IX
Quella mattina mi alzai molto tardi, come tutti coloro che avevano passato l'intera notte a festeggiare.
Dopo che Rachid mi aveva riaccompagnato, avevo preso sonno solo alle prime luci dell'alba.
La sera prima mi aveva concesso di guardare il suo viso: si trattava di una vera e propria concessione. Un tuareg lo faceva raramente e ciò era una dimostrazione di sincera amicizia e di eterna devozione.
Il suo viso mi ricordava qualcuno, ma per quanto cercassi di ricordarmi, non mi veniva in mente.
Rachid quella stessa sera mi aveva chiesto per quale motivo non fossi rimasta al forte, ma io non seppi rispondere nemmeno a me stessa.
Lui era stato chiaro: ero libera di fare quello che volevo, ma nel mio cuore io mi sentivo già schiava di lui.
- Molto spesso passano di qui dei carovanieri – mi aveva detto: avrei solo dovuto aspettare e presto sarei potuta andar via e tornare dai miei parenti che sicuramente mi stavano cercando.
Quel giorno, nonostante mi fossi svegliata piuttosto tardi, Zahîrah non si era ancora fatta vedere. Di solito, anche contro la mia volontà, mi faceva trovare appena sveglia dell'acqua per lavarmi e del cibo per la colazione.
Non volevo che lei, che aveva già troppe cose da fare, dovesse pensare anche a me, così decisi di anticiparla prendendo una brocca e andando a riempirla al pozzo da sola.
Quasi tutti dormivano ancora, ma all'improvviso sentii il pianto di un bambino venirmi incontro.
Quando mi voltai riconobbi la piccola che il giorno prima avevo visto prendere in braccio da Rachid. Come avevo fatto a dimenticarmi di lei? Avevo già dimenticato che Rachid aveva la sua famiglia?
La sera prima era stata così bella.
La piccina veniva proprio verso di me, mettendo velocemente un piedino di fronte all'altro, in modo da rendere instabile la sua piccola figura. Aveva sì e no un anno e mezzo e quello che mi colpì, fu che mentre piangeva, chiamava la sua mamma, ma la chiamava in francese.
- Maman! Maman! – singhiozzava.
Mi si attaccò alle gambe con tutta la forza che aveva.
Mi inginocchiai e la presi tra le mie braccia: era una bambina bellissima con lunghi riccioli castani e aveva gli stessi occhi neri di Rachid.
Mi guardò con stupore per qualche istante e poi ricominciò a piangere.
Cercai di calmarla finché vidi arrivare Rachid.
Senza neanche rivolgermi la parola, mi prese la piccola dalle braccia e le sussurrò delle dolci parole nell'orecchio per farla calmare.
Rimasi a guardare quel piccolo quadretto familiare, sentendomi giustamente esclusa, ma Rachid, dopo che la bimba smise di piangere, mi guardò con occhi dolcissimi ancora pieni dell'amore che provava per l'esserino che stringeva al petto.
Quando si accorse del mio stato d'animo, mi guardò in uno strano modo. Sicuramente aveva percepito quello che provavo: era talmente difficile fingere.
Si avvicinò.
- Si chiama Amìnah – mi disse.
La piccola mi guardava con molta tenerezza e mi tese le sue braccine come a voler essere presa in braccio da me.
Rachid me la dette e lei mi sorrise. Era così bella che non potetti fare a meno di contraccambiarla. Era un tesoro!
In quel momento vidi arrivare da lontano degli uomini a cavallo.
Uno di loro venne verso di noi e si fermò a pochi metri.
Portava il velo, ma con un gesto quasi provocatorio se lo tolse mostrando il suo volto.
Rachid disse a una donna di portar subito via Amìnah e poi andò verso quell'uomo non notando la mia sorpresa.
Non riuscivo a credere ai miei occhi, eppure quell'individuo lo conoscevo.
Seguii la donna e Amìnah, fin quando Zahîrah venne a prendersi la bambina e ne approfittai per chiederle chi fosse quel giovane appena arrivato.
Sapevo già come si chiamava, ma Zahîrah mi disse di più: - È Sahid, il fratello minore di Rachid!
Dunque, non mi sbagliavo: era proprio Sahid, il ragazzo che avevo incontrato nel souk a Marrakech!
"Di certo il mondo è proprio piccolo" pensai.
Mi aveva sicuramente riconosciuta, ma era rimasto impassibile.
Lui e Rachid quindi erano fratelli. Adesso ricordavo a chi assomigliava il viso di Rachid: Sahid aveva gli stessi occhi neri del fratello e la sua stessa espressione fiera e orgogliosa.
I due si salutarono, ma notai che Rachid non mostrò il calore con cui di solito si accoglie un fratello, anzi mi sembrò piuttosto freddo o addirittura contrariato.
Quando si voltarono verso di me, io mi ero già allontanata.
Per tutto il giorno non vidi né l'uno né l'altro, ma in compenso rimasi molto vicina ad Amìnah per un po' di tempo. Riuscii a capire che la donna che si occupava di lei non era sua madre, pur tuttavia non avevo il coraggio di chiedere di chi fosse figlia. E se fosse figlia di Sahid?
Amìnah, infatti, assomigliava sia a Rachid che a Sahid.
Mi venne in mente anche lo strano fatto che Sahid avesse un insolito accento francese e che anche la bambina aveva pronunciato delle parole in lingua francese.
Non sapevo che cosa pensare, ma di certo tutto mi sembrava molto strano.
Per il resto del giorno rimasi sola per molto tempo, ma per non annoiarmi cercai di osservare la gente che viveva in quel piccolo villaggio accanto all'oasi. Anche se per loro ero un'ospite, volevo cercare di conoscere le loro abitudini e integrarmi il più possibile.
Ero affascinata dal loro modo di vivere.
Zahîrah aveva parecchi compiti da svolgere: non dovevo dimenticare che era pur sempre una schiava.
All'inizio ero rimasta inorridita nel sapere che quel popolo avesse quei costumi ancora così barbari, ma col passare del tempo mi accorsi che gli schiavi non erano trattati con malvagità.
Sì, a ogni modo forse era ingiusto fare distinzioni di nascita, ma nel vedere come si comportava un nobile tuareg col suo schiavo, non potevo fare a meno di confrontare la loro società con la nostra.
Uno schiavo akli era fedele e servile col suo nobile padrone per tutta la vita, ma in cambio il suo padrone condivideva con lui tutto ciò che possedeva.
Un nobile amahar, ovvero libero, era padrone della vita di chi stava sotto di lui, ma ne era anche responsabile e doveva difenderlo anche a costo di perdere la propria vita.
Una strana contraddizione.
Nella società occidentale la schiavitù ormai non esiste più, ma di fatto ci sono persone che sono sotto il dominio degli altri.
La nostra è una società ipocrita ormai schiava del potere di chi cerca di prevaricare gli altri senza rispetto della dignità umana e a discapito dei più deboli e dei più indifesi.
Chi è più schiavo tra un servo di un uomo del deserto o un bambino costretto per pochi dollari a lavorare in nero nelle fabbriche newyorchesi?
L'America che tanto parla di libertà, forse non ha mai capito il significato di essere veramente liberi.
La vera libertà non è da ricollegarsi allo stato sociale o all'indipendenza.
Essere veramente liberi è solo una sensazione del cuore che esalta lo spirito e lo rende puro.
Forse la libertà non è un valore terreno e quasi certamente da nessuna parte si può trovare un uomo completamente libero.
Forse solo i tuareg, o per meglio dire in lingua tamasheq, gli imoûhar, che appunto vuol dire "uomini liberi", lo sono veramente.
Altro non possono essere gli uomini blu, in una terra senza confini dove le sabbie del deserto regnano sulla vita e la morte in un misterioso equilibrio naturale.
Quando scese la sera, feci una passeggiata notturna come ero solita fare.
Non vedevo Rachid da quella mattina: il ricordo della sera prima era ancora vivo in me e forse senza neanche rendermene conto, speravo di poter rivedere il suo volto al più presto.
L'avevo visto una sola volta e alla luce fioca di un piccolo fuoco di tamerici, ma era rimasto impresso nella mia mente e soprattutto nel mio cuore.
Mi fermai sotto una palma, cercando di capire dove mi trovavo: non volevo rischiare di perdermi un'altra volta, anche se avevo evitato di gironzolare tra le dune fuori dall'oasi, che facevano parte del paesaggio più suggestivo che avessi mai visto.
All'improvviso sentii delle voci provenire dall'interno del palmeto avvolto nella più completa oscurità.
Ebbi un po' paura, ma dopo aver ascoltato attentamente, mi parve di riconoscere quelle voci, anche se in realtà erano più che altro grida di qualcuno che litigava. Incuriosita mi addentrai nel buio fino a quando potetti vedere, senza essere notata, la fonte di quelle voci concitate: erano di Rachid e di Sahid.
Mi nascosi, ma non riuscii a capire nulla delle loro parole, poiché parlavano nella loro lingua. Riuscii solo a guardare gli occhi di Rachid: non li avevo mai visti sprigionare tanta durezza, nemmeno quando rimproverava i suoi uomini. Perché parlava in quel modo proprio con suo fratello?
Avrei voluto tanto saperlo, al punto che da quella sera pensai spesso a quell'episodio, ma non mi era mai passato nemmeno per un attimo nella mente che stessero litigando proprio per me... ma questo lo scoprii solo molto più tardi.
Restai immobile per tutto il tempo dietro il tronco di una grossa palma.
Sahid a un certo punto perse le staffe e cercò di colpire suo fratello, ma Rachid lo fermò con forza immobilizzandogli le braccia.
Rimasero entrambi fermi senza neanche pronunciare una sola parola, finché Sahid si liberò con uno strattone, guardò per l'ultima volta Rachid negli occhi come a volergli lanciare una sfida e poi si volse per andarsene.
Ringraziai il cielo che quella lite fosse finita e rimasi a guardare Rachid che era rimasto fermo dov'era, immobile nella notte, come ad ascoltare i rumori che lo circondavano.
Temetti che mi avesse sentita e quando si diresse fuori dal palmeto passando proprio dinanzi a me, trattenni il fiato per paura che venisse proprio verso di me.
Quando mi oltrepassò, emisi un sospiro di sollievo e aspettai ancora qualche minuto per accertarmi che intorno a me non ci fosse più nessuno, poi uscii dal mio nascondiglio.
Avevo creduto troppo presto che Rachid se ne fosse andato e soprattutto che non mi avesse vista.
Di colpo me li ritrovai davanti.
Dallo spavento indietreggiai come una bambina che viene scoperta a rubare un biscotto dalla credenza.
Rachid in quel momento era davvero furioso.
I suoi occhi lanciavano ancora lampi d'ira come quelli che avevo visto rivolgere a suo fratello ed erano freddi, temibili, come la luna che rispecchiavano.
Mi attirò a sé prendendomi i polsi. Sentivo tutta la sua forza nelle sue mani, ma ciò che mi spaventò di più oltre alla sua forza fisica, fu che aveva ancora negli occhi la rabbia che gli avevo visto rivolgere a suo fratello e ora la stava rivolgendo a me.
In quel momento non potevo sapere che io ero la causa di tutto, così pensai che quelle sue maniere brusche facessero parte del suo carattere.
Dopotutto era come un re per quei tuareg, nonostante fosse molto giovane.
Pensavo che questo suo atteggiamento, che gli avevo visto usare più volte, fosse solo una corazza che usava per essere trattato con deferenza da tutti, ma in quel momento era davvero un uomo che non ammetteva indulgenze.
- Che ci fai qui? Perché non sei già a dormire come tutte le altre donne? – quasi mi gridò.
Pur ammettendo di avere un carattere ribelle e una particolare inclinazione ad andarmi a mettere in situazioni di pericolo, il suo tono mi indispettì.
Se fosse stato qualcun altro a rivolgermi la parola in quel modo, non ci avrei pensato due volte a ribattere. Gli avrei subito rinfacciato che egli stesso mi aveva detto che ero libera, mentre ora pretendeva di dirmi quello che dovevo fare, ma dalle mie labbra non uscì una sola parola.
Al contrario, nonostante cercassi con tutte le mie forze di non piangere, sentii dalle mie labbra uscire un gemito e subito dopo non riuscii più a impedirmi di singhiozzare.
Non appena Rachid lo notò, mi strinse a sé ancora con più forza, ma questa volta inaspettatamente lo fece abbracciandomi, come a volermi proteggere da se stesso.
Mi sentii avvolgere dal calore del suo corpo e lo guardai con sorpresa: i nostri visi erano vicinissimi.
Vidi i suoi occhi chiudersi come in un gesto di abbandono. Alzai una mano sul suo volto che era velato: avrei voluto ancora una volta vederlo, ma arrivata all'altezza della sua guancia, lui riaprì gli occhi e le mie dita indugiarono.
Stavo per ritirare la mia mano quando lui la prese nella sua e l'appoggiò sul suo viso aiutandomi a scoprirglielo. Il suo sguardo non era più duro, ma al contrario privo di ogni difesa. I suoi occhi brillavano di una strana luce e lasciavano finalmente trapelare da sotto la sua audacia apparente, un uomo sì valoroso, ma capace di un animo sensibile e non spietato e inesorabile come ogni solitario uomo del deserto voleva far credere.
Come era possibile che il suo stato d'animo cambiasse sempre così repentinamente? Non riuscivo proprio a capire i suoi pensieri.
- Perdonami – mi disse con un filo di voce, mentre prendeva di nuovo i miei polsi tra le mani, ma questa volta per massaggiarmeli e per baciarli.
Non opposi resistenza, ma solo perché ero ancora confusa, ma quando Rachid si accorse che stavo tremando, mi allontanò così velocemente da farmi vacillare all'indietro.
- Forse sono impazzito – disse, cercando in tutti i modi di riacquistare tutto il suo sangue freddo. In pochi istanti ritornò a essere quello di sempre ed io dubitai che avesse mai avuto quell'attimo di debolezza.
Non riuscivo a credere che, anche se per un breve momento, mi aveva tenuta stretta tra le sue braccia e che, per la prima volta nella mia vita, avevo sentito il mio cuore vibrare d'amore per qualcuno, per lui.
Tutto il mio corpo aveva iniziato a tremare, ma non per il freddo, ma per la paura che lui potesse capire quello che stavo provando.
Lui invece si era scostato, giudicando pazzo e vergognoso quel suo gesto di tenerezza, quasi come se si fosse pentito di avermi dimostrato passione o trasporto.
Forse un uomo come lui che provava dei sentimenti, sarebbe stato considerato vile e miserabile?
Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime e corsi via.
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