21 - 31 Mervan Rd, Londra
Sentiva la testa pulsare, facendogli dolere le tempie.
Sentiva la bacchetta scivolargli tra le mani sudate e il respiro accorciarsi ad ogni passo, fatto tra l'immondizia abbandonata di un vicolo maleodorante.
Si era smaterializzato all'angolo della strada, usando come complice l'oscurità appena violentata dall'alba.
Il mangiamorte pronto ad uccidere impresso a fuoco negli occhi e l'uomo impaurito arpionato ad un cuore che non aveva mai sentito far tanto male.
Corse, Severus Piton, abbandonando per un attimo la prudenza che i suoi passi fermi e leggeri gli avevano sempre garantito tra le ombre della notte.
Raggiunse il portone in legno marcio di un caseggiato che sembrava essere stato abbandonato molti anni prima, alle intemperie e all'impietosità di uno smog che non gli aveva lasciato scampo.
I fili dei citofoni babbani mezzi rotti pendevano dal muro scrostato come le arterie di un cuore che aveva smesso di battere.
Con un incantesimo sibilato tra i denti avvertì la serratura arrugginita scattare nel silenzio.
Superò la soglia, avventurandosi su una scala buia, dove l'odore di muffa e le ragnatele la facevano da padroni indiscussi.
I gradini scivolavano sotto i suoi passi da assassino, senza fare alcun rumore, senza rivelare la sua presenza, da sempre così abile a nascondersi.
Scrutò gli ingressi logori di quelle che un tempo erano state case senz'anima, concesse da un destino crudele ad uomini la cui fortuna era stata voltata dalla parte sbagliata, per tutta la loro esistenza.
Salì un piano, poi un altro.
Il silenzio era quasi assordante, interrotto dallo squittire di topi solitari che avevano trovato il loro posto per vivere.
Raggiunse il terzo piano con la bacchetta sguainata davanti al volto.
Pronto ad uccidere, ancora.
E questa volta senza alcuna pietà.
Una porta, sul fondo del corridoio, gli apparve subito meno dimenticata delle altre.
Acuì i suoi sensi di spia fino allo spasmo, attento a cogliere il minimo suono, il minimo segno della presenza del pericolo.
E di lei.
Si avvicinò piano, Severus Piton.
Non un rumore, non un respiro.
E per un attimo gli parve di aver passato la vita ad allenarsi per quel momento.
Gli parve che tutti gli omicidi ingiusti, tutti gli appostamenti nell'ombra, tutte le abilità acquistate a suon di macchie sull'anima, fossero serviti a quel momento.
A permettergli di salvare la donna che si era ritrovato ad amare.
E si sentì meno marcio.
Assurdamente, si sentì meno impotente al cospetto del suo passato.
Appoggiò il palmo di una mano sulla lamiera malconcia.
All'interno faceva caldo.
Un fuoco accesso tentava di sfidare gli spifferi dell'inverno che si infilavano ovunque tra le fessure degli infissi e delle pietre esauste.
Trattenne il respiro.
Lei era lì.
E c'era anche lui, chiunque egli fosse.
E doveva morire.
Severus Piton pregò per essere davvero abile come i rotocalchi di mezzo mondo lo avevamo sempre dipinto.
Pregò per essere ancora una volta l'assassino invincibile.
Ed infine pregò per riuscire a salvarla, Hermione Granger, l'avvocato dalle parole squillanti e dagli occhi pieni di sole.
La donna dal sorriso disarmante e dall'odore di vita.
Pregò per riuscire a salvarla, a qualsiasi costo.
Anche se quel prezzo fosse stata la sua morte, perché allora sarebbe morto per qualcosa per cui fosse valsa la pena morire.
E mentre quelle preghiere, lasciate uscire tra i primi raggi di un'alba sopita, gli lasciavano il petto per trasferirsi sui palmi delle mani, spinse la porta senza fare alcun rumore.
Una stanza arrangiata alla bene meglio si stagliava davanti ai suoi occhi, illuminata dal fuoco verdastro di un camino.
L'odore di cenere e di legna ancora verde gli invase le narici.
Si avventurò con un passo sulle assi di legno di un parquet che i tarli avevano consumato quasi del tutto, e si stupì della sua abilità di non generare alcun suono.
Fu così che la vide.
Seduta su un letto dalle coperte di velluto rosso, con le gambe incrociate, le mani legate e lo sguardo di chi continuava a cercare un modo per salvarsi la vita.
Sullo zigomo, un livido grosso come una noce, faceva capolino dai ricci spettinati, lasciati cadere senza un ordine apparente fino al collo della camicetta di seta, stropicciata e sporca di sangue.
Severus Piton aveva visto più di quanti orrori gli occhi di un uomo potessero sopportare, eppure l'immagine di lei, impotente in mezzo alla paura, gli fece risalire la bile su dallo stomaco, fino ad invadergli la bocca.
Fece un passo verso il centro della stanza.
I sensi tesi fino a farsi bruciare le tempie.
Vide gli occhi di Hermione voltarsi, raggiungerlo, trafiggerlo e fargli tornare nella gola un respiro che aveva abbandonato nella presidenza di Hogwarts.
Lei gli sorrise, con lo sguardo che si riempiva di lacrime, in un misto di gratitudine e terrore.
E lui si sentì nell'unico posto al mondo in cui avrebbe voluto essere.
Si portò un dito sulle labbra, la bacchetta ben salda nell'altra mano.
Le intimò con quel gesto muto di restare immobile.
Lei fece un solo, minuscolo cenno del capo, indicandogli una stanza più piccola, nascosta nell'angolo buio vicino alla finestra.
Lui era lì.
Avrebbe voluto correrle incontro, Severus Piton, toglierle quei lacci dai polsi, pulire il sangue dalla sua camicia e lenirle, con una delle infinite conoscenze che possedeva, il dolore che le pulsava sullo zigomo.
Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, sollevarla da quel letto sudicio e portarla via, avvolta nel calore del suo mantello nero.
Ma sapeva cosa fare, il mangiamorte addestrato ad uccidere.
E lo fece.
Con il passo più leggero che riuscì a trovare si avventurò verso il camino incorniciato dalle finestre, raggiunse la porta della piccola stanza sul fondo, e lo vide.
Era di spalle, intento a rovistare dentro ad un qualche contenitore appoggiato su un tavolo di fortuna.
Fu in quel momento che l'uomo con la maschera si voltò di scatto.
Forse Severus Piton aveva sottovalutato la sua bravura, o forse semplicemente la fortuna gli aveva strizzato l'occhio al momento giusto.
Quando il suo sguardo incontrò quello dell'uomo sotto la maschera, non si concesse il tempo di pensare.
Gli lanciò un incantesimo, mirando al petto, mirando al cuore, mirando ad uccidere.
Senza sensi di colpa, senza ripensamento alcuno.
Ma solo con una rabbia cieca che implorava vendetta.
L'uomo sguainò la bacchetta, si protesse alla bene meglio con un incantesimo di difesa troppo flebile che lo fece barcollare sulle gambe fino a rovinare sul tavolo.
L'asse di legno malconcia traballò rumorosamente, fino a disarcionare l'infinità di oggetti inutili che le stavano placidamente appollaiati sopra.
Si riprese in fretta, scagliando addosso a Severus un incantesimo che andò a schiantarsi sullo stipite della porta.
Severus fece scintillare la bacchetta.
Lo tramortì ancora.
Senza darsi la pena di vedere se fosse ancora vivo e, con tutta la forza che aveva nelle mani, gli scagliò l'ennesimo anatema mortale.
Il più sporco, il più rivoltante e infallibile imparato nella sua vita perversa.
Uno di quelli che gli aveva insudiciato l'anima per tanti anni e che, adesso, si rivelava essere un fedele compagno su cui poter fare affidamento.
L'uomo cadde a terra, un sacco di vestiti neri e una maschera d'argento dagli occhi privi di vita.
Severus si avvicinò piano.
Aveva lottato con molti maghi pericolosi prima di allora, e assicurarsi di non correre altri pericoli rientrava in un addestramento che non lasciava spazio all'interpretazione.
Si chinò sul cadavere dell'uomo, ma prima che potesse strappargli dal volto la maschera, questo si dissolse nell'aria come polvere soffiata via dal vento.
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