- Capitolo Ventinove -

Più lo guardavo, più la rabbia aumentava.

Non avevo parole per descrivere il sangue che ribolliva nelle mie vene e involontariamente quella connessione che avevamo avuto in quei pochi giorni, attivò un pulsante che non avevo mai fatto scattare.

Il panico.

«Dove cazzo eri?» dissi ancora dandogli un colpo con la mano sulla sua spalla rocciosa.

Silenzio.

«Non credi di aver fatto preoccupare tutti, eh?» chiesi colpendolo di nuovo.

Silenzio.

«Credi che non ci stessimo preoccupando per te?»

Lo vidi osservarmi con aria tranquilla, rimanendo fermo nella sua posizione.
Non una parola, non un movimento, soltanto i suoi occhi che mi infiammavano.

«Ma come cazzo fai a stare tranquillo? Ti hanno cercato tutti, hanno chiamato qualsiasi persona potesse avere notizie di te.»

Cercai di spingerlo senza nessun risultato, usando la spinta come stratagemma per nascondere quello che poteva farmi provare solo uno sguardo.
Mi studiò impassibile e poi avanzò un passo verso di me senza mai parlare.

«Dio sei un vero cretino.» Continuai a trovare appellativi poco carini e allo stesso tempo a spingerlo, ma da parte sua, nulla.
Era chiuso nel suo mutismo.

Un sentimento che conoscevo molto bene si unì al panico all'istante.
L'odio.

Lo odiavo perché mi aveva messo tutti contro in poco tempo.
Lo odiavo perché mi faceva provare sentimenti contrastanti.
Panico e rabbia si mischiarono in un turbine di emozioni forti e distruttive.
Così enormi che scoppiai come una bomba a orologeria.

«Ti rendi conto in che posizione mi hai messa? Ti rendi conto di quanto mi sia sentita in colpa? Di quanto mi senta in colpa eh? Cazzo!» Urlai sulla sua faccia quello che realmente pensavo senza peli sulla lingua.

Dal primo giorno in cui l'avevo visto, ero attratta da lui in una maniera assurda.
Mi aveva tenuto sulle spine, mi aveva dato filo da torcere in ogni secondo, con i suoi sguardi, con i suoi occhi, con le sue attenzioni.
Ma allo stesso tempo provavo ribrezzo e odio per il suo modo di fare.
Altezzoso ed egoistico.
E ora si stava alimentando sempre di più il tutto, con ogni suo silenzio.

Lo guardai ancora avvolto nel suo totale menefreghismo.
Era un emerito stronzo.
E io ero stanca di subire, di essere la causa di tutto, di essere il capro espiatorio anche quando non c'entravo nulla.
Ero maledettamente sfinita e sentivo il bisogno di esternare ciò che avevo veramente dentro.
Quel sentimento struggente e affilato come una lama di coltello, che si era aggiunto.

«Ti rendi conto di avermi accusato di qualcosa senza darmi spiegazioni?» strillai furiosa ripensando alla sera prima «come mi avevi detto..ah si...» cambiai subito il mio tono di voce, rendendolo quello di una bambina di quattro anni «"ti avevo detto di non fare casini."»
Lo presi in giro con le sue stesse parole, ma invece di arrabbiarsi come il duro e introverso Noah che avevo conosciuto, si mise a ridere.

Aspettai che finisse, ma ai miei occhi sembrava completamente pazzo.
Noi qui a preoccuparci per lui, senza parlare di David che mi aveva travolto con tutto il letame del mondo.
E lui, una volta fatto capolino, mi rideva in faccia come se niente fosse successo.

Non ci potevo credere.

«Ti sembra divertente?»

«Tu lo sei», disse solamente.

Aprii la bocca senza dire una parola, perché non ne avevo.
Ero basita dalla sua superficialità e dalla sua strafottenza.

«Tu sei pazzo... Vattene», conclusi alla fine esausta e infuriata ancor di più della sua totale indifferenza.

Senza esitazioni, si avvicinò mentre io continuai ad indietreggiare in modo istintivo.
Non capivo a che gioco stesse giocando, ma non volevo farne parte.

«Noah...»

«Plucky...»

«Vattene», dissi un'altra volta mentre toccavo il letto con i polpacci.

Ero arrivata alla fine della mia corsa, a dividerci solo uno spiraglio di luce, ma nonostante questo i miei occhi lo stavano incenerendo, mentre lui si divertiva.

Avevo bisogno di altro e non di coinvolgere tutti nei miei cavolo di casini.
Ma soprattutto, Noah era troppo infantile, lunatico.
Per stare dietro a una persona del genere c'era bisogno di forza e tenacia, cosa che stavo cercando di recuperare.

Provai a spingerlo ancora, ma con meno forza.
Ero troppo sopraffatta dal suo profumo.
Una fragranza che inondava tutta la stanza o soltanto me, non riuscivo a capirlo, ma era forte e deliziosa.
L'attrazione che provavo nei suoi confronti in quel momento era il mio unico biasimo.
Anche i muri, se avessero potuto vedere e percepire, si sarebbero accorti che stava strabordando fuori come un fiume in piena.

Lo vidi avvicinarsi ancora e darmi una piccola spinta con un dito sulla spalla, così forte da farmi sbilanciare e cadere sul letto.

Lo guardai negli occhi, trucidandolo con lo sguardo, dopo aver attutito l'impatto del mio corpo sulle morbide coperte.
Lo vidi stringere i denti e ingoiare a vuoto, come se avesse capito che il limite era vicino.
Come se avesse percepito il mio irrigidimento dovuto alle sensazioni provate sulla pelle con Nicholas, nonostante non conoscesse il mio passato.

Impotenza e paura erano difficili da lasciar andare a volte.
Ogni cosa che potesse riportarmi al mio sedicesimo compleanno mi annientava e mi rendeva rigida come un tronco.
Mi sentivo braccata da Noah come dal bastardo che mi aveva violentato, ma due cose mi fecero capire che non sarebbe stato lo stesso.
La prima era un sentimento che avevo conosciuto in questi giorni.
La seconda erano i suoi occhi.
Dolci, premurosi e protettivi.
Tre qualità che andavano in netto contrasto con quello che voleva dimostrare.

«Plucky, ti stavi preoccupando per me?»

«Fottiti.»

Si abbassò verso di me, sorreggendosi sulle braccia che posizionò ai lati della mia testa.
I nostri corpi si sentivano e bramavano senza mai toccarsi.

«Vorrei lo facessi tu.» disse pentendosene subito.

«Puoi scordartelo, stronzo.»

«Meglio così, non potrei farci nulla con una come te.» disse allungandosi a quel punto totalmente sul mio corpo e facendo combaciare ogni piccolo tassello di noi.

«Noah..»

«Non farlo, non preoccuparti per me, anche perché io di te non mi preoccupo, mai.» concluse accarezzandomi un fianco.

Sentii una parte di me sgretolarsi come biscotti.
Era tutto un controsenso.
I suoi gesti dimostravano ciò che non voleva.
Le sue parole erano capaci di ferirti come pugnali e i suoi occhi, dopo aver pronunciato la parola "mai", cambiarono come il giorno e la notte. Come se mi odiasse o provasse altri sentimenti negativi verso di me.
Non so cosa avesse visto, né cosa avesse pensato in quella frazione di secondo, ma notai il cambiamento nel colore delle sue perle.
Non erano più cobalto, ma nere come l'ossidiana.

Si alzò in fretta, lasciando il freddo della sua assenza ad avvolgermi, mi guardò con superiorità e si diresse verso la porta.

Cercai di ricompormi mentre lo vidi fermarsi sotto l'uscio.

«Cerca di fare la ragazza matura e di non presentarti questa sera.»

«Non darmi ordini.»

«Non è il posto per te, quindi evita di fare ancora cazzate e fai come ti dico.»

Mi alzai come un felino, ancheggiando per dargli fastidio anche se non poteva vedermi, e lo raggiunsi alle spalle.

Non era nessuno per darmi ordini, non era nessuno per me e di certo non ascoltavo chi mi trattava così, neanche per dei semplici consigli.

«Tu non sai nulla di me. Quindi evita di darmi ordini non richiesti.»

«Cazzate.»

«Io faccio quello che voglio, ficcatelo in testa.»

«Lo vedremo.», disse queste ultime parole avviandosi verso le scale.

Non avevo bisogno di altre persone che decidevano per me, non avevo bisogno di Noah che faceva lo stesso.
Avevo già mia madre e Nicholas.

Mi allungai sul letto con mille pensieri nella testa, tanto da sentire dolore.
Cominciai a massaggiare le tempie per riuscire a calmare tutto il turbinio che governava la mia mente.

Nulla.

Il pensiero andava sempre al motociclista stronzo.
Lui non aveva nessun diritto, come gli altri ovviamente.
Si era lanciato in una cosa che aveva smesso di fare mesi fa, per proteggermi, secondo le mie sorelle e i ragionamenti che avevamo fatto.
Però percepivo che c'era di più.
Non lo aveva fatto solo per me, in fondo mi odiava e di certo non stava pensando di salvarmi da Lux.
Ma l'aveva fatto per lui.

Una persona egoista non pensava mai agli altri, o meglio pensava sempre e solo in primis a sé stesso.

E Noah aveva fatto la stessa cosa.
Aveva pensato a lui.

Il mio sesto senso si attivò come una torcia elettrica, facendo luce su ciò che ormai era chiaro ai miei occhi.
Lui stava guardando i suoi interessi.
Forse Celine e Crystal avevano sbagliato?

Ma perché mettermi in mezzo?

Ma soprattutto, perché tornare a gareggiare?

«Dio, ma perché non posso avere una vita tranquilla, cazzo!AAAARGH!» esclamai esausta, scaraventando il cuscino contro l'armadio.

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