2. Le mille e una notte
Il problema di desiderare qualcosa con tutta l'anima, notte e giorno, per settimane, mesi e anni, è che, quando arriva lo scontro con la realtà e tutto va a puttane, la mente non si arrende.
È inevitabile. Non importa quanto ci si sforzi di essere pratici e razionali: non siamo fatti per rassegnarci alla fine di un sogno.
Per questo adesso corro a perdifiato sulla pietra chiara dei tetti di Ys, al ritmo del battito selvaggio del mio cuore. La polvere scricchiola sotto la suola degli stivali, si solleva in nuvolette d'argento.
"Da quella parte!" grida qualcuno delle guardie. Riconosco la voce dell'uomo dal volto sfregiato.
Raggiungo il bordo del tetto su cui mi trovo, l'accelerazione per poco non mi fa perdere l'equilibrio. Agito le braccia per non cadere, poi piego le ginocchia e mi lascio scivolare giù lungo la facciata per un paio di metri fino a un cornicione. Giusto in tempo per evitare un lampo luminoso che saetta dove una manciata di secondi fa si trovava la mia testa.
Che accidenti era? Un incantesimo?
Sta succedendo tutto a una velocità che oserei definire irriverente. Cinque minuti fa credevo di aver raggiunto un rifugio sicuro insieme a Leanna. Invece adesso la mia compagna è in arresto e io per scappare mi sono arrampicata sui tetti come uno stramaledetto gatto.
Scommetto che non ce li hanno nemmeno, i gatti, qui.
Valuto in fretta le distanze. Dal cornicione a terra saranno sei metri almeno. La casa dirimpetto, invece, è più vicina, separata da me da solo da una viuzza sottile. C'è un balconcino che sporge dal primo piano e fa al caso mio. Se non mi tremassero così tanto le gambe sarei sicura di potercela fare.
I passi delle guardie sono sempre più vicini.
Deglutisco e mi decido. Spicco un balzo, ma la paura e la stanchezza mi giocano un brutto tiro e la spinta che mi do non è sufficiente. Sfioro il marmo del davanzale con la punta delle dita sudate, mi aggrappo al bordo un attimo prima di precipitare sulla strada. Non è abbastanza per darmi l'appoggio per risalire, ma almeno, quando cado, non mi tocca niente di più grave di una storta alla caviglia sinistra.
Trattengo un'imprecazione tra i denti. Non ho il tempo per fermarmi. Zoppicando, ricomincio a correre, o almeno a tentare di farlo. M'infilo in un vicolo, una strada come un'altra nel labirinto infernale di questa città. Sul collo sento il fiato dei miei cacciatori.
Non riuscirò mai ad andare lontano. Con uno sforzo di volontà ignoro il dolore alla caviglia e scavalco il muretto basso che protegge un cortile. Ricado pesantemente sull'erba bassa e mi rannicchio al riparo di un cespuglio, la faccia schiacciata contro il terriccio umido. Deve essere un cespuglio di rose, a giudicare dalle piccole spine che mi si conficcano nella carne.
Mi mordo un labbro e trattengo il respiro, in ascolto.
I passi delle guardie che mi inseguivano si perdono in lontananza. Non mi hanno vista scavalcare il muro.
Lascio trascorrere un intero minuto nel silenzio sempre più fondo. L'unico rumore che avverto è il tamburo del mio cuore. Respiro profumo di radici e fiori addormentati e cerco di fare i conti con il fallimento di tutti i miei desideri.
È finita prima ancora di cominciare, eppure non ce la faccio ad arrendermi.
Mi raddrizzo tentando di non pesare sulla caviglia slogata e zoppico fuori dal mio nascondiglio improvvisato. Torno nella strada, che ora dorme pacifica, come se nulla fosse accaduto, e scelgo a caso la direzione da prendere.
Senza più nessuno da cui fuggire, l'inutilità del mio vagare mi si schianta addosso. Leanna è stata presa e verrà espulsa per l'ennesima volta. Il nostro contatto di riferimento è bruciato e non so a chi altri potrei rivolgermi. Non ho alcun potere e il mio aspetto non potrebbe mai essere confuso neanche per sbaglio con quello dei diafani abitanti della città sottomarina, con la loro pelle così chiara da sembrare trasparente. La verità è che essere scampata alle guardie non mi ha portata di un passo più vicina alla salvezza; ha solo rimandato di qualche ora il momento in cui verrò rispedita a calci attraverso il portale che collega Ys alla superficie.
"È stato tutto inutile" ammetto alle ombre che mi circondano.
"Forse sì, se continui per di là. Se stai cercando il modo di finire tra le braccia delle guardie, quella è la direzione giusta."
Di certo non mi aspettavo che le ombre rispondessero parlando francese con l'insopportabile accento cadenzato degli abitanti di Ys.
L'istinto mi spinge a cercare i miei coltelli da lancio alla cintura, e così perdo un istante prezioso quando non li trovo e resto smarrita. Certo, ho dovuto lasciarli prima di entrare al campo profughi. Con uno scatto mi volto in modo da avere le spalle coperte dal muro della casa più vicina e fronteggio lo sconosciuto che ha parlato.
Come se non bastasse questo buio cui non riesco ad abituarmi, il giovane davanti a me ha il viso ombreggiato dal cappuccio della mantella e i suoi lineamenti sono illeggibili. I polsi venati d'azzurro che emergono dai ricami delle maniche sono bianchi come la luna, come il latte appena munto. Dal timbro della sua voce, dal corpo grande e scattante gli darei la mia età, forse qualche anno meno.
Non sembra una minaccia, ma con questa gente cui basta parlare per creare dal nulla fuoco e fiamme non si può mai dire.
"Sei della guardia?" taglio corto. Non ho voglia di perdere altro tempo e avere qualcun altro da cui fuggire potrebbe darmi uno scopo per i prossimi dieci minuti.
Una risata fiorisce dalla bocca invisibile del giovane. È un suono caldo e soffice, che sa di buono. "Temo di no."
"Che vuoi, allora?"
"Sai, stavo camminando, quando sono incappato in una ragazza che zoppicava e parlava da sola. Ho pensato di farle compagnia, visto che a quanto pare stiamo andando dalla stessa parte."
"Io non lo so, da che parte sto andando." Se questo pensa di aver rimediato l'incontro galante della serata, sta per scoprire quanto si sbaglia. Deve solo provare a mettermi le mani addosso.
Il giovane sconosciuto, comunque, non fa nessun movimento per avvicinarsi. "Stavi scappando da quelle guardie, no? Beh, anch'io."
Gli scoppio a ridere in faccia. "Cos'è, un maldestro tentativo per portarmi in un vicolo isolato? Non ce l'hai proprio, l'aria di uno che è appena arrivato dalla superficie."
La sua voce si abbassa. "Non è necessario essere un profugo per avere un motivo per scappare." Si stringe nelle spalle. "Come vuoi, comunque. Se prosegui nella direzione che avevi preso finisci dritta alla caserma delle guardie reali. Io, invece, stavo andando in un rifugio sicuro per passare la notte."
"Che cosa intendi con rifugio sicuro?"
"Un tetto sopra la testa, qualcosa da mangiare e nessun motivo particolare per cui dovrebbero venire a cercarmi proprio là. O cercarci, se decidessi di farmi compagnia."
Tutto questo non mi piace. L'altruismo non appartiene ai disperati. In passato ho visto gente in miseria stare a guardare mentre altri cadevano più in basso di loro, e gioirne anche un po'.
Il giovane davanti a me veste abiti semplici, ma di ottima fattura. Il suo modo di parlare è aperto e ispira fiducia.
Non è un disperato e con ogni probabilità mi sta ingannando.
"Mi dispiace, ma mia madre mi ha insegnato a non dare retta agli sconosciuti" rispondo, con l'ombra di un sorriso ironico.
"Oh, perdonami." Con un gesto veloce delle sue bianche mani, lui fa ricadere il cappuccio all'indietro. "Puoi chiamarmi Daron."
Sotto la luce fievole dei globi luminosi che galleggiano sulla strada, il volto di Daron mi appare in un gioco di ombre e approssimazioni. La mascella dal taglio volitivo è coperta da una leggera barba scura, curata alla perfezione. Non riesco a distinguere il colore degli occhi, un po' infossati sotto le sopracciglia corrucciate in un'espressione attenta, ma me li sento bruciare addosso.
Come avevo supposto, questo è il viso di un ragazzo di diciott'anni, diciannove al massimo. Mi ricorda la bellezza incosciente di un giovane cervo cui era appena spuntato il primo palco di corna, lassù nei boschi di Mont Maudit. Lo vidi durante una battuta di caccia per sfamare l'accampamento, pochi giorni prima della capitolazione. Sfrecciava tra gli alberi profumati di resina, la testa alta e il galoppo fiero.
Daron mi tende la mano, ma, nello stesso momento, delle voci frenetiche cominciano a rimbalzare tra le pietre delle case attorno. Sono le guardie da cui stavo scappando?
Quella che doveva essere una stretta amichevole si trasforma in una presa ferrea. Daron afferra la mia mano con la sua e mi stupisce con la forza contenuta in queste dita. "Forza, non c'è tempo" sibila.
Lo strattono e pianto i piedi. "Aspetta!" protesto. Non ho ancora deciso se fidarmi e seguirlo oppure no.
Il ragazzo si avvicina più di quanto abbia fatto finora. Si china per guardarmi, o forse per permettere a me di guardarlo negli occhi. Solo adesso distinguo il riflesso chiaro delle sue iridi.
Verdi. Sono occhi verdi. Il colore dei campi aperti e dei laghi montani, ricordo e promessa del vento che corre libero tra i fili d'erba e canta la sua canzone selvatica. Tesori perduti nel momento in cui ho scelto di rischiare tutto per scendere nella città in fondo al mare.
"Ti fidi di me?" domanda Daron, con la sua voce bassa. Il suo fiato mi accarezza.
"Perché dovrei?"
Il lampo di un sorriso. "Perché non hai alternative."
"Non posso correre. Mi fa male la caviglia."
"A questo si può rimediare."
La mia prospettiva sul mondo si ribalta quando due braccia robuste, le sue, mi sollevano da terra. Un attimo dopo stiamo sfrecciando nella foresta di case e palazzi di Ys, diretti chissà dove.
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