VI

Per tutta la notte dormii senza accorgermi di nulla, ma quando uscii da quello stato di narcosi, mi risvegliai in una tenda.

Avevo un mal di testa terribile, ma mi sentivo fisicamente sollevata, come dopo una buona dormita.

Ero infatti in un luogo più accogliente e soprattutto non avevo più i polsi legati, anche se mi facevano ancora un po' male.

Il primo gesto che feci fu quello di portare le mie dita alla gola. Constatai che era ancora intatta, ma iniziai di colpo a piangere, perché non sapevo cosa aspettarmi dal destino e perché ero lontana dal pensare che quell'avventura mi avrebbe fatto conoscere dei sentimenti che non avevo mai provato prima.

Dopo qualche attimo vidi entrare una ragazza vestita di blu e con le braccia e la testa ornate da amuleti e gioielli che tintinnavano a ogni suo minimo movimento.

Portava un cesto pieno di frutta che posò accanto a me, poi mi venne vicino e mi disse: - Coraggio! Adesso non hai più nulla da temere!

Parlava francese anche se non perfettamente, ma ciò contribuì a rincuorarmi, sapendo che avevo qualcuno con cui poter parlare. Il fatto che fosse una ragazza più o meno della mia età, aggiunse sollievo ancora di più al mio cuore.

Ero sorpresa di ritrovarmi in un luogo sicuro, almeno in apparenza, così domandai: - Come sono finita in questa tenda? Dove sono gli uomini che mi tenevano prigioniera?

- Sssh! - disse lei guardandosi alle spalle e facendomi capire di parlare piano.

- Sono ormai lontani, ora sei salva - aggiunse.

- Ma dove sono tutti quegli uomini armati? Sono stati loro a salvarmi? Dove mi trovo ora? - le chiesi con il cuore rigonfio di ansia.

Lei rimase un lungo attimo senza dire niente, indecisa se parlare o meno.

Infine, si decise a rivelarmi quello che sapeva.

- Ieri sera un uomo della nostra carovana ti ha vista e quando gli hai chiesto di aiutarti, è corso a dirlo al nostro padrone. Io non so cosa gli abbia detto di te, ma il mio padrone senza neanche alzarsi da dove si trovava, ha mandato indietro l'uomo a chiamare il capo di quelli che ti hanno rapita. Di bocca in bocca, senza dare dell'occhio, tra i nostri uomini si è sparsa velocemente la voce che tu eri prigioniera di quei ribelli. Tutti gli uomini si sono messi in allarme. Il mio padrone non ha mai deluso chiunque gli chiedesse aiuto, così con una scusa ha chiesto di parlare con quel brutto ceffo, che ha una pessima fama da tantissimi anni. Sono stati per parecchio tempo davanti al fuoco e hanno preso il tè insieme, finché tu sei riuscita a uscire e gridare. Ti ho sentita persino io che ero chiusa in questa tenda! Rachid allora, in meno di un secondo, ha sguainato la sua spada puntandola contro quell'uomo, mentre contemporaneamente facevano la stessa cosa con te. Il resto penso che lo abbia visto da sola...

- Chi è Rachid? - chiesi io che del discorso della ragazza avevo capito ben poco.

- Rachid è il mio padrone. È il capo della nostra tribù!

- Come può essere il tuo padrone? - chiesi del tutto ignara dei costumi di quella gente berbera.

- Io sono una schiava akli.

- Akli? Che vuol dire?

- Sono nata schiava. Anche i miei genitori erano schiavi e anche i genitori dei miei genitori lo erano.

Mentre parlava non c'era in lei nessuna traccia di vergogna. Parlava dei suoi avi con fierezza, come se fossero appartenuti a una classe di lavoratori docili e volenterosi.

- Tu credi che sarò anch'io una schiava?

Non appena ebbi pronunciato quella domanda, qualcuno entrò nella tenda.

Zahîrah, così si chiamava la ragazza che aveva parlato con me, si alzò subito in piedi e corse a baciare le vesti di quell'uomo. Poi mi guardò significativamente e uscì.

A quella vista rimasi immobile, come pietrificata. Sicuramente era Rachid: lo riconobbi subito dai suoi occhi, che tanto mi avevano colpito il giorno prima e che mai e poi mai avrei dimenticato.

Difficile descrivere cosa provai non appena mi fu di fronte a così poca distanza: ero intimorita e nello stesso tempo affascinata dal suo portamento. La sua presenza sembrava riempire l'intera stanza.

Con soli due passi mi fu vicino. S'inchinò verso di me e prendendomi una mano, mi fece alzare.

Sollevai lo sguardo verso di lui e mi sentii gelare. Mi guardava con tanta insistenza che provai un imbarazzo tale da farmi desiderare di essere lontana un miglio. Sentivo il mio cuore sobbalzare nel petto tanto da farmi male, eppure non riuscivo a distogliere il mio sguardo dai suoi occhi profondi e ipnotici.

Era molto alto e indossava una lunga tunica tipica dei nobili tuareg. Un velo color indaco gli avvolgeva la testa e il volto, lasciando scoperti solo gli occhi. Dal fianco sinistro gli penzolava una guaina minuziosamente cesellata che foderava una sciabola ricurva fino ad arrivare alle ginocchia, la stessa che gli avevo visto usare con sapiente destrezza. Attaccati al collo portava una decina di amuleti d'argento e piccole borse di cuoio. Tutto, insomma, perfino il suo sguardo fiero e quasi crudele, gli conferivano l'aria inquietante di un invincibile leone del deserto.

Non pronunciò neanche una parola per tutto il tempo in cui ci eravamo guardati e sebbene sembrasse tanto fiero e impenetrabile, per un attimo sembrò che dai suoi occhi scaturisse un velo di umanità.

Avrei voluto guardare il suo volto per intero, o conoscere i suoi pensieri, ma il suo stato d'animo nascosto sotto il tagelmoust (il velo tipico con cui i tuareg si avvolgevano il capo e il volto) era difficile da scrutare o da percepire. Dopo un istante interminabile abbassò lo sguardo e prendendomi una mano con estrema delicatezza, chiuse nel mio palmo un piccolo oggetto. Il suo tocco fu così impercettibile, che quasi non me ne accorsi. Sembrava come se temesse di rompermi. Per pochissimi attimi, tenne chiuso il pugno della mia mano nella sua, grande e forte, ma quella presa fu gentile come una carezza, tanto che stranamente quel contatto non mi dette fastidio, anzi mi dette quasi sicurezza.

Fece poi un passo indietro e continuando a guardarmi uscì dalla tenda, sempre senza dire una sola parola.

Solo allora aprii la mano e vidi che mi aveva restituito la croce di mia madre.

Mi accorsi solo in quel momento di avere il volto bagnato dalle lacrime. Avevo pianto di fronte a lui che neanche sapevo chi fosse e di cui non conoscevo nemmeno l'espressione del viso, a parte lo sguardo.

Rimasi la maggior parte del tempo in quella tenda quel giorno, in compagnia di Zahîrah, che si comportava con me con una spontanea e disinteressata devozione.

Mi prestò alcuni dei suoi abiti puliti e mi aiutò a indossarne uno, perché il mio, dopo gli ultimi avvenimenti, era ormai logoro. Poi mi aiutò anche a pettinarmi.

- Hai dei capelli bellissimi - mi disse mentre me li spazzolava.

Zahîrah continuò a elogiarne il colore e la lunghezza, anche dopo averle detto che ero l'ultima ragazza americana che portava ancora i capelli così lunghi. Tutte le donne ormai imitavano i corti riccioli delle dive di Hollywood.

Dubito, comunque, che riuscisse a capire che cosa fosse la moda, ma Zahîrah, nonostante provenisse da una famiglia che da generazioni viveva nel Sahara, allo stesso modo di come vivevano millenni fa, era una ragazza molto sveglia e intelligente.

- Nel deserto le donne si dimostrano la loro amicizia truccandosi e pettinandosi vicendevolmente - mi disse.

- Sei fortunata ad avermi trovata qui. Le donne non seguono mai gli uomini nelle carovane. In un'altra occasione, difficilmente avresti avuto qualcuno che poteva accudirti.

- Come mai sei qui allora? - le chiesi.

Lei esitò un attimo prima di rispondere, poi disse: - Mi trovavo ad Ait-Ben-Haddou. Ora sto ritornando dalla mia gente all'oasi. Così vuole il mio padrone.

Pronunciò le ultime parole con un tono che non ammetteva repliche. Quello che le comandava il suo padrone era legge e la semplice frase "Così vuole il mio padrone" faceva intendere tutto quello che era la sua vita: un insieme di decisioni che qualcun altro prendeva al suo posto o ordini cui doveva sottostare.

Eppure, sembrava che tutta la sua felicità ruotasse intorno a quel "Così vuole il mio padrone" e probabilmente se così non fosse stato, lei non sarebbe mai sopravvissuta.

- Sono felice di aver trovato una nuova amica - le dissi.

Volevo farle molte domande, ma non ebbi il coraggio di chiederle qualcosa a proposito del suo misterioso "padrone". Non sapevo nemmeno se fosse giovane o vecchio, ma quello che mi premeva di più sapere era se mi avesse lasciata libera di ritornare nel mio paese.

Durante il pomeriggio uscii dalla tenda finalmente, con l'intento di scoprire il paesaggio che mi circondava e soprattutto per scoprire se fossi libera o meno.

Certo ero stata tratta in salvo da quei malviventi che mi avevano rapita, ma non osavo fidarmi ancora di quella gente.

Mi trovavo in un piccolo accampamento in cui erano rimasti solo pochi uomini che probabilmente facevano da guardia. Non c'era nessun'altra donna, tranne Zahîrah e lei stessa mi aveva detto che le carovane erano composte solo da uomini.

Finalmente riuscii ad ammirare il paesaggio in cui mi trovavo. Non c'erano più i verdi palmeti e i giardini fioriti che abbondavano le città che fino ad allora avevo visitato. La vegetazione adesso era più rara, ma il paesaggio era ancora più suggestivo. Le montagne dominavano quei luoghi circondandoli con pareti rocciose alte centinaia di metri. Gli unici accessi agli esseri umani erano costituiti da profonde gole e fenditure che si aprivano nella roccia e che permettevano il passaggio verso le valli desertiche del sud.

Una sorgente sgorgava da una parete di granito dalle sfumature rossastre, creando una piccola cascata. Era un paesaggio che toglieva il fiato e che mi faceva sentire un essere insignificante di fronte alle meraviglie e alle grandezze della terra.

D'un tratto, mentre vagavo con la mente in pensieri cosmici, mi sentii chiamare da una voce di donna.

Era Zahîrah a chiamarmi e non appena mi avvicinai a lei, mi disse di prepararmi per la partenza.

Notai infatti che gli uomini avevano già caricato le loro cose sui fianchi dei loro cammelli con una velocità sorprendente.

Per quanto cercai, non riuscii a trovare tra di loro qualcuno che potesse essere Rachid. Pur non conoscendo il suo volto, avrei potuto lo stesso distinguerlo dagli altri per il suo portamento regale e piuttosto singolare.

Non volli chiedere a Zahîrah dove fossero gli uomini che mancavano e non ebbi neanche la forza di chiedere dove eravamo diretti.

La speranza della libertà non mi aveva abbandonata del tutto però.

Ci mettemmo in viaggio parecchie ore prima del tramonto e percorremmo la pista di un vecchio letto di un fiume in secca.

Il lento procedere dei cammelli e la loro andatura leggermente dondolante mi fecero ritornare indietro di migliaia di anni, ai tempi di Cristo.

Attraversammo un'interminabile landa simile a un paesaggio lunare e di tanto in tanto, si presentavano davanti agli occhi una miriade di ksour, i villaggi fortificati e fiabeschi dove vivono le popolazioni di quei luoghi.

Sembrava che qualche bambino si fosse divertito a costruirli in un'immensa spiaggia.

Le dimensioni di quei maestosi castelli di sabbia però toglievano ogni dubbio. Non un bambino, ma migliaia di uomini avevano costruito quei magnifici bastioni color ocra, nell'intento di difendersi dai popoli nemici.

Poco prima del tramonto ci fermammo nei pressi di un umile villaggio, dove la vita scorreva lentamente e il tempo sembrava essersi fermato nell'antichità.

Presto furono montate le tende dove fermarsi per la notte, con l'abilità tipica di chi compie quelle azioni quotidianamente. Restammo nei pressi di quel caravanserraglio per un altro giorno, finché nel pomeriggio, mentre facevo una piccola siesta all'ombra di una tenda, vidi da lontano un'altra carovana giungere nella nostra direzione.

Fui subito attratta dall'incedere solenne e veloce di un bianco mehàri che guidava gli altri.

L'animale portava sulla sua gobba una figura familiare che lo cavalcava con estrema sicurezza.

Pensavo che il cavallo fosse l'unico animale a possedere una grazia particolare nei movimenti, ma quando vidi quel dromedario mi dovetti ricredere.

Il mehàri giunse davanti a me come in una marcia trionfale e con eleganza, seguendo i comandi del suo cavaliere, si inginocchiò con estrema lentezza curvando in avanti prima le zampe anteriori e poi quelle posteriori, permettendo all'uomo di scendere.

Lo avevo riconosciuto a prima vista e anche se non era la prima volta che lo vedevo, questa volta fui ancora più colpita delle volte precedenti.

Con gesti lenti e misurati era sceso dall'animale con altrettanta eleganza. Camminava con passi simili a quelli di una lince del deserto, sollevando appena la sabbia con i piedi e per quanto cercavo di distogliere il mio sguardo da lui, mi era del tutto impossibile. Alzò un braccio in segno di saluto verso la sua gente, poi d'un tratto si fermò, accorgendosi di me. Restò a guardarmi per qualche istante, poi mi rivolse un saluto appoggiando la sua mano sul cuore.

Non so cosa mi prese in quel momento, ma senza pensarci, rientrai nella mia tenda come un animale in fuga. Ero confusa forse perché ero stata sorpresa ad ammirarlo o forse perché avevo sentito il mio cuore battere come non aveva mai fatto prima di allora.

Ero infuriata dal fatto che Rachid poteva nascondersi dietro il suo velo, mentre io, che avevo una carnagione molto chiara, arrossivo visibilmente con molta facilità e difficilmente potevo nasconderlo.

In quel momento sicuramente avevo le guance in fiamme e il solo pensiero che lui potesse accorgersi del potere che aveva su di me, mi fece provare una tale vergogna da farmi correre a nascondermi.

Restai per tutto il tempo sotto la mia tenda. Era un ambiente piccolo, ma molto confortevole. Mi ci trovai subito a mio agio, anche se non avevo con me nessun bagaglio.

Zahîrah quel pomeriggio mi portò altri vestiti da poter mettere, ma notai subito che erano molto diversi da quelli che mi aveva prestato la prima volta. Erano di pura seta e lavorati con sapienti rifiniture che sicuramente una schiava non poteva permettersi.

- Sono tuoi? - le chiesi.

Lei ignorò la mia domanda dicendo: - Non ha importanza di chi sono. Devi solo indossarli e saranno tuoi.

Capii che quelle stoffe meravigliose non potevano essere un suo generoso prestito come la prima volta, ma dovevano essere il dono offertomi da qualcuno.

Non ci misi molto a capire da chi mi fossero state donate. Mi venne in mente una di quelle storie arabe che avevo letto su qualche libro. Immaginai uno sceicco circondato da decine delle sue mogli favorite, fatte rapire appositamente per lui da chissà quali paesi. Rabbrividii.

Non avevo la ben che minima intenzione di entrare nell'harem di qualche uomo. Avrei preferito piuttosto la morte.

- Se me li manda il tuo padrone non li voglio. Ho già i tuoi vestiti.

Lei mi guardò sbalordita.

- Non puoi rifiutarti di accettarli. Lui si offenderebbe - mi disse.

Rimasi a guardare quei vestiti splendidi e ne presi uno tra le mani.

- Che cosa vuole Rachid da me? - chiesi con la voce quasi rotta dal pianto.

Zahîrah mi prese una mano e mi fece girare verso di lei.

- Ascolta - mi disse guardandomi negli occhi. - Forse tu stai equivocando tutto. I tuareg non sono come tu credi. Sono mussulmani, ma hanno le loro vecchie tradizioni ancestrali che resistono nel tempo. La gente del deserto dà tutto per i suoi ospiti, anche al costo di sacrificare sé stessi. Non accettare una loro offerta li offenderebbe profondamente e un'offesa per i tuareg ferisce più della morte. Accetta questi vestiti: essere riconoscente è il minimo che puoi fare per ringraziare Rachid per quello che ha fatto per te.

Con gli occhi trafelati di lacrime risposi: - Io al tuo padrone non chiedo niente. Rivoglio indietro solo la mia libertà.

Rimasi poi in silenzio finché Zahîrah uscì.

Avrei tanto voluto credere alle sue parole, ma non ci riuscivo.

Ero ancora troppo scossa dopo quello che mi era accaduto a Marrakech: l'episodio nel souk, la notizia di mia madre, il rapimento... era successo tutto così in fretta.

Ora mi sentivo prigioniera di un uomo che diceva di volermi dare ospitalità, ma che ancora non mi aveva rivolto una sola parola. Ero all'oscuro delle sue intenzioni su di me e più passava il tempo, più la mia libertà appariva come un miraggio irraggiungibile.

Quando mi decisi a dare un'occhiata a quei vestiti, nonostante tutto, fui felicissima di trovarne uno che aveva decisamente uno stile occidentale. Ammirai il fatto che Rachid aveva scelto per me quel genere, visto che mi sentivo molto a disagio nel portare i lunghi veli degli abiti berberi femminili.

Scelsi subito quell'abito grigio chiaro che avrebbe retto benissimo il confronto con un abito da sera, ma che era nello stesso tempo pratico e funzionale. Era stretto in vita e sui fianchi, ma la gonna di sotto era abbastanza ampia e lunga. Le maniche erano adornate da morbidi volant e la scollatura si apriva su uno jabot di bellissime trine bianche.

Pensai a Rachid: non poteva essere crudele un uomo che aveva un gusto così raffinato.

Mi vennero in mente i suoi occhi, così profondi e neri, da incutere timore e così autoritari e tenaci da non ammettere ritrosie alla sua volontà. Erano gli occhi di chi è sempre stato al comando e che ha sempre preteso stima e rispetto.

Ma erano anche gli occhi più belli che mai avessi visto in tutta la mia giovane vita.

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