II

«A mia madre
Mylène Legros
mai conosciuta»

Shirley leggeva e rileggeva quelle poche parole, poi si fece coraggio e girando la pagina incominciò a rileggere con fatica quei fogli che aveva scritto qualche anno prima.


Un regno di fate morgane che quasi contrasta con la realtà,
dove le anime non sono capaci di discernere;
una visione che agli occhi dei mortali pare un sogno vano,
intimo scarmiglio dell'auge di una meta,
culmine del tempo e dello spazio.

Eppure il più docile dei versanti della terra
e la più acquiescente delle pendici,
dove un alito di vita soffia fino all'inverosimile:
questo è il deserto, il regno del grande nulla infinito,
che domina i confini estremi del mondo.

Anonimo


***

Shirley


Inverno 1952


Non ricordo dove lessi questa poesia, ma una cosa è certa: dopo che la lessi, non seppi più dimenticarmene e da allora accompagna sempre la mia memoria, soprattutto dopo aver vissuto una piccola parte della mia vita nel deserto, questo affascinante e irresistibile nulla infinito solo nelle apparenze, ma in realtà forse un altro pianeta, dove la vita assume le forme più svariate e che quando sembra un implacabile assassino, alla fine ti regala la salvezza.

La mia è una storia triste, in cui la morte e il dolore hanno lasciato inciso nel mio cuore un segno indelebile, che mai si potrà cancellare, ma anche le storie tristi in fondo, nascondono qualche felicità che consola fino alla fine e libera da quei momenti in cui ti sembra di impazzire dietro una chimera irraggiungibile.

Tutto è successo nell'estate del 1951 e se con la mente ripercorro le vie sinuose della mia memoria fino a giungere ai giorni in cui tutto ebbe inizio, non posso fare a meno di sentire dentro di me una mistura di passioni e di rimpianti che mi legano a quel tempo. Sembra che siano passati mille anni, eppure sono passati solo pochissimi mesi da quando la mia vita era spensierata e piena di gioia e nel cuore avevo solo i postumi di un'adolescenza felice.

Mi sembra di rivivere proprio adesso quei momenti...

Ero giunta attraverso l'oceano in un paese in cui non ero mai stata e di cui sapevo molto poco, a parte quello che avevo letto sui libri. Non ero mai stata fuori dallo stato di New York, infatti, ma non appena avevo messo piede sull'affollata banchina di Casablanca, avevo sentito per quel posto un'attrazione inspiegabile, qualcosa di meraviglioso che mi faceva pensare ai ricordi della mia fanciullezza, come se quel luogo facesse già parte di me, prima ancora di arrivarci. Eppure, Jeffrey Dowland, mio padre, aveva trascorso i suoi primi anni di vita e quasi tutte le estati dei suoi anni di studio in Marocco, prima di trasferirsi definitivamente, appena sposato, nella grande metropoli di New York. Non mi aveva mai parlato del paese in cui aveva trascorso l'infanzia, l'adolescenza e la sua giovinezza, come se l'avesse sepolto in un angolo segreto del suo cuore e ci avesse messo sopra una grossa pietra.

In Marocco vivono tuttora i miei nonni paterni che in quel periodo avevano espresso il desiderio di conoscermi: mi avevano visto un'unica volta quando avevo solo sette anni. Strano però che non lo avessero fatto prima di allora, comunque non appena diplomata, fui invitata a trascorrere un breve periodo nella loro residenza di Rabat, dove mio nonno era console all'ambasciata americana.

Quando scesi dalla passerella della nave, cercai di riconoscere tra la gente i volti quasi sconosciuti dei miei nonni, ma rimasi molto delusa quando capii che al porto erano venuti a prendermi solo un autista e un'anziana e distinta signora dalle maniere forti e gentili nello stesso tempo, che aveva tutta l'aria di essere una governante. La cosa m'infastidì non poco, visto che a giorni avrei compiuto diciotto anni. Probabilmente, pensai, i miei nonni credevano che fossi ancora quella bambina paffuta e piena di lentiggini che avevano conosciuto dieci anni prima.

Miss Burnert, così si chiamava la donna che probabilmente aveva sangue misto nelle vene, era invece una signora estremamente dolce, che durante il tragitto in macchina fino a Rabat, non aveva fatto altro che descrivermi l'infanzia di mio padre e delle mie zie, che aveva visto nascere e aveva allevato ed educato con grande affetto. Anche lo chauffeur di famiglia, dall'aspetto apparentemente scontroso, in realtà era solo un po' impacciato per natura e infatti, non disse più di due o tre parole per tutto il tempo.

Durante il viaggio, mi guardai intorno dal finestrino intenta a carpire quanto più potevo da quei posti meravigliosi e immedesimarmi completamente con quei luoghi che istantaneamente mi avevano incantato. La città era affollata di turisti stranieri, di cittadini coloni, ma coloro che mi avevano di più affascinato erano gli uomini dalla pelle olivastra con il capo avvolto da strani turbanti e le donne con vestiti e veli, che mi facevano pensare a mondi così lontani, ad antichi splendori, a glorie del passato.

Tutto ciò però era la realtà, così irreale e misteriosa, ma era la realtà... una realtà che sempre più mi ammaliava quanto più era irraggiungibile.

Quando arrivammo, rimasi impressionata dalla bellezza e dall'enormità della casa, ma soprattutto dallo stile coloniale che aveva subito un po' l'influenza arabica della regione. I giardini erano di una bellezza incomparabile: dappertutto una mestica di colori impressionava gli occhi di mille luci cangianti e variopinte, in modo da sembrare una tela irreale dipinta da mani di fantasmi. Il bianco delle gardenie, il rosa degli oleandri, il violetto delle mammole, il giallo delle giunchiglie e il cremisi delle buganvillee rendevano quella mistura di un odore piacevole e intenso, che interrompeva qua e là il verde del caprifoglio e dell'edera rampicante che ricopriva ovunque la cancellata e parte delle mura della casa.

L'auto si fermò davanti all'enorme portone lastricato, al centro di un'esedra tra la casa e una fontana, che spruzzava una miriade di zampilli d'acqua in tutte le direzioni. Mi sentivo felice in mezzo a quelle semplici meraviglie e quando entrai nell'atrio della casa, ero così emozionata, che morivo dall'impazienza di rivedere i miei nonni.

My granny arrivò quasi subito ad accogliermi: era ancora come la ricordavo, con i capelli raccolti dietro la nuca e gli occhi azzurri come quelli di mio padre e come i miei. Il volto sereno e disteso non tradiva nessuna emozione, ma le mani tremavano per un turbamento che non seppi definire.

- My darling, come sei cresciuta! - furono le parole che mia nonna pronunciò stringendomi forte le mani e guardandomi dalla testa in giù. Erano le esclamazioni che mi aspettavo.

- Oh, Shirley! Sei una donna ormai e sei identica a com'era tua madre - continuò, ma quando vide sul mio viso un'espressione di sorpresa, si fermò un attimo. Quest'osservazione, infatti, non me l'aspettavo perché ero perfettamente conscia che io e mia madre eravamo completamente differenti.

- Sì, tu non hai visto tua madre quando era giovane. Alla tua età era bella proprio come te! - riprese a dirmi la nonna. Io annuii sorridendo al complimento che mi aveva appena fatto e non mi accorsi del nervosismo che trapelava dalla sua voce, come se si fosse accorta che qualcosa che non avrebbe dovuto dire le fosse sfuggito.

Nei primi giorni del mio soggiorno a Rabat quasi non badai al comportamento strano che tutti avevano nei miei confronti, persino mio nonno. Forse mi ero lasciata trarre in inganno dal posto e dalle persone nuove che mi circondavano: io stessa mi sentivo un po' disorientata.

La sera del mio arrivo, Miss Burnert, dopo aver congedato una cameriera, stava disponendo i miei ultimi bagagli nella mia stanza, che una volta era appartenuta a una delle sorelle di mio padre. Le chiesi per caso se lei avesse mai conosciuto mia madre, ma non mi sarei mai aspettata da una domanda così naturale come la mia, una risposta talmente confusa e conturbata. Miss Burnert, infatti, era rimasta così inebetita da lasciar cadere per terra ciò che aveva in mano.

Io allora, nonostante tutto, non ci feci molto caso.

- Perché me lo chiede? - rispose Miss Burnert dopo aver raccolto da terra uno dei miei vestiti.

- Vede, mia nonna sostiene che io e mia madre siamo molto simili, ma io non ho mai notato questa somiglianza. Anzi siamo molto diverse: lei aveva i capelli e gli occhi scuri. Non è strano?

- Non saprei. Io non ricordo molto bene sua madre, Miss Dowland. Lei e suo padre si sono sposati così in fretta e sono partiti quasi subito per l'America, che non ho avuto modo di frequentarla per molto tempo - rispose dopo aver riacquistato un po' di calma.

- È da molti anni che è qui, non è vero? - le chiesi.

Lei mi rispose con un po' d'emozione che aveva passato quasi una vita in quella casa.

- Avevo poco più di vent'anni quando è nato il secondogenito di questa famiglia, Jeffrey, suo padre. Sua zia Margaret aveva già quattro anni e poi sono arrivate Annabel ed Emily. Li considero un po' come figli miei e ora mi sembra così strano vedere per casa i loro stessi figli.

Conoscevo molto poco i miei cugini, anzi direi quasi per niente. Anche se quasi tutti studiavano in college americani, tutte le estati tornavano nel paese che per loro era più di una seconda patria, il Marocco.

Erano tutti molto affiatati, mentre io mi sentivo totalmente estranea a tutta la famiglia. Loro si conoscevano da anni ormai, avevano condiviso giochi e divertimenti insieme, mentre io ero la loro cugina che non aveva mai trascorso un'estate con loro e che non era mai appartenuta ai loro discorsi e ai loro pensieri. Mi sentivo molto sola in quei giorni e piano piano iniziai ad accorgermi dello strano comportamento che tutti mi riserbavano, soprattutto da parte dei miei nonni, che dopo il mio arrivo, iniziarono a trattarmi sempre più freddamente, a parte nei primi giorni in cui mi avevano accolto.

Ogni giorno che passava diventavo sempre più triste, anche perché il paradiso terrestre che avevo intorno contribuiva a darmi la consapevolezza che con me non c'era nessuno con cui potessi condividere le meraviglie estasianti che mi circondavano.

Se solo ci fosse stato mio padre. Mi mancava terribilmente, così iniziai a scrivergli delle lettere in cui gli confidavo tutto quello che provavo, ma a una settimana dal mio arrivo, successe un episodio che mi mandò su tutte le furie e mi buttò giù, più di quanto mi fossi intristita nei giorni precedenti. Ci sarebbe stato un ricevimento in casa dei miei nonni, uno di quei ricevimenti ufficiali a cui partecipano tutti i membri più in vista della società: ambasciatori, consoli, ministri e molti altri. Alla fine della serata mi sentivo però talmente giù di morale per quello che era successo che scrissi con le lacrime agli occhi un'altra lettera a mio padre in cui gli scrivevo tutto il mio sconforto.

"Dear daddy,

sono davvero tristissima questa sera.

Come ti ho scritto già diverse volte, in questa casa nessuno mi considera un membro della famiglia.

Quando mi proponesti di fare questo viaggio, mi riempisti il cuore di gioia, perché era da tempo che volevo conoscere i miei nonni e i luoghi in cui hai passato la tua fanciullezza.

Ma vedi, caro papà, tutti i miei entusiasmi ora sono spenti.

Tu sai che ho sempre avuto uno spirito ribelle, ma ricordo che tu, fin da quando ero piccola, mi hai sempre favorito nonostante la tua abitudine a dare ordini e punizioni.

Fin da quando ho iniziato a capire, ho sempre apprezzato tutti gli sforzi che hai fatto per non portare le tue abitudini militari in famiglia. Forse è per questo che non sono abituata per niente a ubbidire, anzi sono sempre stata la tua monella preferita, anche quando la mamma si arrabbiava con me, ma qui che non ci sei tu, mi sento un uccellino chiuso in una gabbia dorata.

Nonna mi tratta con freddezza e proprio non riesco a spiegarmi perché sia tanto rigida con me, quando non lo è con le figlie di zia Margaret. Proprio non la capisco.

Oggi a casa, infatti, c'era un gran ricevimento, ma lei mi ha impedito di parteciparvi trovando la scusa più assurda che esistesse al mondo. Mi ha detto che ero ancora troppo giovane per partecipare alla vita mondana. Ma ti rendi conto che ho quasi diciotto anni?

Quando le ho detto che già da tempo tu mi portavi con te ai balli degli ufficiali, lei allora ha inventato un'altra scusa. Voleva farmi credere che il servizio di sicurezza dell'ambasciata non fosse al completo e che fosse pericoloso per me partecipare al ricevimento senza un'adeguata guardia del corpo. Se la nonna credeva di spaventarmi, non ci è riuscita per niente. Perché mai proprio io avrei bisogno di una guardia del corpo? Non sono mica un diplomatico o un membro di stato?

Sono già convinta che tu, che mi conosci fin troppo bene, hai già immaginato che cosa abbia combinato. Nonostante gli ordini di sua maestà nonna, io questa sera ho infilato il mio più bel vestito (ricordi quello che misi al ballo che si tenne sulla nave scuola?) e sono piombata nel bel mezzo della festa. Mi sentivo come Cenerentola al ballo. C'erano tante persone importanti con le loro mogli con abiti favolosi; era tutto così bello fino a quando nonna non si è accorta di me. Mi è venuta incontro con lo sguardo più minaccioso che le avessi mai visto. Giuro che mi ha fatto quasi paura. Credo che non mi abbia fatto una scenata solo per la gente che era presente, ma mi ha rivolto una frase che ancora non riesco a mandare giù.

Mi ha detto: 'Sei proprio figlia di tua madre!'.

Da allora quella frase mi rimbomba nelle orecchie, perché proprio non riesco a capire. Sembra che tutti mi nascondano qualcosa e ogni volta che si nomina la mamma, mi sembrano tutti in imbarazzo. Spero che almeno tu sappia spiegarmi quale mistero non vogliano dirmi. Se la mamma ha fatto qualcosa nel suo passato, voglio che tu me lo spieghi. Ormai sono grande papà, posso capire.

Forse i nonni non volevano che tu la sposassi? In questo caso forse è per questo che mi trattano come un'estranea.

Papà, ti prego, spiegami come stanno davvero le cose.

Inoltre, questa sera, mentre la nonna mi ordinava di ritornare di sopra, si è avvicinata una donna di mezza età che aveva l'aria di avere la lingua molto lunga. Ha chiesto alla nonna se fossi la sua 'famosa nipotina che teneva nascosta' e lei mi è parsa molto in imbarazzo, quasi come se si vergognasse di me. Era forse per questo che non voleva che partecipassi alla festa? Per non presentarmi alla gente di cui, per qualche strana ragione, aveva paura delle malelingue. Quali malelingue? Papà, spiegami tutto almeno tu, per favore.

Ti abbraccio,

tua M. Shirley"

Quando posai la penna mi accasciai sul letto e all'improvviso sentii un'ansia struggente invadermi dai polmoni fin dentro l'anima, finché dalla smania irruppi in un pianto stravolto di lacrime. Ero sempre più certa che la spiegazione di tutto fosse mia madre, ma non riuscivo a credere che la donna che credevo essere la più buona e la più gentile avesse commesso qualcosa che l'avesse messa in cattiva luce con la famiglia di mio padre.

Poi però, al suono della musica che ancora suonava al piano di sotto e tra le risate e le voci che echeggiavano in giardino, il trepidare della mia anima si calmò e mi addormentai senza più pensare al bel ricevimento che si teneva nella sala delle feste, alle luci che riempivano il salone, agli strascichi delle signore che volteggiavano al suono di un valzer, ai fiori che ornavano la casa e che riempivano l'aria di essenze come in un bel sogno. Tutto mi girava per la testa confusamente ed io sognai di volteggiare tra i fiori con un vestito di veli candido come una nuvola. Poi all'improvviso proprio come accade nei sogni, mi ritrovavo nella sala di un palazzo da Mille e Una Notte, con le pareti rivestite da tende di seta orlate di pietre preziose, con le colonne di marmo e gli archi di maioliche fregiate da arabeschi dai mille colori. In fondo alla sala, seduto su un trono, un uomo vestito di oro mi guardava con i suoi bellissimi occhi neri.

Io continuavo a danzare, avvicinandomi sempre di più a lui, attratta da una forza irresistibile e dal mistero dei suoi occhi incantatori. Quando finalmente arrivavo a prostrarmi ai suoi piedi, lui mi tendeva una mano che invano io cercavo di afferrare, perché adesso un'altra forza, non meno potente di quella di prima, mi scagliava indietro e mi trascinava via lontano verso la tela di un grosso ragno nero in cui rimanevo impigliata. L'enorme mostro molto lentamente si avvicinava da lontano, all'inizio delle dimensioni di una piccola macchia all'orizzonte, poi sempre più vicino fino a mostrarmi le sue fauci affamate, mentre io più mi dimenavo, più m'imprigionavo tra i fili sottili della morte. Insieme a me, nella rete, altre vittime gridavano e si straziavano fino a ché i loro corpi ricoperti di sangue cessavano di muoversi ancora prima che il ragno si fosse avvicinato. Poi mentre la belva si avvicinava a me, assalita dal terrore e incapace di muovere le braccia per liberarmi, l'uomo vestito d'oro che avevo visto sul trono veniva a liberarmi e mi portava via in braccio verso la salvezza.

- Shirley! Shirley! - sentivo una voce gridare da lontano.

- Svegliati! - diceva.

Allora aprii gli occhi e con il cuore ancora in tumulto, mi accorsi che avevo sognato e che davanti a me c'era mia zia Emily.

Non era la prima volta che facevo quel sogno. Mi perseguitava ogni qual volta avessi nell'animo qualche turbamento, come a volermi lanciare qualche segno premonitore del destino, che io però non avevo mai saputo interpretare.

Mia zia mi aveva sentito urlare ed era accorsa nella mia stanza per vedere che cosa mi fosse successo. Zia Emily era l'unica della famiglia che mi mostrava un po' di simpatia, forse perché era la più giovane dei quattro fratelli Dowland: Margaret, Jeffrey, Annabel ed Emily appunto; o forse perché era la più affezionata a mio padre, anche se aveva solo quindici anni quando lui si sposò e andò via per sempre dal Nordafrica. Pensandoci bene, zia Emily era una donna libera e ribelle che aveva sempre fatto tutto di testa sua, anche perché qualche anno prima si era sposata, contro la volontà dei nonni, con un giovane funzionario marocchino ed era andata a vivere con lui a Marrakech.

Ricordo che quando mio padre mi rimproverava, mi diceva che ero peggio di sua sorella Emily e oggi capisco da chi abbia ereditato il mio temperamento indisponente. Nonostante tutto, mio padre non aveva mai cercato di ostacolarmi e, anche se era un ufficiale abituato a dare ordini, io ero cresciuta in una casa in cui la disciplina militare era rimasta fuori dalla porta.

Conoscendo la storia dei miei genitori, capisco perché zia Emily avesse tanta simpatia per me, inconsapevole vittima degli imbrogli dei genitori di mio padre. Allora però non potevo immaginare minimamente quali fossero i motivi che avevano spinto mio padre, diciassette anni prima, a lasciare in maniera così brusca e repentina, il paese che tanto amava e che anch'io dopo averlo conosciuto, non riesco più a dimenticare.

Zia Emily mi disse con dolcezza che l'incubo era cessato e mi abbracciò con tenerezza mentre iniziavo a singhiozzare.

Le confidai le mie paure e come mi sentivo da quando, otto giorni prima, ero arrivata in Marocco, ma lei riuscì a tranquillizzarmi e a togliermi dalla mente tutte le sciocche supposizioni che la sera prima avevo fatto. Mi disse che il cambiamento di ambiente mi aveva un po' condizionata e che per distrarmi mi avrebbe fatto bene viaggiare un po'. Fu così che, dopo aver convinto non proprio facilmente i miei nonni, zia Emily mi invitò a trascorrere una vacanza con lei in giro per i suggestivi paesaggi del Marocco ed io accettai entusiasta, perché dopo aver passato una settimana chiusa tra le mura di casa dei miei nonni, incominciavo a desiderare ardentemente di scappare via.

Zia Emily non aveva ancora figli e dopo due giorni partimmo io, lei e suo marito Ahmed.

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