- Capitolo Ventiquattro -

Le sue possenti spalle si alzavano e abbassavano ogni volta che inspirava ed espirava.
Osservai meglio i suoi gesti e il leggero movimento della sua mano destra.
Teneva la sigaretta quasi finita in un modo particolare.
Il filtro schiacciato tra un polpastrello e l'altro, come se volesse distruggerlo, come se volesse sopprimere tutto ciò che di nocivo poteva rappresentare.
La sua mano sinistra, invece, era infilata nella tasca del pantalone.
Non si sentiva nessun rumore, nessuna voce, nessun rombo di motore, nulla.
Avevamo soltanto il suo respiro e il tintinnio delle chiavi che sbattevano fra loro, forse usate come antistress, a fare da sottofondo.

Noah era strano.

Chi guardava da lontano, poteva ammirare apparentemente un classico ragazzo distratto, sovrappensiero e con lo sguardo d'acciaio. Ma nel profondo, per come lo stavo conoscendo, con i suoi piccoli gesti e i suoi sguardi, credevo che la durezza e la ribellione fossero solo fumo.

All'apparenza un ammasso di muscoli ben assemblati fra loro, che si sviluppavano per tutto il corpo e lo rendevano ancora più affascinante. Ma nel profondo, cosa aveva? Cosa sentiva?

Volevo scoprirlo, la mia curiosità era arrivata a livelli altissimi, ma una parte di me non voleva farlo. Ero così confusa, così ammaliata da lui.

Ty, lascia perdere!

Chiusi gli occhi e feci un lungo respiro. La mia coscienza, più intelligente di me, cercava di scacciare quei pensieri pericolosi e faceva bene a farlo. Ero convinta che pensare a lui sotto queste sembianze o con questa voglia di scoprire, mi avrebbe portato un giorno a star male ancora e non potevo permetterlo.

«Eccomi.» dissi, ma lui non rispose, non sobbalzò dallo spavento.

Era immobile.

Vidi solo il momento esatto in cui si girò.
Sentii addosso l'istante in cui posò gli occhi su di me.

Piccole scintille cominciarono a avvisarmi del suo sguardo, sentii la pelle brillare, piena di vita, sudore e frenetica eccitazione.
Noah mi osservava in un modo inequivocabile, tracciando una linea immaginaria sul mio corpo.
Lo sentivo centimetro dopo centimetro, non lasciava spazio a nulla, e io, in fondo, volevo, bramavo che non lo facesse.
Il dito immaginario solleticò i miei piedi avvolti nei sandali neri per poi soffermarsi sulla caviglia qualche secondo di più.
Continuò la scalata ammirando ogni tratto delle mie lunghe gambe scoperte e delle cosce, fino all'orlo del vestito e subito dopo, in un lampo, passò alla mia terza abbondante, quasi coperta dalla pelle del giubbino.

Percepivo magia pura nell'aria.

I brividi che mi percorrevano insieme ai suoi due fari si arrestarono sul mio collo e io, inconsciamente, inclinai leggermente il capo, come se potesse toccarmi davvero.
L'ultimo tratto, prima di guardarmi negli occhi, lo riservò alle labbra.
Le sentii pulsare, accendersi e bruciare.
Inevitabilmente le bagnai con la lingua e Noah fece lo stesso.
Questa analisi così accurata mi rendeva insicura, debole per certi versi, ma mi piaceva, mi sentivo vulnerabile.

Appena giunse e piombò con i suoi occhi nei miei, capii più di quanto ambissi: mi voleva, ma non voleva volermi.
Eravamo dello stesso pensiero, ma con motivazioni diverse.

I suoi occhi come tizzoni ardenti riflettevano nei miei lo stesso ardore e la stessa passione.
Il suo respiro sempre più pesante riusciva a trasmettermi le mille aspettative che agognavamo entrambi.
Si schiarì la voce, buttò la sigaretta e non fece altro, non che me lo aspettassi, ovviamente.

«Andiamo.» Una sola parola e tutto si spense in un nanosecondo.

Continuai a guardare i suoi movimenti, schematici e precisi grazie agli anni di esperienza nel far sentire una persona insignificante.
Si girò lentamente, tirò fuori le chiavi e mi lasciò lì, dirigendosi verso la moto.
Mi svegliai dal mio stato di trance e chiusi la porta a chiave, seguendolo.

Non riuscivo a intuire qualcosa di lui, tranne quella piccola analisi che avevo fatto.
Toccai la sella stando attenta a dove mettevo le mani, non volevo invadere il suo spazio, volevo rimanere nel mio.
Noah però non era dello stesso avviso.

«Tieniti a me e indossa questo, plucky» mi porse il suo casco e si allontanò.

Mi arrabbiai subito. «La smetti con questi nomignoli stupidi?»

«No, ma forse dovrei trovarne altri, in base alle situazioni»
Mi fece l'occhiolino e salì sulla moto aspettando che lo facessi anche io.

Sbuffai alla sua pessima battuta e salii cercando qualcosa a cui aggrapparmi.
Noah, avendo capito le mie intenzioni, avviò la moto e fece finta di partire.

Il mio corpo invaso dalla paura fece un balzo in avanti, ero in bilico e stavo perdendo l'equilibrio.
Inoltre, i miei tacchi non erano d'aiuto, quindi dovetti appoggiarmi al suo corpo.
Le mie mani si scontrarono e si incrociarono sul suo petto.

Complimenti Felicity, davvero brava!

Immaginai in quell'istante la mia coscienza diventare una persona vera che scuoteva la testa applaudendo.

«Così va meglio»

«Stronzo» dissi di getto.

«Plucky, ti sento sai»

«Oooh, ma io volevo farmi sentire.» dissi prima di abbassare la visiera.

Non so come, o quale santo mi beò, ma rise.
Era raro vederlo sorridere, figuriamoci ridere.
In quel giorno, nonostante le battute delle mie sorelle e il continuo ridere dei ragazzi, lui era stato ferreo e senza emozioni per tutto il tempo.
Abbassò la sua visiera, rimise in moto di nuovo, scosse la testa e partì.

Arrivammo dopo dieci minuti in un luogo piuttosto buio.
Non c'era nulla vicino a noi, solo un locale illuminato con faretti che davano luce al viale.
Macchine di tutti i modelli, forme e colori circondavano l'entrata e il grande parcheggio a lato.
Parcheggiammo quasi di fronte all'entrata e quando tolsi il casco lo trovai già con gli occhi puntati su di me.

«Copriti», disse una sola cosa per poi scendere dalla moto e incamminarsi, ma disse quella sbagliata.

Rimasi a bocca aperta per circa cinque minuti.
Ero ferma nella mia posizione.
Confusa e frastornata.

Per tutta la durata del viaggio, mi ero stretta a lui e avevo notato un piccolo dettaglio che a casa delle mie sorelle mi era sfuggito.

Ero serena.

Stretta a lui mi sentivo bene, in pace con me stessa, libera.
Ed era solo una cosa platonica, parlavo di sensazioni che provavo e che magari lui nemmeno sentiva.
Ma non potevo fare a meno di negare l'evidenza.
I suoi sguardi mi facevano sentire una dea, la più bella fra mille donne stupende.
Poi, come se niente fosse, ti annientava e cominciava a farti sentire nessuno. Una persona qualunque, in un mondo di merda.

«Vedi che allora ho ragione! Tu sei uno stronzo, cazzo.»dissi alzando le mani al lato del mio corpo, per poi riabbassarle.

Ero sempre stata pudica nel mio piccolo, mai nulla di eccessivamente volgare o troppo scollato.
Ma per una sera volevo sentirmi diversa, volevo sentirmi una delle tante e non Felicity la ragazza problematica.
Odiavo i ragazzi che giudicavano una ragazza dai vestiti che indossava e lui l'aveva appena fatto.

«Guardati le gambe.» continuò a dire di spalle senza fermarsi.

Fissai le mie gambe e non avevano nulla di male, era salito solo leggermente il vestito, che mi affrettai ad abbassare.
Mi aveva già vista, la dimensione del mio vestito era quella, non sarebbe cambiata, a meno che non avesse avuto dietro stoffa, ago e filo.
Ma di certo poteva avere anche tutto lo staff sartoriale di Versace, ma il mio vestito non lo avrei mai fatto toccare.
Sotto quello strato di fili intrecciati, ero io... solo io con tutte le mie imperfezioni.
Era lungo abbastanza da coprirle, da togliere alla vista di tutti le mie smagliature, ma c'erano.

«Non c'è nulla.»

«È troppo corto»

Una rabbia cieca si impossesso di me velocemente.

«E chi lo dice, tu? Sai quanto me ne frega?»

Lo vidi fermarsi, guardarmi ancora e parlare da solo.
Feci in tempo solo a sentire l'ultima parte.

«... Dio ma perché? Testarda e infantile la ragazzina. Spero solo che non combini guai»

Testarda e infantile?

«Ehi bello! Ma con chi ti credi di essere? Solo perché sono donna...»

La porta dietro di noi si aprì e uscì una ragazza con una cartellina in mano, con due bodyguard che si posizionarlo ai lati dell'ingresso.
Non mi ero accorta che camminando eravamo arrivati all'entrata e che davanti a noi altre persone aspettavano in fila per poter entrare.
Decisi di sospendere la nostra chiacchierata e dimenticare per un momento quanto fosse stronzo Noah.

La scritta "Blue eyes" risaltava nel buio totalizzante della parete vicino all'entrata.

«Non fare domande, stai al tuo posto e non succederà nulla. Sempre se riuscirai a chiudere la tua umile curiosità nella tua mente. Stai con le tue sorelle, è un avvertimento» disse Noah riportandomi alla chiacchierata che stavamo facendo.

«Un avvertimento? Perché altrimenti?» dissi, continuando a seguirlo mentre avanzava la fila.

«Non sfidarmi, non mi conosci plucky.» si girò verso di me e continuò «Ricordalo.»

Non capii perché sottolineò tanto ardentemente quella parte.
Voleva intendere sicuramente altro, ma non volevo rimuginarci troppo, per me era tutto amplificato ormai, emozioni, sensazioni, lui.

Distolsi lo sguardo e una volta che Noah, alias testa di stronzo, alias Carter, nome che utilizzò per entrare, si annunciò, le porte del locale si aprirono subito.
Riuscii ad intrufolarmi stando bene attenta a non avvicinarmi troppo a lui.

Carter.

Non mi era passato inosservato il nome usato, ma sorvolai perché in fondo non erano affari miei.
Volevo solo trovare le mie sorelle e divertirmi.

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