti pieghe del suo lungo abito nero.
"Bine gasit, Claude." Dice la donna con un forte accento dell'Est.
"Casandra, quanto tempo. Pensavamo che non avremmo più avuto il piacere di averti con noi a cena." Fa un inchino.
"Mi piacerebbe venire più di frequentemente, ma non voglio abbandonare la magione troppo a lungo." Casandra sorride, un sorriso che ha qualcosa di innegabilmente strano. Forse anche disturbante. C'è qualcosa che non va. Sono le sue labbra? Le sue gengive? I suoi muscoli facciali?
"Sono sicuro che la Romania è una terra affascinante."
"Non sbagli. Conosci già mio fratello Cezar e il suo compagno, Decebal." I due uomini dietro di lei lo salutano. Indossano ampi giubbotti di pelliccia sopra gli abiti scuri.
"Lieto di rivedervi. Vi porto al vostro tavolo?"
La maggior parte degli avventori segue il terzetto con lo sguardo bisbigliando.
"Siete persone di alto lignaggio." Ride Claude.
"Siamo solo dei normali clienti." Dice Casandra, prendendolo sottobraccio, sempre con quel sorriso. Ecco cosa non va: sono i suoi canini affilati. "Mi sei mancato, davvero."
"Anche tu. Non mi scrivi mai. Perché?"
Casandra sospira. "Continuare a mantenere il castello sta diventando... difficile, ultimamente. Non abbiamo molto tempo, né io né Cezar."
Ormai sono arrivati al tavolo. Il fratello di Casandra si aggiunge alla loro conversazione.
"I tempi stanno cambiando, Claude. Il castello ha subito dei danni e non possiamo pagare le riparazioni. Un intera statua di marmo di tre secoli fa è venuta giù come se fosse burro. E siamo stati costretti a vendere a prezzo irrisorio metà delle terre di nostro padre per ... non so quali malintesi nelle carte di proprietà." Dice, cupo.
"Erano troppo attardate. Credevano fossero contraffatte." Continua Casandra.
"Contraffatte!" Cezar sbatte una mano sul tavolo, irato. "Che affronto alla memoria di nostro padre! Di questo passo, cosa varrà il nome dei Vladimirescu?"
Decebal gli accarezza la mano, per tranquillizzarlo. "La verità è che sta diventando sempre più difficile essere persone come noi."
Claude sbatte le palpebre. "Pensavo fosse difficile da molti secoli essere innamorati se non si è un uomo e una donna." Risponde educatamente.
"Oh! No, non quello!" Esclama Decebal, imbarazzato. "In realtà, dal momento che non appariamo spesso in pubblico, è facile salvare le apparenze. Pensavo più all'...altra cosa."
"Quindi ve ne vergognate?" Chiede Claude, incuriosito.
"Per me e Casandra è sempre stato un orgoglio." Dice grevemente Cezar. "Ma è perché siamo sempre stati in due. Decebel era solo prima di incontrarci."
"Non me ne vergogno!" Si difende Decebel, passandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio. "Non più. Ho imparato ad accettarlo come una parte di me. Ma è ancora doloroso pensare che non potrò più condurre la vita di prima."
"Anche questa vita ha dei pregi." Ribatte Claude.
"Ma non l'innocenza della precedente." Dice sommessamente il giovane, guardandosi le mani.
"Suvvia, la vostra condizione non significa che non abbiate più un cuore, o dei sentimenti. Vi resta ancora qualcosa."
Decebal non risponde, serrando i pugni con tanta forza da ferirsi i palmi con le unghie affilate. Dalle ferite non esce sangue. Neanche una goccia. Ha lo sguardo fisso su un commensale che mangia un' enorme coscia facendosi cadere addosso tutto il sugo. Il suo sguardo parla da solo.
"Decebal!" Lo chiama Cezar, afferandogli le mani.
"Lo facciamo per sopravvivere. La Fame-" Inizia Casandra.
Decebal si libera dalla presa del compagno con uno strattone. "La Fame è solo l'ennesima cosa che ci rende... che ci rende..."
"Mostri?" Completa Claude, sollevando un sopracciglio.
Il labbro di Decebel trema, e il giovane non prova neanche più a nasconderlo. "Te lo avevo detto che non dovevo venire con voi." Dice a Cezar trattenendo le lacrime, per poi spingere via la sedia, alzarsi e allontanarsi a grandi passi verso l'uscita.
"Tesoro, aspetta! Decebal!" Cezar rivolge a Claude uno sguardo furente prima di alzarsi a inseguire l'amato tra i tavoli.
Casandra e Claude restano seduti.
"Mi dispiace." Dice Claude. "Non volevo toccare un tasto dolente."
"Non scusarti. Non si è mai ripreso del tutto da... lo sai. È un bravo ragazzo, ma un po' fragile. E poi è un novellino, è con noi da meno di vent'anni. Ma siamo felici di conoscerlo." Sospira la donna.
"Soprattutto Cezar." Ammicca Claude.
"Soprattutto Cezar." Sorride Casandra.
"Però aveva ragione, prima." Casandra prende una rosa bianca dal centrotavola, e se la passa tra le dita. "È sempre più difficile essere come noi."
"Non saprei."
"Prima ci temevano, al massimo qualche volta tentavano di ucciderci. I loro racconti attorno al focolare ci rendevano immortali. Ora è l'era della scienza... siamo solo un cumulo di favole polverose. Nessuno crede più in noi."
"Non è una comodità? Ci nascondiamo meglio."
"Ma prima o poi, dovremmo mescolarci agli uomini. Iniziare a vivere come loro, insieme a loro. E a quel punto, cosa succederà?"
"Non ne ho idea. Ma credo che sarà molto interessante assistervi."
Casandra lo osserva con tenerezza.
"Sei un buon amico, Claude."
"Grazie. Anche tu lo sei."
Una cameriera si materializza accanto a loro. È Carol, con i suoi occhi arrossati e le unghie ingiallite. Poggia silenziosamente una brocca colma di un liquido rosso scuro e quattro calici sul tavolo. "Perdonate il ritardo." Mormora prima di sparire di nuovo tra la folla.
"Sanno che a voi interessa più bere che mangiare." Dice Claude prima di versare un bicchiere a Casandra e uno a sé stesso. "A te. Con succo di limone e liquore, come piace a te."
Casandra vuota il bicchiere tutto d'un sorso. Lo posa sul tavolo, rinvigorita, poi rivolge a Claude uno dei suoi sorrisi perturbanti, i denti macchiati di rosso scuro come una lupa che si allontana dalla sua preda. Qualcuno dovrebbe dipingerla come Persefone che affonda i denti in una rossa melagrana, ebbra del potere che sta per ricevere. Forse lo farà lui stesso, un giorno.
"Era perfetto come sempre, Claude." Dice carezzevole. "Ma ora devo andare. Devo ritrovare Decebal e mio fratello."
"Ci rivedremo, mia cara?" Chiede Claude, alzandosi per salutarla.
"Spero di sì. Ci tratterremo ancora qualche giorno. Spero di poter ritornare. Decebal non verrà, sicuramente, ma cercherò di convincere Cezar. Buonanotte."
Claude la guarda incamminarsi tra i tavoli e gli sguardi degli avventori come un'aggraziata falena, per poi imboccare l'uscita e sparire dalla sua vista.
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Ora, cammina ingobbito nel corridoio riservato al personale. C'è una luce debole che proviene dalla fine del corridoio, dalla porta a vetri che conduce alle cucine, e il corridoio è immerso nella penombra. I suoi piedi scricchiolano sul parquet. Sente rumore di pentole, di fornelli, di coltelli. Lame che calano, affettano carne e squarciano muscoli, mentre il sangue cola sul tagliere come se fosse un altare sacrificale. Verrà cucinata, oppure amorevolmente disposta cruda in un piatto insieme a verdure ed erbe aromatiche, e poi sezionata nuovamente con lame più sottili e piccole, prima di essere ingurgitata e digerita. A chi la mangia importa qualcosa da dove viene quella carne, come fosse fatto il corpo che componeva, quali pensieri scorressero per questo corpo? Non lo sa. Lui lo faceva, un tempo?
Il suono dei coltelli continua.
Ha fame.
Ha Fame.
Come ogni giorno e notte della sua lunga vita, da tempi immemorabili.
È passato così tanto tempo. Non si ricorda neanche più chi fosse il primo, a chi appartenessero quei lineamenti rovinati dal gelo della morte. Che sapore aveva il suo sangue mentre gli scorreva sul mento e la gola? Ricorda che la sua carne era fredda perché doveva essere morto da quasi un giorno, ormai, e perché la grotta dov'erano accampati era gelida. Faceva freddo, e non avevano cibo, sì, ora gli sembrava di ricordare.
Si ferma in mezzo al corridoio. La neve. C'era la neve. Neve bianca, neve rossa quando lui mangiava, neve nera quando calava la notte e gli veniva l'impulso di correre tra gli alberi e azzannare qualsiasi cosa si muovesse. Ma quello era stato dopo, quando la caverna non era più piena di cadaveri e la fame, anzi, la Fame, ricominciava a scavargli le budella.
Non li aveva uccisi lui, di questo ne era certo. Erano stati la fame e il freddo; ricordava le loro dita bluastre strette attorno alle armi. Morti tutti, tranne lui. Per quanto si scervella, non riesce a ricordare i loro nomi. Né il suo, quello vero, prima di essere Claude.
Ripensa a Decebal, poco prima. È vero, è sempre più difficile per chi non ci nasce. Come lui. Però gli anni passano, e i ricordi svaniscono. Diventa più facile continuare la tua nuova vita se non hai memoria della precedente. Ma qualche ricordo resta. Capelli neri sparsi su una federa. Erbe sminuzzate che cadono nell'acqua bollente. Canti attorno a un totem di legno. Una canoa che scivola nell'acqua. Il sorriso di una donna. Poi, tutto diventa troppo confuso per ricordarselo. E poi arrivano i ricordi che hanno sapore di sangue.
Sa che a quel punto del corridoio c'è uno specchio. è da tanto che non guarda il suo riflesso, forse da anni. Si gira, lentamente, senza aspettarsi sorprese, perché sa benissimo cosa sta per vedere.
Le sue corna raschiano contro il soffitto.
È sempre stato alto, ma ha l'impressione di essersi allungato, negli ultimi decenni, e che i suoi arti siano diventati più flessuosi e pesanti, al punto che è costretto a stare sempre ingobbito. Uno degli effetti delle corse nei boschi. Ed è magro. Così terribilmente magro, con quelle costole sporgenti e il suo corpo stretto, curvo e malnutrito che il tuxedo elegante riesce a malapena a nascondere. È un contrasto così strano. Il tessuto fine ed elegante sopra la sua carcassa che sembra potersi iniziare a decomporre da un minuto all'altro. Come uno scheletro nell' abito di gala con cui l'hanno seppellito.
Non sa quando le ossa del viso hanno iniziato a crescere, ad allungarsi, a trasformarsi, tendendo la pelle che dal suo caldo colore rosso-dorato era diventata grigiastra, in un modo che un tempo, forse, l'avrebbe spezzata, ma ora che è ruvida e irta di peli scuri non si comporta più come una pelle umana. La sua faccia ora è animalesca, simile a quella di un cervo macilento e tormentato dalla fame, con due orbite gigantesche e scure sulle quali in fondo, se si guarda bene, si possono scorgere due occhi piccoli, lucenti e iniettati di sangue. La sua bocca è diventata enorme, una caverna umida e sporca, con quei denti affilatissimi capaci di fare a pezzi anche il legno. E poi ci sono le corna, ovviamente. Bianche come le ossa, ramificate, talmente grandi che non può entrare nelle stanze senza chinarsi.
C'era un nome con il quale la sua gente chiamava quelli come lui. Qual era? Non riesce a ricordare.
Un tempo cacciava, ma gli animali non lo temevano, perché non era loro che voleva. Non gli riempivano lo stomaco. Aveva bisogno di altre prede, cacciatori che si separavano dal loro compagno, bambini che si erano persi nella foresta, donne che si erano allontanate in cerca di bacche e funghi. Se scappavano, li rincorreva. Alla fine li prendeva sempre. Scopriva di saper riprodurre ogni rumore, dal frusciare degli alberi a una voce umana. Era il cacciatore più temibile della notte, ma la sua Fame non gli lasciava un attimo di respiro. Doveva mangiare, riempirsi la bocca e lo stomaco di carne e di sangue, qualsiasi cosa lo facesse sentire pieno, anche se era un sollievo passeggero, dal momento che bastavano pochi minuti perché il suo supplizio ricominciasse.
Era prima che imparasse a controllarsi, quando correva ancora nella foresta come un animale. Poi erano arrivati quegli stupidi francesi, che erano riusciti a catturarlo. Lo avevano chiuso in una cassa e messo su una nave. Poveri illusi. Pensavano di venderlo come fenomeno da baraccone. Era scappato alla seconda notte, quando erano quasi arrivati al porto. Oh, era stato delizioso sentire le loro urla di paura e orrore. " Claude, le monstre! Claude!" Singhiozzava un uomo sul cadavere smembrato di un suo compagno. Gli piaceva quel nome, aveva deciso mentre gli affondava i denti nella gola.
Le scialuppe di salvataggio non erano così diverse dalle canoe sulle quali aveva navigato un tempo. Era arrivato in città silenziosamente, senza farsi notare. E poi era tornato ad essere un predatore della notte, ma un tipo diverso, che si rannicchiava nel seminterrato di un edificio abbandonato durante il giorno e attaccava solo nelle strade più sperdute e buie durante la notte. Aveva imparato a nascondersi dagli umani, a scegliere le sue prede con attenzione. Era diventato un mostro di città. E poi, quel seminterrato aveva ricominciato a ripopolarsi dei suoi simili, persone Affamate quanto lui. Avevano unito le forze per il bene comune. E il De chair e d'os era nato.
Ora, Claude guarda il suo riflesso a malapena distinguibile nella penombra. Il riflesso di un mostro. Cerca nella memoria qualcosa, qualsiasi cosa, che possa suggerire che non lo sia. Ha mai provato rimorso per un'uccisione? Si è mai sentito in colpa per aver mietuto una vita che poteva essere colma di speranza e di gioia? No. Non si vergogna ad ammetterlo.
Questo lo rende un mostro? Forse. Sa solo che ha Fame.
I coltelli continuano a tagliare.
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Quando entra, la cucina è al culmine dell'attività, così tanto che nessuno lo nota. Ne approfitta per guardarsi attorno. Ha sempre tenuto alla pulizia dei suoi locali, all'aspetto ordinato del suo personale. Negli anni, tutti hanno imparato un metodo perfetto, una serie di regole non scritte che rendono il servizio veloce ed efficiente. Niente va lasciato al caso. I camerieri si muovono silenziosi e leggeri come fantasmi, tanto che i clienti raramente si accorgono della loro presenza mentre consumano il pasto. Vede Carol entrare dalla stessa porta da cui è arrivato poco prima. Senza mutare la sua espressione apatica, gli fa un breve cenno di saluto con le sue mani pallide, dalle lunghe unghie giallognole. Ricambia il saluto. Il rispetto che i suoi dipendenti gli riservavano era una delle cose che lo rendevano più fiero della sua attività: sapeva di non averlo ottenuto con la prepotenza, ma con la comprensione nei riguardi di ognuno.
Carol attraversa la stanza e si avvicina a un ometto tarchiato dalla pelle color ebano, intento a rigirare in padella una bistecca; ogni tanto solleva l'orlo del cappello da cuoco sulla nuca e vi infila un pezzo di interiora. Si sente un notevole rumore di denti e mandibole, e alla fine il cuoco tira fuori dal cappello la mano vuota. Ascolta Carol dirgli qualcosa all'orecchio, per poi imprecare a voce alta.
" Carne giovane! Giovane! Perché sono tutti così ossessionati dalla giovinezza in questo ristorante?!" Esclama con voce stridula, continuando a rigirare la bistecca. "Ai miei tempi ci si accontentava di tutto quello che si muovesse!"
Claude, dall'altra parte della stanza, soffoca un sorriso.
All'improvviso, sente una mano poggiarsi sul suo braccio.
"Signor Claude," gli sussurra all'orecchio la voce roca di Ferdinand "lui è qui."
Claude sobbalza. Non per la mano, ma per il contenuto della frase.
"Lui? Qui? Ma al telefono mi aveva assicurato che non sarebbe arrivato prima di metà settimana!" Esclama, perdendo per un attimo la compostezza.
"Ha detto di aver anticipato i tempi della partenza, signore. Voleva farci visita il p-prima possibile." Balbetta Ferdinand.
"E dov'è ora?"
"È proprio questo il punto, signore. Lui... chiede se sarebbe possibile visitare le cucine."
"D'accordo." Dichiara Claude. "Le visiterà. Fagli da guida."
Ferdinand annuisce e sparisce dietro la porta che conduce al salone. Il resto della cucina guarda Claude. Tutti sono impietriti.
Claude prende un bel respiro.
"Signori." Dice con voce stentorea. "Diamoci da fare. E abbassate le luci. Ci attende un ospite importante."
Senza esitare, tutti tornano alle proprie mansioni con rinnovato impegno. Claude prende un respiro. Si sistema il giglio all'occhiello. Si passa una mano sul cranio come se volesse sistemarsi capelli inesistenti.
Infine, la porta si apre.
Sulla soglia c'è un uomo alto, dritto, vestito completamente di nero. Non è visibile un singolo lembo di pelle in tutta la sua persona, dal momento che è coperto da capo ai piedi. Indossa guanti di pelle e un cappello a tesa larga completo di un ampio velo nero che scende fino al suo petto, nascondendo completamente il suo viso. Simile a un lugubre allevatore d'api, si sorregge con un bastone d'ebano.
Claude china la testa in segno di rispetto.
"Signore, siamo onorati di avervi qui oggi. Ospitare qui una persona con un tale esperienza nel nostro campo è una pietra miliare fondamentale per il nostro ristorante." Dice.
"Mio caro ragazzo, lei mi fa sentire vecchio." Ride l'altro. Ha una voce calda e piacevole, anche se anziana. A Claude vengono in mente fiocchi di neve e sapore di caramello, un signore dal vestito rosso che chiede ai bambini cosa vogliono per Natale. Ma sa che non potrebbe esserci niente di più lontano dal suo ospite.
"Questo non toglie che sarete sempre una figura fondamentale per la nostra comunità, mister..." Claude tentenna, incerto sul nome da usare.
"Black. In America mi conoscono così." Si affretta a rispondere l'uomo.
"Mr. Black ... capisco." Annuisce Claude.
"Sono qui per visitare il suo ristorante, caro ragazzo, perché ritengo che abbiate avuto un'idea semplicemente eccellente con questo posto."
"Avreste potuto venirci a trovare prima, in tal caso." Risponde educatamente Claude. "Siamo in attività da quasi quindici anni."
La risata bonaria di Mr. Black zampilla nuovamente da dietro il velo nero. "Il tempo passa molto in fretta per chi è longevo come me. Non per vantarmi, ovviamente. E ho avuto molti impegni ... lavorativi, si potrebbe dire."Claude annuisce.
"In tal caso, posso farle da cicerone per questa sera. Cosa desidererebbe vedere come prima cosa?" Chiede.
"Ma la cucina, ovviamente!" Esclama l'uomo. "Non mi presenta i suoi dipendenti?"
"Preferirei non disturbarli mentre lavorano, Mister. È una serata impegnativa. Le basti sapere che la mente dietro tutti i piatti che potete gustare alla nostra tavola è Kariuki." Dice indicando l'uomo tarchiato e dalla pelle scura con una bocca sulla nuca.
Accanto a loro passano piatti colmi di sformati dorati, polpette perfettamente sferiche, tartare rosse come il sangue, arrosti invitanti guarniti di verdura e coperti di salsa.
"Un'opera ammirevole. Viene dall'Africa?"
"Esattamente. Nelle zone rurali ci sono ancora moltissimi dei suoi simili."
"Lo immaginavo. Non sarà facile trovare dipendenti in città."
"Oh, niente affatto."
"Come? Davvero?" Si stupisce l'uomo in nero.
"In realtà ci sono molti randagi nelle zone abitate. Sopravvivono di rimasugli, attaccando qualche passante solitario, o introducendosi negli obitori e nei cimiteri, il che è difficile e piuttosto umiliante. Soli, spaventati, inselvatichiti. Non ricordavano minimamente la potenza delle loro specie e il terrore che instillavano negli umani. Ci è voluto del tempo, ma li abbiamo convinti a venire con noi, uno dopo l'altro. Qui hanno rifugio, alloggio ... e vitto, naturalmente." Claude sorride con orgoglio. Il suo sguardo passa da Carol, che sta rientrando con dei vassoi in mano, a Ferdinand, dal muso canino, intento a parlare nervosamente con un cliente dall'altra parte della porta a vetro. "Siamo come una grande famiglia. Io ero come loro, un tempo, sa?"
Mr. Black si accarezza il mento, o almeno quello che Claude suppone che sia il mento. "Ed è questo che mi piace tanto del suo locale. Un posto creato per le persone come noi, da persone come noi. Anni fa ci saremmo sognati di costruire una comunità per aiutarci l'un l'altro. Ma i tempi cambiano." Conclude soddisfatto.
"Grazie a Dio." Sorride Claude. "Vuole vedere la ghiacciaia?"
"Pensavo che non l'avrebbe mai chiesto."
La ghiacciaia è una stanza piccola, bianca e asettica. I teli bianchi disposti per terra sono talmente immacolati che il sangue gocciolante dai pezzi di carne risalta in maniera così evidente da risultare disturbante. A Claude ricorda le sue uccisioni nel bosco invernale, ma non lo dice. I corpi sono attaccati al soffitto per i piedi con ganci di metallo. La testa dei più altri strofina contro il suolo, mentre i più piccoli ( e ce ne sono di molto piccoli) penzolano nel vuoto. Sono tutti nudi, rigidi e gelidi, i capelli incrostati di sangue secco, le unghie nere per la lotta che hanno sostenuto prima di soccombere, gli occhi persi nel vuoto per sempre. Alcuni sono già stati scuoiati. Senza più pelle, senza più un viso da riconoscere, sembrano solo il contenuto di una normale macelleria. Ci si potrebbe chiedere cosa c'è di così straordinario in loro.
Mr Black passeggia in silenzio, esaminando da dietro il velo ogni corpo, ogni volto. Infine si ferma nel centro della stanza.
"Guarda sempre la tua preda negli occhi prima di ucciderla. Rende lui conscio della morte, e tu del peso delle tue azioni. È un atto di rispetto." Sentenzia. "Non è una mia frase. Non ricordo di chi fosse. È importante? Io non sono un cacciatore. Vengo solo quando sono chiamato." Perlustra nuovamente la stanza con gli occhi. "Come li prendete?"
" Dipende. Facciamo i turni nelle strade meno frequentate e negli angoli più bui. Oppure scegliamo qualcuno che nessuno cerca o vuole, senza legami o persone che provano affetto per lui o lei, oppure qualcuno di così odiato che la sua dipartita crei più gioia che dolore. Siamo in molti, oltre ai dipendenti del ristorante ci sono molte altri che cacciano per me. Facciamo un buon lavoro." Risponde quietamente Claude.
"Qualcuno che nessuno cerca o vuole..." Mr. Black annuisce. "Sono strani. Si odiano e si fanno del male a vicenda senza accorgersi che ci sono minacce più grandi che incombono su di loro. Pensano di essere superiori e di aver conquistato il mondo..." una risata gli affiora alle labbra, ben più cinica rispetto alle precedenti. "... ma guarda come si fanno uccidere facilmente da un mucchio di vecchi mostri di cui nessuno si ricorda. In fondo, sono deboli. E arroganti. Non rispettano chi è su questa terra da prima di loro. Li hai mai sentiti chiamare cadavere il corpo di un animale che hanno ucciso? No, per loro è solo carne. Perché per noi dovrebbe essere diverso quando ci cibiamo di loro?"
Resta in silenzio per alcuni secondi, come se dovesse scegliere attentamente le sue parole. Claude resta nel suo angolo di stanza, senza aprire bocca.
"Non ho mai ucciso un adulto. Si rivolgono a me solo per portare via i bambini, quando sono stati cattivi. E poi si disperano quando trovano le camerette vuote. Mi chiedo, perché cercano così ardentemente quello di cui hanno paura?"
Il silenzio cala sulla ghiacciaia.
"Penso che lei abbia posto delle domande eccellenti, signore." Commenta infine Claude.
"Sono solo le divagazioni di un vecchio sciocco, ragazzo mio. Dovrebbero buttarmi in una palude, ormai." Ridacchia Mr. Black, l'aura seria di poco prima scomparsa. " Quindi, perché non mi porti a fare quello per cui sono venuto qui? Non vedo l'ora di provare l'esemplare cucina del vostro Kariuki."
"Immediatamente, signore. Voglia seguirmi."
Mentre imboccano il corridoio destinato al personale, Claude nota che il suo ospite non ha un'ombra. Non fa commenti.
"Signore?" Chiede mentre stanno per entrare nel salone.
"Sì?"
"Le andrebbe di dire due parole agli altri commensali? Non capita tutti i giorni di incontrare una persona così importante."
"Con piacere. Non c'è niente che mi renderebbe più felice, caro ragazzo." Dice Mr. Black, in tono giulivo.
Claude assentisce e spalanca la porta del ristorante, e immediatamente vengono investititi dal rumore delle stoviglie che tintinnano e di decine di bocche che masticano metodicamente. I camerieri sfrecciano nella sala rossa senza una parola, tra tavoli occupati dalle più bizzarre creature che si possono immaginare. C'è Mr. Halloway, un gigante dalla pelle verdastra e dalla mascella rientrante, che si gode un pasto con la famiglia. C'è Mademoiselle Françoise con la sua pelle a squame, che consuma la cena da sola in un tavolo all'angolo, leggendo un libro nonostante un frastuono. Ci sono le sorelle Stefanidis che mangiano senza mani , spargendo piume su tutto il tavolo. Con sorpresa nota anche Casandra, insieme a Decebal e Cezar che si tengono serenamente per mano, mentre conversano: devono aver cambiato idea. Sono tutti qui, nei loro vestiti eleganti. Hanno lasciato a casa le loro maschere e la paura di essere scoperti. È orgoglioso di loro, sono questi i momenti in cui se ne accorge.
"Signori, signore!" esclama a gran voce. "Uno dei nostri ospiti vorrebbe dirvi qualcosa!"
Tutti posano posate e bicchieri sul tavolo e a poco a poco smettono di masticare e parlare. Hanno riconosciuto tutti la nera figura accanto a lui. Sussurrano tra loro parole di meraviglia.
Mr. Black fa un passo avanti nel silenzio reverenziale che si è creato.
"Figlioli, mi dà molta gioia vedervi qui. Per molto tempo siamo stati divisi e ostili gli uni agli altri, preoccupandoci che avremmo potuto rubarci le prede l'un l'altro. Ma questo ristorante è una prova a favore del fatto che possiamo riunire le forze. Questo salone non ha niente di diverso rispetto a quello di qualunque ristorante della città. Gli uomini non sono gli unici a poter godere di un buon pasto in compagnia dei loro cari amici. Vedete, loro..." Abbassa leggermente la voce e si sporge verso gli ascoltatori. "... pensano di essere i signori di questo mondo. Hanno la scienza, le macchine, il progresso. Non c'è più spazio per quelli come noi in questo mondo avanzato. Si sono convinti che noi non esistiamo, che siamo solo il rimasuglio di un'epoca più buia. Che solo i bambini e i pazzi credono ancora alla nostra esistenza. Come se qualche secolo fa non si stringessero paurosi attorno al fuoco di una capanna temendo che noi ci nascondessimo nelle tenebre là fuori. Ma vi racconterò un segreto."
L'intera sala trattiene il fiato. Tutti pendono dalle sue labbra, persino Claude.
"Saremmo qui a banchettare insieme se fosse così?" Dice in tono ironico. "O forse, negano la nostra esistenza solo perché sarebbe qualcosa di troppo irrazionale per essere vero?" Fa una pausa ad effetto, mentre sembra scrutare tutti i presenti da dietro il suo velo scuro. "Tutti loro, ogni singolo umano di questa terra ha paura di noi, e l'avrà per sempre, perché siamo ciò che può distruggere le fondamenta di tutto quello in cui credono. Il loro mondo perfetto e ordinato non avrebbe più valore, e noi saremmo i padroni della loro terra, oltre che dei loro incubi. Ricordatevi che noi siamo le loro ombre. E nessun uomo può staccarsi dalla sua ombra." Conclude.
Per qualche secondo, la sala resta silenziosa e carica di elettricità statica. Poi tutti iniziano ad applaudire, a battere i piedi, ad urlare, suoni così spaventosi da far gelare il sangue nelle vene al più coraggioso degli uomini.
Mr. Black fa un inchino, e si rivolge al proprietario.
" Spero di aver detto quello che lei provava nel suo cuore." Dice, nel frastuono generale.
"Non avrei potuto dirlo meglio. Grazie" Risponde Claude. È commosso? È tanto tempo che non prova un'emozione del genere. "La porto al suo tavolo. Se lo è meritato."
Quella notte, nessuno in città dormì sogni tranquilli.
5950 parole
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