42. Parlarsi

Il ritorno in macchina fu decisamente pesante.

Per fortuna casa di Léon era abbastanza vicina al luogo in cui si trovava sua madre, altrimenti Seba non era sicuro che sarebbe riuscito a guidare a lungo.

Erano rimasti lì quasi un'ora, dopo che il francese aveva deciso di raccontargli cos'era quella tempesta che si portava sempre negli occhi, e lui era decisamente devastato.

Gli aveva raccontato di com'era stata la sua vita dopo che lo avevano liberato, il primo novembre di due anni prima.

Sebastiano aveva ascoltato gli incubi che lo perseguitavano quasi ogni notte, gli attacchi di panico dei primi periodi, il percorso con lo psicologo, l'isolamento a cui si era auto costretto.

Ogni parola che usciva dalla bocca del più grande era come un graffio sul cuore.
Aveva ricollegato tantissime cose, mentre in silenzio ammiravano quella donna passeggiare in giardino.

Le lucine sul letto, ad esempio.
Léon probabilmente aveva sviluppato una sorta di fobia del buio, ecco perché le teneva sempre accese durante la notte.

E l'odio per il trentun ottobre. Se era stato liberato il primo novembre, voleva dire che aveva scoperto che era Antoine il suo carnefice proprio la sera prima. Ecco perché non voleva uscire e festeggiare Halloween con loro.
Eppure, alla fine, l'aveva fatto.
Era passata la mezzanotte, certo, ma Léon aveva comunque trovato il coraggio di uscire e andare per locali solo per accontentare Sebastiano.

E la prima volta che si erano visti, al bar, quando aveva detto che doveva correre in ospedale! Non era lì che andava, ma da sua madre... Ecco perché faceva in tempo ad andare e tornare!

Il modo distaccato con cui guardava la signora Maria ora gli sembrava molto più logico: quella non era sua nonna, era la nonna di Isabelle, dunque la madre di Antoine.

Léon gli aveva raccontato che si era trasferita in Italia molti anni prima di loro, e non aveva più rapporti col figlio da tantissimo tempo. Non è normale che una madre, una nonna affettuosa come sembrava essere lei, troncasse i rapporti col sangue del suo sangue.

Ecco perché lei lo guardava sempre con quell'espressione mortificata in viso. Ecco perché aveva sempre gli occhi colpevoli: sicuramente sapeva di aver messo al mondo un mostro, e in parte si sentiva responsabile per lo schifo che aveva fatto a Léon.

E la sera in cui Sebastiano gli aveva chiesto di suonare il violino, subito dopo che Léon si era svegliato da quell'incubo.
Dio, ora si sentiva così in colpa per avergli chiesto proprio quello! Sicuramente aveva sognato Antoine, in una di quelle sue performance da musicista squilibrato, e Seba senza saperlo gli aveva chiesto di prendere in mano lo strumento che probabilmente lo terrorizzava di più al mondo.

Cazzo, che razza di coglione era stato.

Ecco perché sul suo viso si era formata quella smorfia sofferente; ecco perché aveva quel terrore negli occhi.

«Sébastien?»

Il suo rimuginare fu bloccato dalla voce di Léon, e lui si voltò a guardarlo distrattamente.
«Mh?»

«Casa mia era quasi un chilometro fa.»

Seba si guardò attorno.
Era vero, cazzo, l'avevano passata da un pezzo.
Fece inversione nel parcheggio che si trovava poco più avanti e tornò indietro.

Entrarono in casa senza fretta, mentre Seba strascicava i piedi come se attaccata ad essi ci fosse una palla di ferro pesante almeno cento chili.

E invece era solo il peso della verità, quello che si portava addosso.
Si era sentito così impotente nei confronti di Léon.

Aveva guardato sua madre a lungo, una donna dai lineamenti delicati come il figlio, con gli occhi dello stesso colore, ma estremamente vuoti.
Si vedeva che era una persona a cui era stato sottratto un pezzo importante di vita.
Sapeva, da qualche parte dentro di sé, che una parte del suo cuore era libero di camminare in giro per il mondo, eppure aveva deciso di non ricordarlo.
Aveva cancellato i ricordi dei suoi due figli, rimanendo così perfettamente conservata fuori, ma mortalmente vuota dentro.

Chissà quante volte Léon era andato da lei nella speranza che lo riconoscesse, che gli lasciasse una carezza.
Anche quel giorno si era avvicinato a lei, addirittura gli aveva presentato Sebastiano.
E lei l'aveva guardato, con quegli occhi fatti di niente e quel sorriso artificiale, e aveva mosso appena la testa su e giù.

A Sebastiano si era stretto il cuore nel petto, e aveva intrecciato le dita alle sue nella speranza di alleviare almeno un minimo quel dolore che gli leggeva sul viso.

Léon, il suo Léon...

Quel ragazzo che era arrivato dal nulla pochi mesi prima e si era fatto strada pian piano nella sua testa, tra le pieghe della pelle, nel sangue.

Aveva creduto di impazzire quando, seduti su quella panchina, gli aveva raccontato il suo dolore.
Gli era sembrato come se il mondo gli fosse caduto addosso.
Si era sentito così piccolo, così impotente di fronte a tutta quella sofferenza.

«Stanotte non ho quasi chiuso occhio, sono stanco morto... Ti dispiace se vado a dormire un po'?»
Di nuovo, Léon l'aveva fatto tornare alla realtà con la sua voce.

«No, certo. Posso venire con te?» chiese, sperando che il più grande non lo avrebbe allontanato.

Lo vide sorridere e allungare una mano per lasciargli una piccola carezza.
«Non ti preoccupare, sto bene. Non ne ho bisogno.»

«Lo so, ma ne ho bisogno io.»

Il più grande annuì e insieme si avviarono al piano superiore.
Si infilarono sotto le coperte dopo aver indossato una tuta, e subito Sebastiano lo prese tra le braccia.

Inspirò forte il suo odore, con l'intento di incamerarne il più possibile, mentre tutto ciò che gli aveva confidato Léon faceva ancora su e giù nei suoi pensieri.

Fu un gesto automatico: sollevò la maglietta del francese e osservò il suo petto, quella pelle che era stata violata da una mente malata, sotto gli occhi sbarrati del biondo.

Si avvicinò piano e alzò lo sguardo su di lui in una silenziosa richiesta, prima di procedere. Lo vide annuire appena e poggiò le labbra, lievi, sulla prima cicatrice, mentre gli occhi gli si riempivano di dolore e impotenza.

Un taglio, un bacio, una lacrima.
Una cicatrice, un tocco, un perdonami.
Se non ho capito, se non ho chiesto, se non ero con te.

Questo pensava Sebastiano, mentre cercava di lenire ogni sfregio sulla pelle delicata di Léon.

«Come si supera tutto... quello?» azzardò a chiedere dopo minuti di silenzio in cui erano rimasti a guardarsi negli occhi. 

Sul viso del biondo comparve una smorfia, una specie di sorriso triste, arreso.
«Non si supera. Si affianca, semmai.»

Sebastiano annuì, pensando che probabilmente lui non avrebbe avuto la forza per convivere con una cosa del genere.

«Sei forte» disse, rendendosi conto che era la prima persona di cui pensava una cosa del genere.

Era forte davvero, Léon, se era riuscito a scendere a patti col suo dolore e non diventare un mostro a sua volta.
Era forte davvero se aveva avuto il coraggio di tornare a sorridere, o a ghignare come faceva di solito.

«Dormiamo un po', okay?» chiese di rimando, probabilmente in imbarazzo per quello che Seba gli aveva appena detto, o forse in disaccordo.

«Okay.»

Léon chiuse gli occhi e Seba lo riportò a sé, facendogli appoggiare la testa su di lui.
Era quello il suo posto: appoggiato tra il cuore che aveva occupato e la spalla che gli avrebbe offerto per aiutarlo a portare un po' di tutto quel dolore che aveva dentro.

Sebastiano appoggiò sul tavolo della cucina un piatto ricolmo di pancake.
Léon gli aveva confidato qualche tempo prima che ne andava pazzo, e gli era sembrata una buona idea prepararne un po' per fare merenda insieme.

Avevano dormito un paio d'ore e si erano svegliati tutti e due con una fame incredibile.
Prese posto sulla sedia di fronte a lui e lo guardò di sottecchi, mentre infilzava con la forchetta uno di quei dischetti.

Sembrava tranquillo, così tranquillo che Seba stava iniziando a preoccuparsi.
Era davvero così che stava, o aveva semplicemente imparato a fingere bene?
Forse non voleva preoccuparlo? Oppure, magari, non voleva essere compatito.
E lui cosa doveva fare? Far finta di niente e trattarlo come sempre, o mostrarsi più premuroso?

Le domande confuse continuavano ad agitarsi nella sua testa, mentre il più grande sembrava godersi il pasto in tutta serenità.

«Okay, cosa c'è?» gli chiese all'improvviso, subito dopo aver lasciato cadere la posata sul piatto, producendo un rumore stridulo che fece accapponare la pelle a Seba.

«Niente, perché?»

«Perché continui a guardarmi come se dovessi morire davanti a te da un momento all'altro.»

Seba sbarrò gli occhi e iniziò a giocare col cibo, l'aria colpevole e le guance tinte di rosso.
«Non ti guardo così, ti guardo e basta» borbottò.

«No! Ieri mi guardavi e basta. Stamattina mi guardavi e basta. Adesso mi guardi preoccupato, e la cosa inizia a farmi incazzare.»

Seba alzò gli occhi su di lui. Aveva lo sguardo nervoso e le labbra serrate in una linea dritta.
«Scusa, è solo che-» ma Léon non gli diede tempo di finire la frase.

«Senti... Quello che ho passato me lo ricordo ogni giorno, a tutte le ore, te lo posso assicurare. Non ho bisogno di qualcuno che mi guardi con quell'aria triste. È una cosa che non sopporto.»

Un pugno in pieno viso avrebbe fatto sicuramente meno male. Ora non solo si sentiva male per tutto ciò che aveva subìto Léon, ma si sentiva pure in colpa per averlo guardato nell'unico modo che l'altro non tollerava.

«D'accordo» disse con un filo di voce, sperando che Léon non se la fosse presa troppo, «Isabelle e tua zia?» chiese cercando di cambiare discorso.

«Oggi sono al centro commerciale, hanno già iniziato a cercare un vestito di carnevale per mia sorella» rispose Léon scrollando le spalle e ricominciando a mangiare.

«Da cosa si vuole travestire?»

«Da principessa, ovvio!»

Seba scoppiò a ridere; effettivamente ce la vedeva proprio a Isabelle, con quei lunghi capelli biondi e gli occhioni azzurri, a vestire i panni di una principessa.

«Dovremmo organizzare qualcosa anche noi» propose poi.

«Perché? Vuoi metterti anche tu una bella corona con diamanti finti?» lo prese in giro il francese.

«Spiritoso, davvero! È che è un po' che non usciamo tutti insieme, vorrei farlo prima di...» serrò le labbra all'improvviso e cercò di rimediare come meglio poteva «Dell'arrivo degli esami.»

Si alzò e andò a depositare il suo piatto nel lavello, aprendo il rubinetto per iniziare a lavarlo.

«Gli esami sono a giugno» ribatté Léon, confuso.

«Appunto, meglio farle ora le uscite. Dopo sarà un casino organizzarci.»

Seba sentì le mani del più grande sui suoi fianchi e sussultò.
Quando si era alzato? Non aveva fatto il minimo rumore, era peggio di un felino, per Dio!

«Prima di?» gli chiese, subito dopo aver appoggiato il mento sulla sua spalla.

Seba sospirò e chiuse il rubinetto, poi si girò verso di lui.
Cielo, era in imbarazzo da morire, infatti iniziò a far vagare lo sguardo in giro per la stanza senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi.

Fu quando Léon gli afferrò il viso e lo obbligò a farlo che finalmente fece collidere le loro iridi.
«Voglio parlare con Chiara e dirle che dobbiamo lasciarci» trovò il coraggio di dire.

Le labbra del francese si aprirono in un sorriso bellissimo, prima che le poggiasse sulla sue.

Era fatta, pensò Seba, aveva scelto di renderlo partecipe della sua decisione e lui aveva reagito bene. 

Ora non restava che parlare con lei, poi avrebbero avuto tutto il tempo del mondo dalla loro parte.

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