- Capitolo Uno -
Guardavo fuori dalla finestra, le nuvole si muovevano in continuazione, o lo stava facendo il mio corpo?
Sentivo il cuore battere così forte da avere la sensazione che sarebbe uscito dal petto.
Ero rimasta lì, seduta su quella poltrona, a contemplare quel magnifico cielo celeste di agosto inoltrato.
Non ci potevo credere.
Più pensavo a tutto quello che era successo nel giro di ventiquattro ore, più non riuscivo a crederci.
Come avevano potuto? Come?
Troppe domande avevo nella testa e poche risposte avevano senso.
In fondo, come avrebbero potuto coinvolgere me, una ragazzina, nella loro decisione.
Semplice, non potevano!
I miei desideri, i miei sogni, i miei amici, tutto svanito. Solo perché loro non volevano ascoltare.
Da piccola avevo sempre respirato aria di famiglia felice, io con le mie sorelle, Crystal e Celine, più grandi di me di qualche anno.
La mamma e il papà lavoravano quasi tutti i giorni, e noi passavamo le giornate dai nonni Jon e Rose, nella loro casa in campagna.
Eravamo come le famosissime Spice Girls e ci piaceva tanto esserlo.
Nonna Rose ci vestiva come loro, ci faceva ballare e cantare a squarciagola.
Trasformava il grande giardino di casa sua in un palco tutto per noi, con file di sedie per accogliere il pubblico, qualsiasi cosa per farci sentire più amate e felici.
Ricordavo ancora quando chiamava in raccolta le sue vicine di casa, tutte sue amiche, con cui si ritrovava in paese ogni sabato mattina.
Preparava la sua squisita torta alla menta e, sedendosi in veranda, ci ascoltavano per tutta la sera, tra una chiacchiera e l'altra.
Amavo quanto tempo ci dedicasse, ogni singolo gesto, momento e sorriso ci donavano protezione e amore incondizionato.
La cosa però che ricordavo in assoluto, era il suo profumo.
L'odore di vaniglia e fragola ci avvolgeva ad ogni abbraccio, a ogni carezza e ci faceva sentire a casa in ogni istante.
Lo sentivi ovunque, sul suo corpo, nelle camere, sulle magliette e sui cappotti.
Quando ci stringeva tra le braccia dopo aver assistito "allo spettacolo del secolo ", come lo chiamava lei, sentivi il calore di una nonna, che per noi era stata, ancor prima, madre.
Grazie a lei, io e le mie sorelle eravamo cresciute unite.
Oltre a cantare e ballare, passavamo i giorni ad aiutarla in casa. Adorava cucinare.
Dolci, pizza, pasta fatta in casa, qualsiasi cosa fosse italiana.
Avevamo imparato dalle sue mani ogni segreto.
Eravamo brave ma, per puro caso o per coincidenze, ognuna era predisposta a eccellere nel suo piatto preferito.
Celine era brava con la pizza napoletana, Crystal adorava fare dolci e io, invece, amavo l'arte della pasta fatta a mano.
La nonna ci aveva dato tanto, ogni parte di lei, ogni consiglio da considerare nella vita, ogni perla tirata fuori dall'esperienza di vita e dalla sua saggezza.
Senza mai scavalcare nostra madre, ma con il tempo lo avevo fatto inconsapevolmente.
Sentivamo spesso la mancanza dei nostri genitori, era inevitabile, ma ogni giorno che passava diventava ormai un'abitudine stare senza di loro.
Noi tre, contro un futuro ancora da scrivere , e andava bene così, o almeno doveva andar bene per forza.
Anche ora che Celine e Crystal erano al college, il nostro rapporto non era cambiato. Loro erano, e sono tutt'ora, le mie spalle, i miei pilastri.
Le sento mie, come se loro fossero sempre lì e spuntassero nel momento del bisogno.
Come il sole e la quiete dopo una tempesta, come quella forza che pensi di non avere, ma poi arriva da una parte nascosta del tuo corpo a sorreggerti, a spronarti e ad aiutarti a rialzarti.
Come due angeli custodi, con il sorriso gentile, le braccia sempre pronte ad abbracciarti e le loro carezze a consolarti.
Bastava. Ci bastava.
Non fraintendetemi, consideravo i miei genitori eccezionali ora, io e le mie sorelle eravamo orgogliose di loro.
Erano due supereroi, sempre pronti a salvare vite.
Materialmente parlando, non ci avevano fatto mancare nulla.
Erano medici e molte volte era estenuante esserlo, turni estremi, straordinari, chiamate nel cuore della notte.
Ma, nonostante sapessimo benissimo che stavano togliendo a noi, per ridare la vita a chi aveva ancora speranze, era un continuo litigare e rinfacciargli la loro poca presenza.
Da piccole guardavamo i nostri genitori stanchi, con occhiaie violacee, sempre di corsa, e molte volte senza forze nemmeno per farsi una doccia.
Ma a noi non importava, dovevamo aggiungere il nostro carico infierendo sull'unica ferita che loro avevano costantemente aperta.
Quella con scritto i nostri nomi.
Riuscivano a medicarla solo con l'impotenza di non poter aggiustare nulla o modificare niente per stare con noi.
Ci volevano bene, ci amavano come figlie, ma avevamo capito fin da subito che il lavoro veniva sempre prima di noi ed anche se da piccole non capivamo l'importanza di tale professione, con il tempo e crescendo avevamo compreso il loro lavoro.
Ora, nonostante tutto, eravamo felici, tanto, nel nostro piccolo.
Almeno fino a due anni fa, perché in un giorno, anzi in una notte, la mia famiglia era cambiata.
I ricordi che affollavano la mia mente erano troppi e devastanti.
Ogni volta che ricordavo, gli occhi diventavano lucidi e lacrime scendevano calde senza nemmeno accorgermene.
Ma le cose che più mi uccidevano l'anima, erano i sentimenti che provavo, che non potevo sfogare.
Un miscuglio di rabbia, vendetta, delusione, amarezza e tristezza.
Ero nel mio mondo, un mondo nero e fatto di tenebre.
Neanche l'amore, ricevuto dalle mie sorelle fino ad ora, era riuscito a scalfire il buio che circondava il mio cuore.
Non era bastato, non era riuscito a far tornare la luce che un tempo mi distingueva.
Ed ora, mi ritrovavo qui, a guardare fuori dalla finestra della mia camera, senza avere una soluzione fra le mani. Avevo solo una sentenza, la loro.
Sussultai e portai una mano sul cuore, quando sentii bussare alla porta.
«Ehi? Ty? Sei sveglia?» mia mamma continuava a chiamarmi cercando di abbassare la maniglia, invano.
Avevo chiuso a chiave, sapevo che prima o poi sarebbe venuta a parlarmi. Ero stata tutto il giorno in camera e ormai dalla finestra la luna aveva preso il posto del sole.
Ascoltarla era fuori discussione, pensai, mentre la sentivo borbottare su quanto le ragazzine di oggi potessero essere infantili.
Lei non capiva, non aveva mai capito.
Continuai a fare finta di nulla e mi accoccolai meglio sulla poltrona, tanto da diventare un tutt'uno con la stanza.
Non volevo sentirla, non volevo fare nulla, solo stare in silenzio.
«Ehi, Ty... per favore apri questa porta. So che sei sveglia! Voglio solo parlarti. Tranquilla!» continuava a blaterare, mentre io continuavo a guardare fuori dalla finestra.
Non capiva che avevo già preso la mia decisione.
Con le mani mi tappai le orecchie, sentivo il bisogno di annullarmi.
Mi infastidiva il suo insistere, il suo continuo chiamarmi, perfino il suo bracciale con mille ciondoli che tintinnavano quando bussava.
Ero stufa, l'unico modo che avevo per non sentirla urlare il mio nome era indossare le cuffie.
Volevo sentirmi bene anche solo per cinque minuti, e la cosa che riusciva a riempirmi senza farmi provare più nessuna sensazione negativa era la musica.
Ero nata tra le note, le sentivo nel sangue, le sentivo ovunque, anche nei capelli.
Erano parte di me, riuscivano a farmi sentire stordita, calma e appagata.
Aprivano un mondo che conoscevo, che avevo fatto mio con il tempo, dove potevo rifugiarmi quando mi sentivo stringere la gola.
Da quando mi ero rotta in mille pezzi, il dolore in alcuni giorni era talmente forte da uccidermi dentro.
In quei momenti oscuri, l'unica vera amica che avevo era la melodia di una canzone.
Sospirai e accesi il telefono, collegai le cuffie e, dopo aver trovato il gruppo che cercavo, premetti play.
Le note di Photograph dei Nickelback spensero le mie tenebre, facendomi ricordare momenti della mia vita che avevo totalmente dimenticato.
Ty.
Il mio soprannome.
Ricordo ancora quando papà mi chiamò così la prima volta.
Eravamo al mare, sedute sulla spiaggia a fare un castello di sabbia circondato da un fiumiciattolo.
Crystal e Celine litigavano per chi doveva andare a prendere l'acqua, mentre io le guardavo infastidita.
Era il periodo in cui qualsiasi cosa o motivo era buono per litigare.
Trucchi, capelli, vestiti, ragazzi.
Non ne potevo più di sentirle ogni giorno.
C'erano giornate in cui non riuscivi a staccarle, sempre d'accordo su tutto e unite contro chiunque le contradicesse... altre, invece, erano come cane e gatto.
E quel giorno, era una giornata no.
Stanca di aspettare, mi alzai sbuffando, presi il secchiello che usavamo per prendere l'acqua del mare e andai da sola verso la riva.
Sapevo che mio padre mi stava guardando, lo faceva sempre.
Ci lasciava fare qualsiasi cosa, nei limiti ovviamente della nostra età, ma sempre sotto stretta sorveglianza.
Infatti non rimasi sorpresa quando, guardandolo di sfuggita, anche se aveva aperto il giornale del mattino, con la coda dell'occhio mi stava già osservando.
Sussultai nel momento in cui l'acqua mi bagnò i piedi e tornai a guardare il mare.
La corrente era forte, ma pensai che stando solo lì, sulla riva, non poteva succedere nulla.
Così mi abbassai, presi l'acqua e sorrisi mentre mi giravo per tornare dalle mie sorelle. Ero talmente contenta di esserci riuscita che non mi accorsi dell'onda in arrivo alle mie spalle.
Persi l'equilibrio e quel mare cristallino mi trascinò giù.
In quel momento, lo sentii. « Ty! Attenta!! »
Il mio supereroe era venuto a salvarmi.
Non avevo visto arrivare mio padre, ma riuscì con un solo movimento a issarmi e riportarmi sulla riva.
Da quel giorno non fui più Felicity, ma Ty.
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