IX
Fu difficilissimo staccarmi dalle sue labbra che mi avevano infiammato di desiderio, ma mi allontanai non appena mi accorsi che i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.
Continuai comunque a tenere lo sguardo fisso su di lei, che non appena si accorse dei suoi vestiti bagnati ormai diventati trasparenti, indietreggiò coprendosi con le braccia.
Avrei voluto riabbracciarla, sentite ancora il calore della sua pelle sulla mia, ma in quel momento provai biasimo per me stesso solo per averlo pensato e per non essere riuscito a fermarmi prima.
- Io devo aver perso la testa - mi sfuggì e quando notai la sua espressione stravolta, le detti le spalle perché non sopportavo più di vederla così, sopraffatta dalla vergogna per avermi concesso quel bacio con cui le avevo rubato un po' della sua l'innocenza.
Avevo bisogno di rimanere solo per riacquistare il controllo, così fuggii lontano e quando raggiunsi l'esterno dell'oasi, cominciai a fare avanti e indietro, come un leone in gabbia.
Come avevo potuto baciarla?
Eppure, nonostante quella domanda mi risuonasse nella mente, dovetti lottare con me stesso per fermarmi, poiché l'unica cosa che avrei voluto fare era tornare da lei e confessarle i miei sentimenti, aprirle il mio cuore e chiederle di rimanere con me come aveva detto...
Me lo aveva giurato, nonostante glielo avessi estorto quasi con la forza...
Ed io, uomo insulso, potevo mai aspirare a poterle chiedere una cosa del genere?
Solo due giorni prima avevo ammesso davanti a Sahid di volerla sposare, di voler andare contro il volere della mia famiglia pur di non perderla. Una scusa per allontanare mio fratello da lei, ma che mi aveva costretto ad ammettere ciò che volevo in realtà... una realtà purtroppo irrealizzabile senza causare ulteriore sofferenza. Mylène ne era stata la prova vivente ed io non potevo essere così egoista da volere lo stesso destino amaro anche per sua figlia.
Perso nei miei pensieri, non mi ero reso conto che si stava facendo tardi e che era più di un giorno che non mangiavamo nulla. Salii su un tronco di una palma per raccogliere dei datteri e dall'alto riuscii a scorgere Shirley, oltre alcuni rami, mentre si toglieva i vestiti bagnati per farli asciugare al sole.
Dopo tutta la fatica fatta per frenare ogni mio desiderio impossibile ed egoistico, in un attimo persi tutto: i pensieri, le parole, il fiato, la ragione...
Di fronte a quella inebriante visione mi bloccai estasiato: quel poco che ancora copriva le linee sinuose al di sotto della sua esile vita, non lasciava ormai nessuno spazio alla mia immaginazione.
Si sedette su una roccia e passando le dita nei suoi lunghi capelli, li portò in avanti nel tentativo di scioglierne i nodi. Le sue spalle rimasero scoperte, permettendomi di ammirare la sua pelle color latte, così diafana e perfetta che avrei voluto ricoprirla di baci infuocati fino a lasciarle il segno.
Non potevo fare a meno di guardarla in tutta la sua bellezza, ricordando le sue labbra che poco prima avevo assalito con passione; il suo sguardo che non era riuscito a nascondere il desiderio che aveva provato, nonostante subito dopo mi avesse respinto.
Cosa avrebbe pensato di me se si fosse accorta che la stavo guardando in quel momento?
Se fosse rimasta troppo al sole, la sua pelle si sarebbe presto scottata: quello fu l'unico pensiero virtuoso che riuscì a schiodarmi da quel tronco.
Scesi dall'albero e andai a recuperare i miei vestiti: avrei potuto fare a meno della tunica che portavo solitamente sotto quella di lana pesante, così mi decisi a portargliela.
- Ah, sei qui! - le dissi quando mi avvicinai cogliendola alla sprovvista.
Era seduta al riparo dietro una siepe, per cui, pur essendo molto vicino, le lasciai la sua privacy, anche se lei appena udì la mia voce, mi intimò di non avvicinarmi.
- Sta' tranquilla, non ti vedo mica - le dissi per rassicurarla.
- È solo che è meglio ripartire prima che faccia buio. Mettiti questa e sbrigati - le dissi, mentre le feci cadere precisamente tra le braccia la mia tunica piegata in un fagotto.
Mi raggiunse così velocemente che ne rimasi sorpreso e dalla sua espressione bellicosa, indovinai che doveva aver pensato che l'avessi spiata. Il cipiglio che aveva disegnato in volto e la mia tunica, troppo lunga e grande per lei, mi fecero sorridere, ma ormai avevo indossato nuovamente il mio tagelmoust e potevo facilmente riuscire a nasconderle tutto.
Ero certo che avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma si frenò intimorita dall'atteggiamento distaccato che ero solito indossare quando volevo occultare ciò che pensavo.
Non ero pronto a riprendere quel discorso che avevamo interrotto, per cui mi chiusi anch'io nel silenzio e nell'indifferenza, come se non fosse successo nulla. Sapevo di doverle delle scuse per averle detto delle cose non vere, ma non potevo rimangiarmi tutto: era l'unico modo che avevo per far sì che non s'illudesse.
Nonostante tutto, con un solo passo le fui accanto per passarle i datteri che avevo raccolto. Lei li prese tra le sue mani e in quell'attimo le brillarono gli occhi dalla gratitudine. Di sicuro doveva avere una gran fame.
L'ombra che fino a un attimo prima le incupiva lo sguardo scomparve: doveva aver pianto, ma sperai dentro di me che mi avesse già perdonato per averla baciata con tanto impeto.
Era così tenera che non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, ripensando a ciò che avevo intravisto sotto i suoi vestiti poco prima: avrei voluto baciarla ancora e ancora, ma quel nostro idillio ormai era finito.
Abbassò lo sguardo arrossendo, come se avesse intuito i miei pensieri più nascosti, ma rimanemmo entrambi in silenzio finché, finito di mangiare quei gustosi frutti dolci e carnosi, ci avvicinammo al mio cavallo per ripartire.
La sostenni per farla issare e quando si fu sistemata, mi appoggiai alla staffa libera e, con un unico scatto, montai dietro di lei. Sistemai le redini facendole passare sul davanti e con la mano libera le spostai i lunghi capelli che rischiavano di rimanere imbrigliati.
Senza rendermene conto, le sfiorai appena il collo con le dita e lei sussultò a quel contatto, ma quando l'avvolsi con le mie braccia, si appoggiò al mio petto per non perdere l'equilibrio.
Quando mi era così vicina, mi sentivo completo. Ormai dopo tutto quel tempo passato insieme, mi veniva naturale ricoprirla di attenzioni e darmi premura per farla stare bene. Mi sentivo una cosa sola con lei e per tutto il tempo passato durante il viaggio, al pensiero che presto avrei dovuto rinunciarci, mi chiusi in un silenzio ostinato.
Arrivammo al villaggio al tramonto e quando ci videro insieme, dagli sguardi sbiechi della mia gente, capii subito quello che stavano pensando: sicuramente si chiedevano cosa ci fosse tra me e quella ragazza straniera.
Le nostre leggi, che, come tuareg e come capo tribù, m'imponevano di proteggere chiunque godesse della nostra sacra ospitalità, erano una scusa bella e buona. Da quando qualcuno aveva sentito il litigio che c'era stato tra me e Sahid, era più che evidente che ci fossero delle motivazioni più complicate di quelle che potevano apparire.
Quando aiutai Shirley a scendere dal cavallo, ero così preso dai miei pensieri che ancora una volta non le rivolsi nemmeno una parola e lei, quasi infastidita, mi lasciò senza dir nulla.
Ormai le voci si erano sparse per tutta l'oasi: mi ero inevitabilmente compromesso con quella ragazza straniera tenendola con me. Era ormai palese quanto mi avesse stregato.
La sua fuga aveva gettato un'ombra sul mio onore e offeso la nostra gente che l'aveva generosamente accolta.
Ma perché mai era fuggita in quel modo? Perché non mi aveva semplicemente chiesto di riportarla a casa?
L'avevo ferita diverse volte, ma non le avrei mai negato il mio aiuto.
Ora le donne avevano già cominciato a fare riti scaramantici e gli uomini mi ridevano alle spalle per aver perso la faccia per colpa di una donna che non potevo avere e che non era del mio stesso rango.
Ed io? Avrei mai trovato il coraggio di lasciarla andar via?
Mentre ero seduto accanto al fuoco, con lo sguardo di disapprovazione addosso di Amghar e di tutti gli anziani, notai Shirley uscire dalla sua tenda. Non appena mi vide e si rese conto che la stavo già fissando, i nostri sguardi si ancorarono l'uno all'altro.
Questa volta non era più intimorita, ma al contrario sembrava quasi volesse sfidarmi o provocarmi.
Con passi audaci prese a incedere verso di me e a nulla valse la mia solita freddezza con cui cercavo di nascondere l'effetto che aveva su di me. Ci stavano guardando tutti, così da codardo mi alzai con un balzo e rientrai nella mia tenda per farle capire che non potevamo discutere davanti a tutti, dopo quello che ormai pensavano di noi.
Mentre mi scoprivo il viso per potermi rinfrescare con dell'acqua, lei mi sorprese entrando. Al solo pensiero di ciò che quel suo gesto avventato poteva scatenare, un moto dell'animo, acceso da una forte ira, mi spinse a essere duro e spietato.
Solo indossando quella maschera, avrei mantenuto la forza per tenerla a debita distanza, anche se ormai dubitavo di riuscire a scoraggiarla dai suoi propositi, sebbene fossero del tutto ingenui. Se fosse stata una donna scaltra, avrebbe atteso che tutte le luci del villaggio si spegnessero. Invece era venuta al mio cospetto, senza pensare minimamente di essere malgiudicata.
Avrei voluto essere anch'io così trasparente e spontaneo come era lei.
- Non puoi entrare qui, non sei mia moglie! - le dissi senza tradire con la mia voce quanto in realtà avrei voluto che rimanesse lì con me per sempre.
In un'altra vita, se tutto il resto del mondo fosse scomparso e se null'altro mi fosse importato, pensai, mi sarei inginocchiato davanti a lei in quel momento stesso e guardandola nei suoi bellissimi occhi, le avrei chiesto di sposarmi e di divedere la mia tenda con lei.
Lo avrei fatto, con tutto me stesso, se solo non fossi stato certo che l'avrei condannata a una vita infelice.
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