Capitolo 2: San Lorenzo
Pochi passi e il mio sguardo si ferma su una cascata di riccioli biondi adagiata su un corpicino semi nascosto dal compagno che la stringe a se; sembra Margherita, forse è lei, forse no, donna resasi protagonista di uno degli incontri più incredibili ed affascinanti che abbia mai vissuto. A pensarci bene è stata la cosa più vicina ad un colpo di fulmine che abbia mai provato. Non so se salutarla, o lasciarla lì come immagine nella mia memoria sbiadita e scolorita ma con delle sensazioni ancora vivide. I ricordi sono comunque già partiti.
Era già estate inoltrata, fine luglio, ma si lavorava ancora, in modo stentato, sofferto, già dal risveglio la mattina, con la città mezza addormentata e mezza in vacanza, sotto un sole obliquo ma incandescente. Avevo attraversato anche quella volta le strade semi deserte, il tipico scricchiolio della sabbia sahariana, posata dallo scirocco, sotto le mie suole, fino all'ospedale. Altre ventiquattro ore di sofferenza, poi l'agognata frescura del mare per tutto il giorno. Entro nello spogliatoio, aggredito dal getto di aria calda e maleodorante dell'aria condizionata, ovviamente mal condizionata, metto su la tuta verde e mi appresto a cominciare il turno. Saluto gli altri malcapitati, in tutto cinque o sei, in un angolo una matassa di trucioli biondi seduta con un vestito di lino bordeaux. Le stringo la mano senza troppo entusiasmo, a stento ne ricordavo il volto, figuriamoci il nome: la mia caffeinemia era ancora troppo bassa, come il mio morale.
Passa il mezzogiorno tra routine e l'amato liquido nero, lei riappare un paio di volte, fugacemente, troppe piccole emergenze. La giornata sembrava aver preso la solita pigra, noiosa piega, e tutti intendevano assecondarla. Anch'io avevo commesso questo errore, ignaro di ciò che mi aspettava di lì a poco.
Cena, pizza e birra, caffè. L'atmosfera si rilassa, la stanza echeggia di discorsi vari, sportivi, politici, futili. Dopo una delle mie solite battute sui comunisti, rivolta al sindacalista di fronte a me, lei riemerge da una torta al cioccolato e dice: «Non potrei mai scambiare una sola parola con uno di destra».
Mai dire le ultime parole famose, perché potrebbero esserlo davvero. Infatti, quella frase è stata come un interruttore, un sintonizzatore, la mia attenzione si rivolge finalmente verso di lei, sdraiata sul divanetto sgangherato, e non ne viene distolta fino alla mattina seguente. Dal gomitolo biondo mi osservano due occhi scuri, profondi ma luminosi, intensi e sorridenti, tra le sue labbra, mentre argomenta sugli uomini, luccicano due file di perle bianchissime e perfettamente allineate. Nome colorato, ben associato alla persona, Margherita. Non vestiva la solita banale tuta verde, ma un pantalone di cotone spesso, blu scuro ed una maglietta grigio chiaro, adagiata non troppo comodamente sulle sue piccole ma graziose forme; in vita una felpa, anch'essa blu scuro, come una turista a Napoli, in una giornata inaspettatamente calda. Il sindacalista bolscevico, illustrava la sua teoria sulle donne, lei, quella sugli uomini, animatamente, scostando dalla fronte, di tanto in tanto, una ciocca troppo invadente, una voce decisa, timbro duro, come due bastoncini di legno che strusciano fra loro, nota grave per una donna, ma nel complesso gradevole nelle movenze lievemente civettuole del viso. La sera diventa notte, gli infermieri cominciano i turni di guardia, restiamo soli. Finalmente dal generale passiamo al particolare, da uomini e donne arriviamo a noi. Originaria di un piccolo paese, a me quasi sconosciuto, trasferita a Napoli per studiare, da ogni parola traspare un animo complicato, la cadenza, le pause, poche in verità, e l'intonazione da comizio tradiscono una strana inquietudine, un'ansia di essere scoperta. Domande, tante, preferisce ascoltare piuttosto che parlare, ma anch'io, e piano piano, delicatamente, gentilmente, percorriamo a spirale la sua vita. Caratteristica particolare, divertente, ed intrigante è la sua tendenza a condire ogni suo racconto con vocaboli innaturalmente ricercati, d'odore filosofico, spesso composte in locuzioni assolutamente oscure, come a porre delle barriere subliminali al vero significato del suo discorso. Probabilmente un modo più o meno conscio per celare i suoi sentimenti ai semplici curiosi, a chi non fosse veramente interessato a lei. Una specie di codice d'accesso. Non era così con me. Ogni volta che Margherita si faceva scudo di parole vuote, le mostravo le mie mani aperte, disarmate, il mio fianco e la invitavo a spogliarsi della corazza. Il risultato è stato sorprendente: suoni affievoliti, luci soffuse, parole sussurrate, da sconosciuti intimi. Da distanza di sicurezza a corpi tangenti.
Il profumo, leggermente muschiato, appena percettibile, apprezzabile soltanto a pochi centimetri dalla sua pelle liscia, arricchiva gradualmente il quarto senso a lei riferito. Le ultime ore della notte passavano veloci, avendo superato le barriere del comune pensare, rilassati, godendo l'uno della presenza dell'altro, giacenti appoggiati un'anima sull'altra, sfiorandoci le estremità. Pochi attimi di incoscienza, dovuti alla naturale stanchezza circadiana, intervallati da lievi mormorii, poi l'alba. La luce spazza via il sonno, ma non le sensazioni, cerchiamo l'aria fresca del mattino arrugginito, sul terrazzo, in una fine foschia estiva per la eccessiva umidità collinare, godiamo, respiriamo, incuranti delle possibili conseguenze delle infinite sensazioni condivise. I viali deserti, alberi assonnati, un fresco profumo di erba e rugiada, un cane randagio abbaia in lontananza e ci corre incontro, paura, mi abbraccia, sento un fremito nella sua mano, ed un sussulto al mio fianco, incasso la mia reazione come un colpo che, all'ultima ripresa, si vede partire ed arrivare con la guardia ancora bassa. Sento il ritmo del suo cuore accelerare, forse per lo spavento, e, stretta al mio fianco torna al riparo, tra le solite mura. Riesco a sentire il battito nel mio petto, ha raggiunto i centoventi colpi al minuto, e non c'è nulla di cui aver paura.
Finalmente l'atmosfera complice della notte evapora, le sensazioni sbiadiscono, i colori impallidiscono, i profumi si mescolano con l'aroma del caffè mattutino. Tutto sembra accaduto molto tempo prima, come in un sogno: ci ritroviamo sullo stesso divano da dove c'eravamo conosciuti poche ore prima."
Il primo degli unici due incontri mi ha invaso la mente improvvisamente e totalmente, due assoluti sconosciuti, in una notte di mezza estate, che intrecciano le loro anime, si trovano come due tessere perfettamente combacianti di un puzzle ideale, chiedendosi perché non si sono conosciuti prima, promettendosi di rivedersi al più presto. Sarebbe successo.
"Al mattino l'accompagno a casa, vado via con un leggero velo di stanchezza sugli occhi, appena per appannare lo sguardo, ma non tanto da dover smettere di sorridere. «Ci sentiamo, usciamo insieme, ti do il mio numero», il nostro saluto, memorizzo un prefisso sconosciuto che ha reso unica quella sequenza.
La prima telefonata, per capire se avevo lasciato una traccia leggera, o se la sabbia aveva già coperto tutto, risponde con un «Pronto» deciso, con tono grave, assolutamente poco sensuale, ma unico ed irresistibile, poi un «Ciao» con una nota di piacevole sorpresa, ed un «Ti pensavo» assolutamente disarmante. Dopo quella, si sono successe tante altre comunicazioni telefoniche, alcune molto lunghe con analisi dei maggiori temi di attualità, altre molto più intime; durante una di queste è nato lo spunto per il nostro secondo incontro. Avrebbe cambiato turno per stare la notte nel mio reparto. Probabilmente entrambi avvertivamo le ragioni di tale decisione, ma dissimulavamo tutto con i motivi più improbabili.
Il giorno prefissato sarei stato rinchiuso per ben ventiquattro ore in quella assurda scatola condizionata di ospedale, ma lei non c'era, triste sorpresa, e deprimente prospettiva. A metà pomeriggio la sua telefonata, ha potuto cambiare soltanto per la notte. Meglio di niente. Ovviamente se fino ad allora il tempo era passato lento, da quel minuto in poi anche i secondi mi rintoccavano nelle orecchie. Interminabile attesa di una sconosciuta.
Poco prima del crepuscolo compare, nella sua insolita uniforme da turista, e la scena si ripete come in un copione già scritto, chiacchiere conviviali a cena, il solito comizio del bolscevico, gelato, limoncello, tutto uguale, come un dejà vu. Ma stavolta non eravamo lì per caso. Poi l'ora di dormire, finalmente soli, si rinfresca l'aria, ma non l'atmosfera, tesa e d'attesa, due pugili che si studiano, per trovare il punto debole, per entrare nella testa dell'altro. Tante parole, tanti significati, ma non quelli che si volevano trasmettere, la vera comunicazione era fatta di sguardi e gesti. Le vere parole erano quelle non dette. Piccole banali scuse per cercare un contatto, un anello caduto, un ciondolo capovolto, un orologio slacciato, pur di sfiorare la sua pelle per un istante di delizia. Lei mostra il fianco come un invito ad affondare i colpi della nostra sublime battaglia, ma non è ancora il momento, qualcosa limita i nostri gesti, li contraddice, li dissimula, forse la paura, forse la notte troppo chiara.
Si sdraia, su un fianco, mostrando il collo, bianco, invitante, non c'è posto sul divano, vieni ti faccio spazio, è scomodo, appoggiati. Ci troviamo in un abbraccio innaturale, a breve distanza, la mia schiena sul suo ventre, il braccio a tangere la spalla, vicini tanto da poter ascoltare le piccole variazioni di ogni respiro, non parliamo più, sussurriamo, non ascolto, sento.
Avverto finalmente anche il sottobosco della sua pelle, fresco, muschiato, ne respiro fino a togliere il fiato. Anche il cespuglio biondo, nel quale è appena scomparsa la mia mano, ha una sua peculiare essenza, percettibile soltanto a brevissima distanza. Silenzio, resto incatenato ai suoi occhi per attimi che sembrano ere, disegno il contorno del suo viso come farebbe un cieco, lei mi lascia fare, anzi schiude le labbra come per richiamare l'attenzione, che non si fa aspettare, chiudo gli occhi per concentrare la sensazione tra l'indice ed il medio, un lieve tremore increspa la superficie appena sfiorata, poi si distende, morbida, asciutta, appena ondulata, il profilo perfettamente riconoscibile. Riapro gli occhi, i suoi son chiusi, come in attesa di qualcosa, una carezza sulle palpebre per farle alzare. «Perché mi guardi», domanda stupida, rimasta senza risposta verbale. Notte inoltrata, i sensi bluffano: i corpi parlano, gli occhi ascoltano, le bocche confondono le orecchie. L'agitazione sale, l'emozione ribolle, la pelle freme, i gesti diventano imprecisi e scuotenti, le parole singhiozzate, mi stendo accanto a lei per controllare il tremore, temendo che tutto si spenga con un triste fumo nero sonnolento. A pochi millimetri dalle mie orecchie, ebbra di desiderio, ma lacerata dall'incertezza, sospira: «Ti aspetti che io faccia qualcosa?», il che parafrasato significava «Quando ti dai una mossa?».
L'ultima barriera era caduta, la distanza di sicurezza, seppur minima, oltrepassata, varcata la soglia del profondo, la passione può scorrere libera, tumultuosa, i corpi non si sfiorano più, ma tentano di unirsi centimetro su centimetro, poro su poro, cellula su cellula, come per trasmettersi aria, sangue e nutrimento, affamati separati soltanto da una noncurante striscia di stoffa, la morsa è violenta, inebriante, coinvolgente, dolorosa, ma incessante, la temperatura sale, improvvisa, e come lo champagne tenuto in ghiaccio, ed aperto al caldo, si dissolve in schiuma e spruzzi, così le emozioni tenute a freno da tempo si librano alte e vorticose, rimbalzano da un corpo all'altro, fino alle lacrime.
Così il sale dolce del suo pianto di gioia aggiunge un particolare all'ultimo dei sensi che mancava al suo ritratto, il gusto.
«Ho paura, non farmi male, ti prego», con queste sue parole bagnate mi apriva il suo animo, e mi chiedeva di cancellare le sofferenze precedentemente patite a causa di un inutile portatore sano di cromosoma Y. Saliamo in terrazza, l'alba era ancora lontana, l'aria appena fresca entra nelle narici, nei polmoni, evaporano i dubbi, si schiariscono le idee. La consapevolezza di essere noi, col mondo che dorme, a vivere un momento di assoluta, pura, limpida condivisione, uniti in un sentimento forte quanto giovane, fatto di passione e di ragione, che difficilmente si riesce a sperimentare, soprattutto in così poco tempo.
Delicatamente siamo tornati in noi, posate le ali che ci hanno accompagnato oltre le nuvole, rientriamo alla base, nella vita reale. Cominciano i dubbi, le domande, cosa farai, cosa dirai, ci rivedremo, cosa è successo, cosa succederà, perché io, perché tu. Ci teniamo negli occhi, lucidi di emozione, sapendo che la fine di quella notte, probabilmente, avrebbe frantumato il nostro fragile equilibrio in pochi secondi. Per questo, stretti sul solito divano sgangherato, abbiamo fermato il tempo, mentre lentamente scivolavamo nell'oblio.
L'alba non ci ha trovati impreparati, sapevamo che sarebbe arrivata, ma non avremmo mai accettato una simile sconfitta, quindi decidiamo di continuare a percorrere la stessa strada, andiamo da lei per la colazione. Fuga in motocicletta, con strette fra le mani ancora le emozioni della notte appena sfumata, entriamo in un anonimo palazzo, con i condomini seduti, fiacchi per il caldo, a fare da vestibolo. Chiudiamo il mondo fuori dal suo appartamento. Caffè, biscotti, una piccola cucina in una casa in affitto, frigo bianco economico, telefono a rondella con il conta scatti, per l'altra inquilina. Mi mostra la sua piccola reggia, sulla sinistra un letto con un variopinto copriletto, scrivania per le sudate carte, televisione, una radio e vestiti, scarpe, borse, disposti in ordine sparso come chi non aspetta visite. L'ambiente familiare ridona coraggio alla piccola anima davanti a me, si siede su una poltroncina colma di vestiti e con voce civettuola mi chiede di voltarmi, perché ha vergogna, ma prima che comprenda il senso delle sue parole, si sfila con noncuranza maglietta e jeans e, dopo un istante di incertezza per lasciarsi apprezzare, o per scegliere, mette su una sottile sottana a fiori di cotone, per comodità. Chiudiamo ancora gli occhi, e godiamo ancora del puro piacere dell'abbraccio, è amore, passione, non può essere altro, nulla esiste ed è esistito da dodici ore fino ad ora, soltanto lei ed io. Ci bastavamo come l'aria e l'acqua."
Una storia d'amore nata e finita in una sola notte, proprio quella di san Lorenzo, come una lunga, interminabile, effimera, sfolgorante, brillante scia di una stella cadente, che tutti sperano di vivere, ma che nella maggior parte dei casi possono solo desiderare col naso all'insù aspettando fiduciosi il passaggio di una meteora, come ogni dieci agosto davanti ad un falò.
Non ci siamo rivisti mai più, comunque non in quel modo, sono partito il giorno dopo per le vacanze, con una altra donna, che credevo di amare da tempo, con la quale sostenevo di avere una relazione forte, stabile. E forse era vero, per questo, forse per non far soffrire il bel fiore d'agosto, o per non distruggere la sua stabile vita, la ho salutato tornando a casa e dimenticando il suo numero.
La musica è finita, ma è bello pensare che potrò sentirla ancora, magari tra dieci minuti, aspettando qui, su una panchina vicino all'acquario, oppure chissà, incontrando una bella Margherita.
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