VII
Era già scesa la sera quando sentii il suono dolce di un flauto zufolare in maniera appena percettibile.
Sbirciai fuori dalla tenda, ma era impossibile cercare di capire da dove proveniva la scia di quelle irresistibili note, ma non doveva essere lontano.
Guardai in giro, ma vidi solo piccoli fuochi accesi con attorno uomini dal volto coperto.
Erano passati ormai due giorni da quando ero con quella gente e mi sentivo in un certo senso al sicuro.
Non sapevo dove mi stavano portando, non conoscevo la loro lingua e i loro costumi e soprattutto non sapevo se mi avrebbero riportato indietro dai miei parenti.
Eppure, desideravo per sempre scomparire dal resto del mondo, nascondermi magari tra di loro indossando un velo che mi avrebbe reso anonima e senza volto.
Non volevo più tornare indietro, non volevo più vivere la mia vita piena di incredibili e nuove verità che mi avevano sconvolto per sempre.
Istintivamente presi tra le dita il simbolo della verità della mia vita: la croce che portavo al collo, ma subito la lasciai per cercare di dimenticare tutto quello che mi ricordava, compreso chi me l'aveva restituita poco tempo prima.
Uscii dalla tenda cercando di passare inosservata camminando negli angoli più bui, cercando di seguire il suono misterioso della melodia che ancora si sentiva nell'aria. Era un suono così soave che trasmetteva le sue vibrazioni fin dentro la mia anima. Sembrava il canto melodioso degli angeli che avevano attirato i pastori nella notte di Natale. E quel posto così magico, sin dal primo momento, mi aveva dato l'idea di un paesaggio biblico, come l'antica Betlemme.
Cercai di avvicinarmi alla sorgente di quella armonia incantatrice e più diventava forte, più mi batteva il cuore. Certo non mi aspettavo di trovare davvero la santa grotta in cui era nato il Messia, ma ero ugualmente molto incuriosita.
Scoprii che quelle note provenivano da dietro un mucchio di rocce e cercai di fare meno rumore possibile mentre mi avvicinavo. Era un posto piuttosto isolato e sarebbe bastato poco per scoprire la mia presenza.
Ero ormai quasi arrivata alle spalle della fonte di quella musica, ma ancora non riuscivo a vedere chi la producesse.
Quando fui vicina mi nascosi dietro una parete rocciosa e rimasi ad ascoltare. Ormai quella musica, che all'inizio era appena udibile, era distante da me solo pochi passi, quindi potevo finalmente sentirla nitidamente. Ero rimasta completamente affascinata da quel motivo. Restai nascosta per qualche minuto, poi fui vinta dalla curiosità e cercai di vedere chi si trovasse dietro quelle rocce.
Andai più avanti cercando di non farmi vedere e potei distinguere la figura di un uomo inginocchiato davanti al fuoco intento a suonare un piccolo strumento a fiato.
Non ebbi il tempo di guardarlo bene in volto che scivolai su un mucchio di sassi, provocando un inevitabile rumore.
La musica cessò di colpo e mentre cercavo di rialzarmi, mi ritrovai tra le braccia di quell'uomo che mi aiutarono a sollevarmi.
- Va tutto bene? – sentii chiedermi.
Alzai di colpo il mio sguardo su di lui per la sorpresa di aver sentito parlare nella mia lingua e rimasi ancora più sorpresa quando mi resi conto di chi aveva parlato.
Fui colta così inaspettatamente da quel suo abbraccio che subito reagii sussultando bruscamente. Sarei fuggita se non mi avesse trascinato vicino al fuoco.
- Perché hai paura di me? - continuò a chiedermi, staccando le sue mani dalle mie spalle, evidentemente per essersi accorto del mio sussulto.
Nonostante si fosse allontanato fisicamente da me, il suo sguardo non mi lasciò mai.
Continuai anch'io a guardarlo questa volta con più attenzione, attratta dalla sua voce profonda che aveva una forte pronuncia gutturale, nonostante parlasse benissimo la mia lingua.
Era la prima volta che sentivo parlare Rachid, a parte quell'urlo che gli avevo sentito intimare giorni prima, ma quella volta ero così terrorizzata che non avevo fatto caso né alla sua voce, né al suo volto.
In quel momento mi accorsi che non avevo desiderato altro che sentire la sua voce. Avrei voluto anche guardare il suo viso che avevo sempre visto coperto dal tagelmoust, ma nel tempo in cui ero scivolata, aveva avuto la prontezza di coprirselo.
- Io non ho paura – dissi e per dimostrarglielo mi sedetti accanto al fuoco con lui, nel posto che in quel momento mi stava indicando con una mano.
- Ti sei ferita un ginocchio – disse guardando le mie gambe.
- Non è niente! – pronunciai imbarazzata tirandomi giù la gonna fino alle caviglie, ma in realtà mi faceva un male atroce.
Lui almeno ebbe l'accortezza di non dire niente.
Feci finta di essere attratta dal piccolo zufolo di legno, ma in realtà non riuscivo a guardare Rachid negli occhi. Non capivo perché, ma quella forte sensazione che provavo non era paura, anche se ogni volta che guardavo quell'uomo mi sentivo gelare.
Avevo piuttosto paura di quelle emozioni sconosciute che non riuscivo a comprendere.
- Non volevo disturbare. Io... non riuscivo a dormire al suono di quello strumento...
Non riuscivo più a trovare le parole, ma sentivo che dovevo dire qualcosa, non fosse altro per interrompere il suo silenzio. Odiavo il suo silenzio, così come odiavo il suo nascondersi dietro quel velo.
Dinanzi ai suoi occhi che non si staccavano mai da me, mi sentivo quasi nuda.
Alla fine, rimasi anch'io muta aspettando che parlasse, ma lui non disse nulla. Continuò solo a guardarmi.
Poi prese un bicchiere e mi versò del tè fumante che io accettai solo per non offenderlo.
Ricordai le parole di Zahîrah: "Un offesa per i tuareg ferisce più della morte".
Lo tenni un po' tra le mie mani e poi mi decisi a berlo tutto, senza lasciarne neanche una goccia.
Anche lui ne bevve un bicchiere infilandolo sotto il suo velo per portarlo alla bocca.
Lo guardai sorpresa per il suo gesto e lui allora finalmente parlò.
- Noi tuareg non mostriamo mai il nostro volto a nessuno, neanche quando mangiamo. È una nostra tradizione. Spero che per questo non ti sentirai offesa.
Non risposi, ma ero colpita dalle sue parole.
- Io sono il capo di questa gente – continuò. - Desidero dirti a nome mio e nome loro che sei la benvenuta. Spero che la nostra umile ospitalità sia di tuo gradimento.
Parlava molto lentamente e le pause che usava tra una frase e l'altra mi dettero l'idea di un uomo che pensava molto prima di parlare e che quando lo faceva non desiderava essere né interrotto né contraddetto.
Io nell'imbarazzo della situazione feci solo un cenno affermativo con la testa e aspettai in silenzio che parlasse di nuovo.
- Come ti chiami? – mi chiese infatti.
- Shirley – risposi farfugliando.
- Mylène Shirley, ma tutti mi chiamano solo Shirley. Sono americana.
Non appena pronunciai il mio nome, notai nei suoi occhi un lampo di sorpresa, che durò però soltanto per pochissimi secondi.
- Mylène però è un nome francese - obiettò lui.
- È stato mio padre a sceglierlo, non so altro – mentii cercando in tutti i modi di dimenticare le parole che mio padre mi aveva scritto nella sua lettera rivelatrice.
Rachid piombò nuovamente in un pesante silenzio.
Poi m'indicò una macchia di sangue sul mio vestito ad altezza del ginocchio e continuando a rimanere in silenzio prese un unguento e una benda da una piccola borsa che portava a tracolla.
Mi aspettavo almeno un rimprovero, dato che io gli avevo mentito dicendogli che non mi ero fatta nulla durante la caduta, ma mi lanciò solo uno sguardo contrariato.
Si avvicinò non staccando mai gli occhi dai miei, aspettando da me il permesso per potermi toccare.
Scoprendo il ginocchio gli feci allora un cenno, così lui, dopo aver pulito la ferita, con le dita ci passò sopra l'unguento che aveva tirato fuori poco prima.
Anche quella volta il tocco delle sue mani fu così gentile che ebbi la sensazione che mi vedesse come un oggetto fragile.
Fu una bella sensazione sentirmi protetta e ricoperta di attenzioni.
Quando ebbe finito di bendarmi il ginocchio, continuò comunque a rimanermi molto vicino.
Avrei voluto ringraziarlo, ma non trovavo le parole più adatte. Mi sentivo in soggezione, ma nonostante i nostri volti fossero vicinissimi, non mi allontanai questa volta.
Dopo qualche secondo, vinsi ogni imbarazzo e finalmente mi decisi a chiedere: - Sere fa mi hai salvato da quegli uomini che mi avevano rapita. Mi hai salvato la vita, ma non mi è stato ancora chiarito se adesso sono di nuovo libera.
Riuscii a guardarlo negli occhi mentre gli parlavo e finalmente nel suo sguardo sempre fiero e impenetrabile riuscii a notare una piccola scintilla di inquietudine, anzi, quasi di amarezza. Gli vidi aggrottare le sopracciglia e ritrarre il suo petto di qualche centimetro.
Dopo un lungo istante abbassò gli occhi, come se avesse capito che leggevo il suo stato d'animo attraverso il suo sguardo.
Quell'atteggiamento mi fece capire molte cose di lui e soprattutto capii che non avrei mai dovuto aver paura del suo modo di apparire invincibile e crudele. Capii che sotto la sua immagine dura, c'era un uomo ancora da scoprire.
- Ora sei libera ovviamente. Puoi fare ciò che vuoi e nessuno ti può costringere a rimanere qui – disse alla fine riacquistando tutto il suo controllo.
Sentii le lacrime salirmi agli occhi e prima che uscissero, mi alzai e corsi via tremando per la forte emozione.
Ero libera, sì, ero sempre stata libera, eppure ancora non sapevo che cosa volesse significare questa parola.
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