- Capitolo Dodici -
Oggi...
Erano passati due anni da quella notte, ed io mi sentivo come se fosse successo tutto ieri.
Ricordavo le sue mani, la sua forza, la sua determinazione, il suo membro seppellito dentro di me.
La ferocia.
Mi aveva violentata.
Nel giro di mezz'ora, mi aveva tolto tutto, e ancora oggi, mi sentivo piena di lui.
Come si poteva andare avanti dopo un gesto del genere?
Come si poteva vivere ancora?
Non ho mai capito cosa successe dopo.
Ricordo solo che la mattina seguente ero avvolta nelle lenzuola in camera mia, nel mio letto, con il pigiama e lo sguardo perso nel vuoto.
Pensai a un incubo vissuto solo nella mia testa, ma il dolore fra le gambe mi ricordò che quell'incontro c'era stato veramente.
La cosa che mi rimase più dentro e che anche ora, ogni tanto, riaffiora, è la voglia di morire.
Mi aveva talmente rovinato l'anima che giorni dopo, andai in bagno e mi tagliai le vene nella vasca.
Volevo solo farla finita.
Vivevo nei ricordi di quella sera.
Ogni giorno, sentivo la sua voce nella testa, il suo alito sul collo, ero entrata in un loop infernale e non riuscivo a uscirne.
Ricordo ancora le urla delle mie sorelle che mi avevano scoperto nella vasca.
L'ambulanza accorsa a sirene accese, la corsa in ospedale.
Sentivo ancora la puzza di disinfettante e le parole del medico.
«Ha perso tanto sangue, due minuti ancora e Felicity sarebbe morta»
Ma va? Genio, era quello lo scopo.
Il giorno in cui mi svegliai, non parlai con nessuno, per mesi fu così.
Persi l'anno a scuola, andai da una psicologa, Charlie e le mie sorelle cercarono di tirarmi su il morale e di non lasciarmi mai sola.
Mi mostravo a loro sorridente, viva, e in via di guarigione, in parte lo ero, credetemi, in parte no.
Sentivo ancora la puzza di morte, la mia.
Andai avanti per inerzia, il primo periodo.
Mi svegliavo, guardavo il soffitto, facevo la doccia, spiluccavo il pranzo, tornavo in camera, guardavo ancora il soffitto.
Nel pomeriggio mi spostavo sulla poltrona vicino alla finestra, la musica nelle orecchie e lo sguardo perso nel vuoto.
La sera, scendevo per cena senza toccare nulla, tornavo in camera, mi allungavo nel letto e passavo la notte a piangere tutte le lacrime che avevo.
Ogni santo giorno, sempre la stessa storia.
Fino a quando un giorno decisi di andare dalla dottoressa Wikson.
Era una donna dolce, severa a volte, ma comprensiva.
Una psicologa specializzata negli abusi sessuali.
Le prime sedute erano state vuote, lei avvolta nei suoi tailleur color pastello mi guardava, spronando la mia parte interiore ad uscire fuori.
Io d'altro canto, sdraiata sul suo comodo lettino di pelle bianca, ogni volta guardavo il soffitto.
Per mesi.
Ultimamente però ero riuscita a sbloccarmi e lei aveva fatto un gran lavoro.
Mi aveva aiutato a risanare una piccola parte di me in tutto quel caos.
La mia autostima.
Ero rotta dentro e lei lo sapeva bene, lo aveva capito e intuito da ogni mio gesto o parola.
Ci sarebbe voluto tempo, perché per lei io non avevo ancora inglobato la dura realtà, visto anche il tentato suicidio.
Mi stava aiutando è vero, ma mi ripeteva sempre che ero io la prima a dovermi aiutare.
*
Guardai l'orologio.
Le undici.
Ero in ritardo.
Mi alzai dal letto portandomi contemporaneamente i capelli da ambo i lati dietro le orecchie e cominciai a imballare tutto.
Una per una.
Ricordi miei e di Charlie, fotografie mie e delle mie sorelle, libri, la mia amata collezione di conchiglie, le polaroid con i miei amici.
Tra le mani, passarono i miei diciotto anni, li rivedevo negli oggetti, nei souvenir, nei sorrisi e nelle pose che trovavo nelle fotografie.
Tutta la mia vita era lì.
Non potevo evitare però, il cambiamento radicale che mi aspettava.
« Ty, sei pronta?» mio padre titubante si affacciò nella stanza.
Mi faceva pena mentre lo guardavo, succube di una donna, che di mestiere voleva solo rovinarmi la vita.
I suoi pantaloni verde militare si abbinavano perfettamente alla camicia celeste che indossava.
Era bello sì, ma anche insipido.
«Non si bussa più?»
«Ho bussato, sicuramente non mi hai sentito»
«Cosa c'è?» evitai di rispondergli per le rime e arrivai subito al dunque.
«Fra un'ora si parte, la mamma ha preparato già tutto.»
«Ok, scendo... »
Misi le ultime cose che erano rimaste fuori nella scatola e mi sedetti sul letto per mettermi le scarpe.
Mentre allacciavo la prima, notai mio padre ancora sull'uscio della porta.
«Senti pulcina...» disse mentre si metteva le mani in tasca.
«No...»
«Piccola...»
«Ho detto no!»
Cercò di avvicinarsi, ma io lo fulminai con uno sguardo.
«Ty, per l'amor del cielo, fammi spiegare...»
«Cosa papà? Cosa? Di come tu e la mamma avete deciso anche per me? Di come io non abbia voce in capitolo? Oppure dobbiamo parlare di come mi avete trattata fino ad ora? Ah no, certo!
Vuoi davvero spiegarmi qualcosa?
E allora spiegami perché a sedici anni sono stata stuprata da un figlio di papà, ultra quarantenne, che aveva tutto dalla vita! Spiegami perché il giorno dopo ho trovato un assegno di un milione di dollari nella borsa della mamma. Spiegami, cazzo, perché nessun poliziotto è venuto da me, a chiedermi dello stupro o se volevo sporgere denuncia!
Spiegamelo cazzo, spiegamelo!»
Ero nera dalla rabbia, anni di silenzi repressi.
Una risata derisoria uscì dalla mia bocca, mentre lui abbassava il capo.
«Non puoi spiegarmelo vero?
Sai dirmi allora perché mi avete venduta? Si papà, è questo quello che è successo. Mi avete venduta come carne al macello!
Come un trofeo per la miseria!» dissi allargando le braccia mentre lui ad ogni mia parola, sbiancava.
«Che succede qui?»
Dietro mio padre apparve mia madre in tutta la sua bellezza.
Un buongiorno perfetto, dopo una nottata di merda.
«Ooh eccola qua! Adesso siamo al completo. Vogliamo chiedere a lei? » chiesi a mio padre, mentre i suoi occhi lucidi erano rivolti verso la finestra.
«Volete spiegarmi?» mia madre entrò a gamba tesa nella stanza e con lei anche tutta la sua cattiveria.
«Nulla cara, Ty ci raggiunge fra poco»
Mio padre depositò una mano sulla spalla di mia madre, con l'intento di portarla via dalla mia furia cieca.
Ma io ormai ero un treno in corsa.
«Tu vuoi spiegazioni da me? E quelle che ti ho chiesto io mesi fa, dove sono? Le spiegazioni che ti ho chiesto io, dove sono??»
Nessuna risposta.
Allora, incalzata dal suo silenzio, continuai imperterrita.
«Spiegami, perché un assegno finisce nella tua borsa e io sono promessa in moglie al mio stupratore! Spiegami perché nessuno sa quello che è successo? Perché vi comportate come se non fosse mai successo nulla? Perché cazzo!»
Niente.
Mi venne solo vicino ancor di più e con un gesto secco uno schiaffo mi arrivò dritto sulla guancia.
Le risi direttamente in faccia.
« Cosa vuoi farmi ora? Cosa ti ho fatto per meritarlo?Vuoi menarmi ancora?Accomodati pure... tanto non puoi rompermi, né spezzarmi né distruggermi.
Sono già rotta!»
«Caro, chiama la dottoressa Wikson, ha bisogno di una seduta e qualche sedativo.» disse mia madre dirigendosi verso la porta.
«Non serve. Da ora in poi per me voi non siete più nulla. Fra dieci minuti sarò giù. Adesso uscite, per favore»
Girai su me stessa e andai dritta in bagno, raccimolai le mie cose e le buttai in uno scatolone a caso.
Non volevo più vedere le loro facce.
Mi facevano schifo.
Tornare di là ora, per la rabbia che avevo dentro, non era fattibile.
Quindi mi appoggiai al lavandino sospirando, in qualche modo dovevo sbollire.
Aprii il rubinetto e misi i polsi sotto l'acqua ghiacciata.
Calmati, fai un bel respiro, forza.
Chiusi il rubinetto, mi asciugai le mani e feci un bel respiro.
Afferrai il tutto con stizza e andai in camera, per mettere il pacco insieme agli altri.
Ero certa di trovare i miei genitori ancora nella stanza che mi stavano aspettando ed io ero pronta per un secondo round.
Loro però, non c'erano più.
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