Di luce e d'oscurità
Avrei davvero bisogno di bere un bicchierino di punch natalizio. Lo avevo preparato e versato in una ciotola di cristallo, posata sul tavolo del salone, con il mestolo e le tazzine abbinate.
È la classica bevanda invernale, deliziosa e aromatica, da servire calda, l'ideale da offrire ai propri ospiti per scaldare le serate fredde.
I miei due ospiti abituali, tuttavia, non verranno, nonostante la squisitezza del misto di arance, rum e spezie, tra cui cannella e chiodi di garofano, di cui sono maestro.
L'odore alcolico che si sprigiona dalla semisfera trasparente è arrivato all'interno delle mie narici, divenute froge degne di un cavallo.
Al termine dell'allestimento dell'abete vero, preso al vivaio dietro l'angolo, sono incappato infelicemente in una scatola di cartone.
Quando l'ho aperta, la vista mi ha rimandato sei palline di vetro soffiato, dipinte a mano, raffiguranti gli Avengers al completo, vestiti delle loro uniformi da combattimento. Le aveva commissionate Steve Rogers, a un artista incrociato in un mercatino di Brooklyn. Sei per ciascuno di noi Vendicatori.
Mi sono commosso così tanto da carambolare a terra. Ho sbattuto la scapola destra sul tappeto persiano in vello di lana dai disegni stilizzati, posto davanti al sofà.
Il dolore è stato lancinante, la fitta acuta, pulsante. Di solito tengo a bada con facilità la bestia verde che alberga in me. Non mi servono sieri, mi basta un po' di concentrazione. L'ho imparato, a caro prezzo.
Beh, oggi non è stato affatto così. Perché si tratta di un altro genere di sofferenza, differente dalla fisica.
Mi sono trasformato sul pavimento del soggiorno, facendo a brandelli l'ennesimo paio di jeans, l'ennesima camicia, in un turbinio di movimenti e grugniti. Gli occhi andavano e venivano dalla libreria, colma di testi scientifici e romanzi, alla finestra dalle tende tirate attraverso il cui vetro si intravedevano i primi fiocchi di neve, puntini bianchi nell'oscurità della sera.
I faretti led sulla cornice del perimetro del soffitto mi accecano, il quadrato rosso della coperta di pile, ripiegata sul divano angolare di design in similpelle liscia nera, è un colpo in un occhio.
Mi rialzo e cammino lentamente sul parquet fino all'interruttore, per spegnerli.
L'unica luce che illumina il soggiorno è quella del filo verde delle decorazioni made in China che ho già incrociato fra i rami dell'abete, attaccando la spina alla presa elettrica. Hanno un meccanismo che ne alterna l'accensione e lo spegnimento, creando dodici diversi giochi colorati, degni della magia di una fatina. Ho scelto il modello deluxe - crepi l'avarizia! - che diffonde melodie musicali a tema natalizio, il cui suono riempie la stanza, sottofondo di benessere.
Anziché rilassarmi le canzoncine, tuttavia, mi innervosiscono maggiormente.
La decorazione dell'albero è praticamente terminata. Ho appeso diverse palline; alcune sono antiche, di proprietà della famiglia Banner da generazioni, reperite nella soffitta di casa di mia nonna paterna e portate con me ovunque sia stato, unico ricordo di un albero genealogico i cui frutti sono caduti, passando a miglior vita per motivi anagrafici.
Ho posizionato fra i rami anche fili a ghirlanda argentati, dorati e rossi e un puntale a forma di stella in tinta zecchino. Non amo l'albero monocromatico, mi piace mischiare decorazioni di foggia, stili e nuance differenti.
Lo ammetto: torno bambino quando addobbo la casa in attesa del vecchio panciuto con la barba bianca che, sulla sua slitta trainata dalle instancabili renne, lascerà un regalo ai più meritevoli.
Pure ora, adulto e disincantato, appoggio sul bordo del camino un bicchiere di latte e un piattino con dei biscotti affinché lui e i suoi animali dalle strane orecchie possano rifocillarsi.
Al mattino, da ragazzino, trovavo il latte scolato, i biscotti sbocconcellati, segno del passaggio del babbo dalla veste rosso cangiante, regalino morale dei miei genitori a un figlio ingenuo, oltre a un dono incartato con amore.
Una parte di me ancora crede nei miracoli o quantomeno ci spera.
E una casa accogliente è un ottimo biglietto da visita per un ospite simile, la notte della vigilia.
Stanotte temo che non riuscirò né a predisporre latte e biscotti né a terminare l'albero come si deve. L'agitazione che permea le mie membra ingombranti ha raggiunto un livello vicino alla sublimazione della materia.
Bramo una sana dose di alcool per rilassarmi, ma le mie dita hanno preso l'aspetto di salsicciotti verdi con cui è difficile maneggiare qualsiasi oggetto senza romperlo o rovinarlo. Potrei cercare di bere il punch direttamente dalla ciotola e, forse, con un po' di fortuna, riuscire a non creparne il cristallo.
Evito: nonostante lo specchio sopra il camino acceso mi rimandi l'immagine di un animale, bestia feroce, non posso permettergli di prendere il sopravvento maggiormente, contravvenendo alle buone maniere, proprio la vigilia di Natale.
Da anni cammino fra la luce e l'oscurità in cerca di un equilibrio spesso stentato.
Anche in battaglia sono il classico compagno che nessuno è sicuro di voler veramente nella propria squadra.
Con gli amici la cui lontananza mi sta straziando, è stato diverso, però. Mi hanno amato per come ero, preso in giro, stimolato, insultato per tirar fuori il mio lato migliore. E ci sono riusciti.
Il playboy miliardario, genio e filantropo, mi disse che lavorare con me era come lanciare una granata nel centro del gruppo, sperando che non scoppiasse. Non è mai deflagrata, perché c'era lui, loro. La sicura era rappresentata da battute ironiche e intelligenti e ninne nanne ammalianti, cantate con accento sovietico.
Ritornavo in me, umano, e non c'era bisogno di opere liriche ascoltate con le cuffie per recuperarmi, solo di un bel sorriso di labbra morbide dipinte di un rossetto amaranto, opaco e sensuale, e di un paio di occhi verdi, profondi, segnati delle insicurezze dell'anima di un'assassina provetta.
Per l'amara legge di un contrappasso favorevole, colei che si è macchiata di molte note rosse su un registro inesistente, togliendo vite, a me l'ha ridata.
L'orologio da polso giace col cinturino spezzato ai piedi dell'abete, leggo l'ora sulla pendola da parete a carica manuale in noce di inizio Novecento.
È sera inoltrata, e ancora mi ritrovo avviluppato in un gigante dalla sfumatura delle foglie della stella di Natale che ho collocato fuori dalla porta d'ingresso. Non vuole lasciarmi, è attaccato come un parassita. Non lo biasimo, si sentirà solo.
È quello che accade a molti in occasione delle feste. La malinconia che avvolge quando tutti intorno si baciano, si scambiano abbracci, saluti e regali. Inspiegabile e atavica, ritenevo, prima di capire che la motivazione fosse insita nell'assenza delle persone care, coloro che ho amato immensamente.
Festeggiare senza di loro, sapere che non ci saranno, che il loro sorriso non mi scalderà il cuore - oggi e per ogni altro Natale a venire - che non udrò più le loro battute, le loro risate, è un ulteriore colpo basso del destino infelice che mi affligge.
Seggo a terra al centro del tappeto, rimirando l'albero dal basso, le braccia strette sulle ginocchia ripiegate, in una cinta affettuosa che mi do da solo.
L'alternanza delle luci mi ipnotizza, un velo di lacrime rende il mondo attorno a me più opaco, meno bello.
Gocce di dolore sgorgano perfino attraverso le iridi del brutale altro me. Ed è un pianto lungo, inarrestabile, inconsolabile.
Mi arrendo all'emozione, stendendomi a terra dove rimarrò a lungo, osservando le fiamme ardenti nel camino spegnersi, fino a divenire cenere grigia e impalpabile.
Stanco, nelle orecchie il ronzio del meccanismo musicale inceppato, cedo a un Morfeo bramato, augurandomi che il sonno, sorta di morte quotidiana, sia una medicina naturale e consolatoria.
Un raggio di sole attraverso la finestra mi colpisce sul viso, al mattino. Il mio corpo, riacquistata l'umana sembianza, è al calduccio della coperta di pile rossa, che mi è stata posata addosso con studiata e affettuosa premura.
Il camino è stato attizzato, le fiamme sono vivissime, straordinarie testimoni della mia rinascita.
Mi rialzo in piedi, la coperta scivola a terra. Non credo ai miei occhi.
Le sei palline dipinte a mano sono state posizionate sull'albero, ora perfetto. Sono state distanziate in modo tale che ognuna abbia un posto d'onore.
Predomina l'azzurro per Steve, che tiene in mano uno scudo circolare a stelle e strisce. Il giallo per Thor, in una posa aerea col martello in mano. Il viola con un bersaglio bianco per Clint, che, ovviamente, tira magistralmente una freccia con il suo arco. La mia, caratterizzata dal verde, è la più buffa: stringo i pugni, esibendomi in un'espressione feroce a eventuali spettatori.
In alto, vicino al puntale, ci sono i pezzi forti, i migliori. Nella sfera nera, Natasha in tuta scura e il manto di capelli fulvi che le incornicia il volto; nell'altra Tony, nell'armatura gialla e rossa di Iron Man, con la visiera dall'elmo alzato, che sorride in modo beffardo.
Qualcuno si è servito del punch che avevo preparato. Accanto alla ciotola, trovo due tazze sporche: quella a destra presenta una macchia di rossetto amaranto e opaco, della stessa forma della labbra che vi hanno bevuto.
C'è una terza tazza, già colma di liquido. È per me, credo. La prendo fra le mani, percependo che la bevanda sia ancora calda, stranamente, quasi bollente.
La sorseggio, stupito. Ha un gusto migliore di quello che ricordavo quando l'ho assaggiata: quello dei legami indissolubili. Lo sguardo mi cade sull'albero, attirato dal riflesso metallico di due oggetti appesi che prima non avevo notato.
Chi li ha lasciati per me sapeva che ne avrei compreso immediatamente il significato: la simbologia religiosa e pagana mi ha sempre attratto.
Accanto alla pallina rossa e gialla c'è un ciondolo: è una croce, segno di speranza e vita, a suo tempo indossata a destra dai cavalieri templari, per riconoscersi reciprocamente.
L'altro pendente è di linea stilizzata e più femminile, certamente scelto da una donna e posizionato vicino alla sfera nera. Raffigura un animale, il porcospino, simbolo di pace e amicizia. Avendo quest'indole, difficilmente l'animaletto attaccherà per primo il suo nemico ma, se ciò dovesse accadere, gli basterebbe poco per difendersi.
Prelevo i miei regali dai rami, con attenzione, inserendoli entrambi nel filo di seta blu della croce templare, e indossandoli.
La musica natalizia riprende a suonare, improvvisamente. E' Jingle Bell Rock, di Bobby Helms: potrei mettere la mano sul fuoco che non fosse ricompresa nei brani dell'apparecchio cinese e pure di averla sentita canticchiare spesso, in occasione delle feste, da un vecchio amico spiritoso.
Un senso di pace e vera serenità mi avvolge, mentre alzo gli occhi, umidi di lacrime di felicità, verso il puntale. Quello che avevo inserito sulla sommità dell'abete è scomparso, sostituito da un analogo fregio di vetro soffiato... a forma di A. Inconfondibile.
E' la A di Avengers!
💚
La one shot che avete appena terminato di leggere è dedicata a Bruce Banner, il dolce e tenero professore che ha conquistato il mio cuore di fangirl, e a tutte le persone a cui il Natale provoca un pizzico di amarezza.
Una festività tanto amata diventa piuttosto difficile da gestire, soprattutto a seguito di una perdita importante.
Come sempre, buona lettura e buona vita!
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