Per un caffè e due chiacchiere notturne.
«Amore...»
Con la faccia ancora ben nascosta dal morbido tessuto della felpa di Simone e le sue braccia a stringerlo al petto, Manuel si stiracchiò appena nel raggio dei movimenti a lui consentiti.
Puntò le mani sulle spalle dell'altro per risollevarsi appena, movimento che fu prontamente bloccato dal più piccolo che rinsaldò la presa con i palmi sulla sua schiena.
«Amore, stai.» gli sussurrò piano, affondando una mano tra i ricci morbidi.
La voce appena udibile risultò come il continuo di una conciliante ninna nanna.
Si lasciò cullare per un attimo, accoccolandosi di nuovo sulla sua spalla e lasciando andare un piccolo sbadiglio che riscaldò il collo dell'altro.
Strizzò piano gli occhi per ridestarsi dal sonno e vincere alla tentazione di addormentarsi nuovamente, in quella posizione lievemente infantile.
Con le gambe lunghe sul divano e il busto mantenuto dal braccio dell'altro, sembrava davvero un bambino addormentato tra le braccia di un grande.
Spostò lievemente il volto per rivolgere lo sguardo al vecchio orologio a colonna posto in un angolo della sala.
Complice anche quella leggera miopia che si portava addosso già da un paio di anni, per Manuel era praticamente impossibile mettere a fuoco le piccole lancette appuntite che si muovevano lente dietro quell'opaco vetro che le proteggeva.
Lasciò sfuggire un secondo sbadiglio, più sonoro, utile anche a schiarirsi la voce.
Si scostò dalle braccia dell'altro, scivolando verso la parte vuota della seduta per raddrizzare le schiena.
La coperta a coprirgli le gambe tenute appena sollevate per evitare il contatto con il freddo pavimento in marmo.
Si stropicciò gli occhi con la manica della felpa.
«Ma che ore sono?»
«Sarà mezzanotte e mezza- più o meno.»
«Perché non mi hai svegliato?»
«Amore, eri stanco. Ho pensato di lasciarti riposare un po'»
Manuel non rispose, si limitò a mugugnare qualcosa come a ringraziare l'altro di quelle coccole e attenzioni. Gli servivano, davvero.
Non era mai stato facile, per lui, confessare d'essere stanco.
Gli pesava dover ammettere, a sé stesso prima che agli altri, d'avere un limite.
Di non riuscire a spingersi oltre e a portare al compimento tutti i progetti che costantemente gli frullavano per la testa.
Quel limite che, in cuor suo, sentiva d'aver già oltrepassato da giorni.
Era certo che se fosse stato possibile possedere un display che a chiare lettere indicasse lo stato di una persona, nel suo sarebbe stata la scritta "Batteria Esigua" a farla da padrona.
Il dover onorare l'impegno preso, quel giorno nello studio di Dante, lo sfiniva.
Non che non fosse abituato, a dover conciliare il lavoro con lo studio, ma si era sempre ritrovato a far prevalere il primo sul secondo.
Lo studio ricopriva un ruolo marginale, portato avanti un po' per inizia e un po' per benevolenza di quei pochi insegnanti che riuscivano a guardare oltre quel ragazzo stanco e svogliato, scorgendone quello che cercava in tutti i modi di aiutare la propria madre per arrivare a fine mese.
Questa volta, però, era tutto estremamente diverso.
Non era possibile porre in una scala d'importanza le due realtà.
Dovevano andare e dovevano andare bene.
Per Simone.
Manuel non aveva alcuna intenzione di rimediare un'altra bocciatura per poi ritrovarsi a vivere altri anni in classe, senza Simone.
L'idea di restare solo, senza il suo Simone, lo annientava.
E lo annientava ancora di più l'idea di doverlo lasciare solo, fragile per com'era.
Per questo motivo, si ritrovava a tenere i libri aperti sopra il bancone dell'officina anche quando era intento a smontare l'ennesimo rottame rimediato, sbirciando di tanto in tanto sulle pagine per memorizzare il più possibile lo stretto indispensabile per strappare un sei, durante le interrogazioni.
I residui delle angosce e delle paure ancora legate all'incidente di Simone, le ore di sonno mancate perché trascorse a prendersi cura di lui, ad accudirlo, a guardarlo dormire per assicurarsi che nessun incubo lo turbasse, l'essere sempre vigile per proteggerlo, iniziavano a farsi sentire.
Rabbuiavano il suo volto, incupivano il suo umore strappandogli via, volta per volta, un po' qualche briciolo di pace, sostituita con l'inquietudine di non essere mai abbastanza, mai all'altezza.
Scosse appena il capo per allontanare quel insieme slegato di pensieri, prima di abbandonarsi dolcemente, con la schiena, sul petto dell'altro, rilassando ogni muscolo del corpo ed afferrando le braccia del più piccole per stringerle intorno alla propria vita.
I ricciolini castani solleticavano appena le labbra di Simone, prima di affondare tra gli stessi a depositarvi un bacio. Lasciò che il suo profumo inondasse le sue narici, prima di incurvarsi lievemente verso destra per poter raggiungere con le labbra la tempia.
«Hai freddo?» mormorò, con ancora le labbra a contatto con la sua pelle.
Nessuna risposta.
Manuel si limitò ad un breve cenno di diniego con la testa per tranquillizzarlo. Allungò una mano dietro la sua nuca, accarezzandola piano e incurvando ancora di più l'altro su di sé.
«Simò, ti andrebbe un caffè?»
«Un caffè? Ma amore - adesso? A quest'ora?»
«Sì, ne prepariamo uno solo e lo smezziamo. Ti va, mh?»
«D'accordo, però ne bevi più della metà.»
«Va bene, te ne lascio giusto un sorso. Così! » sollevò a mezz'aria il braccio per piazzare la mano davanti agli occhi del più piccolo.
Pollice e indice appena distaccati per rappresentarne la quantità «Tu poco, così!».
Simone sbuffò una dolce risata.
Manuel gli era sempre sembrato così adulto, in ogni cosa che faceva.
Fin dal primo giorno in cui si erano presentati, aveva sempre avuto quell'aria da "grande" che deve vedersela con il mondo e che protegge chiunque ami più della sua stessa vita.
Era divertente, ai suoi occhi, scoprire ogni giorno di più, quel lato rimasto ancora un po' bambino, del suo Manuel.
Il Manuel che fremeva per combinare i pasticci insieme a lui, che sfoggiava occhioni supplichevoli e labbruccio per ottenere le coccole e che, esattamente come i bambini, cercava di addolcire con piccoli gesti, perché gli venisse accordato il permesso di fare qualcosa.
«E va bene, amore.» rispose, con aria benevola.
Con un leggero e rapido scatto, Manuel si voltò lasciando che i loro volti si trovassero l'uno ad un soffio dall'altro.
Rimase qualche istante a guardarlo, mantenendosi in equilibrio su di un ginocchio puntato nel mezzo del divano.
I suoi occhi brillavano, come sempre, quando guardava Simone.
Era come se il tempo rallentasse per permettergli di osservare un'opera d'arte, in mezzo ad una miriade di visitatori distratti che di quella bellezza non erano riusciti a goderne.
E lui, che ne era rimasto folgorato, aveva in dono tutto il tempo per poterlo osservare, ripetersi ancora una volta quanto fosse fortunato.
Lui era l'unico al quale era stato concesso la possibilità di amarlo e l'onore di essere amato.
« Sei così bello, Simò. »
« Anche tu, Manuel. »
«No, non ridere » lo redarguì amorevolmente.
«Io voglio dirtelo sempre, che sei bello. Io prometto di ripetertelo sempre. Tutti i giorni.»
Si sbilanciò appena per raggiungere le sue labbra, lasciando un bacio lento e umido per suggellare quella promessa d'amore.
Scivolò fuori dal divano, mettendosi in piedi e porgendo all'altro una mano che venne presto raggiunta da quella del minore.
Si spostarono verso la cucina.
Le dita, intrecciate perfettamente tra loro, si sciolsero solo in prossimità del tavolo.
Manuel spostò una sedia, fece cenno a Simone di sedersi.
«Prego.»
Incerto nei movimenti e leggermente barcollante per via del sonno, si mise poi all'opera.
Aprì i mobili pensili, rovistando al loro interno per tirar fuori il barattolo di caffè ed una vecchia moka ad una tazza.
Riempì con acqua corrente il piccolo serbatoio, fino alla valvola, come gli aveva insegnato nonna Virginia. Posizionò il filtro e versò due cucchiaini abbondanti di caffè al suo interno.
Strinse le componenti tra loro, sotto l'occhio attento del più piccolo che lo osservava come stesse studiando i suoi movimenti.
Con la moka ancora avvolta in uno strofinaccio, si voltò verso il più piccolo.
Sentiva il suo sguardo addosso.
Era certo lo stesse osservando, reclamandone silenziosamente l'attenzione.
«Vuoi provare tu?»
Il più piccolo annuì.
«Tieni.» si avvicinò per porgergliela.
Lo vide prenderla con entrambe le mani , posizionare le dita in modo da avere una presa salda sulla stessa «Stringi più forte che puoi, eh.»
Indietreggiò di qualche passo per guardarlo, le braccia conserte gli permisero di nascondere due dita incrociate.
«Vediamo come va 'sta zampetta.»
« Zampetta » cantilenò l'altro
«Chi l'avrebbe mai detto che Manuel Ferro dice "zampetta" ?»
« Chi l'avrebbe mai detto che quel perfettone de Balestra se sarebbe innamorato de 'n casinaro come me?»
« Tutti. »
« Eh.. Vabè.
Stringi 'sta caffettiera, che c'ho vojia di un tuo bacio al caffè.»
Simone abbassò lo sguardo, puntandolo sull'oggetto metallico che in quell'istante gli pareva quasi estraneo e nuovo.
Sospirò rumorosamente e chiuse gli occhi per scacciare via le mille ipotesi di fallimenti che si palesarono nella sua mente.
Era assurdo come un gesto così ridicolo assumesse le sembianze di una sfida con sé stesso.
Man mano riusciva a notare piccoli cambiamenti. Da qualche tempo riusciva a versare l'acqua senza tremare, riusciva a salire le scale senza aggrapparsi disperatamente al compagno.
Strinse le due parti lasciando che i polpastrelli aderissero perfettamente alle piccole pareti argentate, poi roteo i polsi in senso orario ed antiorario per avvitarle tra loro.
Si fermò per un istante, ritentò e si fermò nuovamente.
Liberò la moka dallo strofinaccio e la poggiò sul tavolo
« Così dovrebbe andar bene.»
« Bravo amore!» esclamò Manuel, con quanto più entusiasmo possibile, accennando perfino un sentito ma insonoro applauso
« Hai visto, oh!? Sei stato bravissimo! Sei stato 'n grande! »
Si allungò sul tavolo per un breve bacio a stampo. Il più piccolo lasciò andare una risata direttamente sulle sue labbra.
« Sono bravissimo pe 'na caffettiera avvitata? »
« Sei bravissimo perché non te fai vince da niente.»
Prese tra le mani il suo volto, accarezzandone gli zigomi con i pollici.
Seguì un altro bacio.
« Niente, Simò, niente!»
Si tirò sù facendo leva con i gomiti poggiati sul tavolo, recuperò una tazzina ed il barattolo dello zucchero per poi posizionarli al centro del tavolo.
Il borbottare della caffettiera riempì velocemente la stanza, insieme al profumo di caffè sprigionato dal piccolo beccuccio di sfiato.
Spento il fuoco e versata una piccola quantità nella tazzina, Manuel prese posto accanto al fidanzato.
«Quanto zucchero vuoi?» chiese, avvicinando il barattolo e porgendo il cucchiaino al più piccolo.
Un cucchiaino raso fu più che sufficiente.
Simone lo riempì con movimenti incerti, lasciando cadere qualche granello sul tavolo, lo versò nella tazzina e prese a mescolare.
La passò a Manuel che ne bevve un abbondante sorso, controllò la quantità rimasta nel piccolo contenitore come ne stesse leggendo il fondo.
Sollevò lo sguardo dalla tazzina per osservare di sottecchi Simone.
Lo sguardo assente, gli occhi puntati su un punto indefinito della stanza e le labbra corrucciate in una piccola smorfia.
«Così basta?» chiese, il tono volutamente un po' più alto per scuoterlo e tirarlo fuori da quel turbinio di pensieri nel quale il piccolo era caduto.
Allungò una mano verso il suo viso, cogliendolo di sorpresa.
Era talmente immerso nei suoi pensieri, gli occhi sgranati come lenti di un proiettore sulle quali sfrecciavano svelte le immagini di anni ormai troppo distanti per essere cambiati.
Con uno scatto involontario dettato dallo spavento, tirò indietro la testa, per nasconderla in un quella massa voluminosa di tessuto morbido e grigio che lo avvolgeva.
«Amò, che c'è? Mò fai come 'e tartarughe, mh?»
Piantò i suoi occhioni grandi e interrogativi sull'altro.
Contro ogni suo volere, si erano fatti lievemente lucidi.
«Le tartarughe. Che se le tocchi, tirano indietro la testa perché se spaventano, no?»
Incurvò gli angoli della bocca in un sorriso stretto, era buffo come Manuel sapesse trovare sempre una similitudine che riuscisse a rendere ogni cosa più dolce, più sopportabile.
«Pensa che scemo che sono. Tu mi sfiori e io mi spavento-» mormorò. «- scusami.»
«Ero un po'-un po' sovrappensiero, ecco. » concluse, giustificandosi.
«Lo so, non te devi preoccupà. » tagliò corto Manuel.
Allungò una mano per sfiorargli la guancia, accarezzandolo piano «Ormai te conosco.»
Cercò il suo volto, chino verso il basso, incrociando con lo sguardo i suoi occhi lucidi, le lacrime faticosamente trattenute e ferme agli angoli, raggrumate in un'unica bolla pronta ad esplodere.
Il più piccolo annuì, il viso ancora avvolto dalle mani calde dell'altro.
Con un sospiro profondo, svuotò d'aria i polmoni.
Strinse tra le mani la tazzina posta di fronte a lui, delineandone nervosamente i bordi con le dita.
«Io le sentivo, sai? Le loro urla. Litigavano sempre. Passavano le ore, a litigare.»
«I tuoi genitori?» chiese, già consapevole della risposta.
Il più piccolo annuì, gli occhi bassi a torturarsi le mani.
«E tu? Tu che facevi?»
«Mi nascondevo.» confessò, con un velo di vergogna nella voce.
«Mi facevano paura, correvo nella mia stanzetta e mi chiudevo lì.»
Manuel rimase in silenzio ad ascoltare.
Raggiunse solo le mani del più piccolo, stringendole nelle proprie e carezzandone il dorso.
«Non sono mai stato un bambino coraggioso.»
Si strinse appena nelle spalle. «Aspettavo solo che smettessero.»
«Una volta-» iniziò a raccontare «-presero a litigare qui, in cucina, proprio intorno a questo tavolo. Non ricordo cosa fosse successo. Ricordo solo che, ad un certo punto, volò un piatto.
Ebbi così tanta paura che mi nascosi sotto il tavolo.»
«Ero talmente terrorizzato che non riuscivo ad uscire da lì.
So solo che sotto quel tavolo ci rimasi almeno un quarto d'ora- prima che loro si accorgessero che mi ero rifugiato lì sotto.»
«A volte vorrei rifarlo.» Gracchiò una risata amara, nell'ennesimo moto di vergogna che lo pervase.
«Sai, quando gli argomenti si fanno troppo pesanti.
Vorrei scivolare lento sotto il tavolo e restare lì per un po'. Ripararmi.»
«Ora però ci sarebbe, chi si accorge della tua mancanza.»
«Mi costringeresti a venir fuori?»
«Te lo chiederei, sì.» ammise, in piena onestà.
«Ma se non ci riuscissi- beh, allora scivolerei piano piano anche io.
Ce ne staremmo buoni buoni sotto il tavolo, al riparo da tutte le cose brutte del mondo.»
Allargò le braccia facendo segno al più piccolo di abbracciarlo.
Senza attendete ulteriori istanti, quello spazio venne riempito da Simone che si strinse al suo petto.
«Va tutto bene, amore.» gli sussurrò.
«È tutto passato, va tutto bene.» ripeté ancora, per rassicurarlo.
Le parole mormorate piano per assecondare e accompagnare i movimenti lenti che gli permettevano di cullarlo.
«Io non credo di meritare il tuo amore, Manu.
Io- io rovino ogni cosa. Da quando sò nato. Sarebbe tutto facile se io non esistessi.»
Quella confessione si piantò come una lama dritta allo stomaco, serrò gli occhi, attonito da quel dolore sordo.
Sapeva che prima o poi sarebbero venuti fuori, tutti quei pensieri sepolti chissà dove, dentro quel piccolo uomo che stringeva tra le braccia.
Ne era consapevole.
Che le cicatrici più grandi stanno nel cuore e nel cervello, prima ancora che sulle braccia.
«Amore, ascoltami bene.» si schiarì la voce, ricacciando indietro le piccole lacrime comparse agli angoli degli occhi.
«Tu sei quanto di più bello sia mai capitato nella vita mia. Io sono fortunato ad averti accanto.
Tu m'hai salvato da me stesso. Se io stò ancora qua- è solo merito tuo, Simò.»
«Ogni singolo essere umano- su 'sta terra viene lanciato un po' per caso.
Io sò solo uno dei tanti, nato per caso.
Scagliato su per 'stò mondo con altri mille.
Come un sacchetto de biglie, rovesciato sul monno.
Nella caduta però, capita che alcune si spezzino: io sono questo.
Una biglia che s'è scheggiata, quando è atterrata sulla terra.
E da tutta la vita, provo- provo a rotolà come tutte le altre, ma non ce sò mai riuscito.
«Poi ce sono le biglie perfette. Come te.
Tu sei perfetto Simone, tu sei raro.
E bisogna averne cura, delle biglie perfette come te.
Solo che la vita- la vita non ha voluto che ci fosse questa cura nei tuoi confronti, in alcuni anni.
Ma nonostante le crepe che ti attraversano, nonostante le ferite, tu resti perfetto.»
«E allora capita che 'na biglia scheggiata, come me, se innamori di te e dei segni che porti addosso.
Allora me spingo a forza verso de te, me faccio pure spinge dagli altri - e te raggiungo.
E finalmente, me sento completo.
Me rendo conto che il pezzo che ho perso... sei solo tu.»
Simone rimase ad ascoltare ogni singola parola, cercando di coglierne ogni significato nascosto.
Affondò il volto sull'incavo del collo, lasciando piccoli baci umidi sulla spalla.
Circondò la vita del maggiore con le sue braccia, spingendosi verso di lui.
Manuel ricambiò, accarezzandogli piano la schiena, a consolarlo.
«Tu meriti il meglio che la vita possa offrire. Meriti solo cose belle.»
Attese che l'altro scostasse il suo volto, poggiando sulla spalla per poterlo guardare.
«Andiamo a letto, mh?» propose, nel vedere i suoi occhi stanchi e arrossati.
«Non volevo rendere questo momento caffè così triste. Scusami. »
Il maggiore si strinse nelle spalle, avrebbe voluto dirgli che no, non doveva scusarsi.
Che era quasi felice che lui si fosse confidato con lui, che viveva per il suo sorriso, anche quando faceva capolino dopo mille lacrime.
«Toccherà concedercene un altro.» concluse, sdrammatizzando.
«La prossima volta, però, mi inviti tu.» disse, toccando la punta del suo naso con l'indice, strappandogli un piccolo sorriso.
«Mi inviti per un caffè e due chiacchiere notturne-
«- che il mondo è più bello quando ce stiamo solo noi. »
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