9.3 Faccia a faccia (pt.1)
Cam
«Quindi voi restate qui?», chiese mia sorella agli altri, tranquillamente stravaccati sui divani a guardare la tv. Emily e Rachel erano già uscite da più di un'ora e Seth se n'era appena andato, mentre né io né Lucy avevamo troppa voglia di andarcene.
«Certo», rispose Charlie, alzando la testa dal petto di Jay «Ci ordineremo una pizza o qualcosa del genere, non preoccupatevi per noi. Divertitevi.»
Avevo sempre odiato il giorno del Ringraziamento, perché io e Lucy eravamo costretti a tornare a casa da nostro padre e passare la giornata con lui che cercava di dimostrarsi abbastanza sobrio da portare avanti una conversazione, quando in realtà non aveva nemmeno idea di quanti anni avessimo. Questa volta in particolare sarebbe stata peggio del solito, perché non ci sarebbe stata zia Carol a tenerci compagnia.
Loro quattro, invece, sarebbero rimasti lì da soli, perché non avevano nessun posto dove andare. Avevo sentito Jay dire di essere stato invitato da Anna a passare la festa alla Jackson, ma aveva rifiutato, perché voleva stare con i suoi amici e, se loro non potevano esserci, non ci sarebbe andato nemmeno lui. Di Allie, invece, nessuna traccia.
Dopo averla trovata fuori da casa ad aspettare Jay non l'avevo più vista, e non potevo fare a meno di chiedermi se stesse bene e se avrebbe passato la giornata in solitudine. Speravo con tutto il cuore di no, ma non era più affare mio, me l'aveva detto chiaro e tondo. Non facevo più parte della sua vita da un po' ormai, e iniziavo a farmene una ragione. O almeno questo era quello che mi ripetevo.
«Sicuri di non avere bisogno di niente?», aggiunse Lucy, che a quanto pareva era in pena per loro, con una situazione familiare peggiore persino della nostra.
Jay le sorrise, ma era evidente che ci fosse ancora un po' di tensione tra loro. «Lucy, tranquilla. Ce la caveremo.»
Mia sorella aveva appena aperto la bocca per replicare quando suonò il campanello, e ci scambiammo tutti un'occhiata perplessa. Chi mai avrebbe potuto essere?
Essendo il più vicino alla porta, andai ad aprirla, trovandomi davanti un ragazzo poco più vecchio di noi, a cui il completo scuro e la cravatta davano un'aria molto seria e professionale.
«Allison Darlen abita ancora qui?», mi chiese, senza presentarsi.
Aggrottai le sopracciglia, confuso. «Chi sei?»
«Abita qui? Oppure, se non è in casa, puoi dirmi dove trovarla?»
«No», rispose Jay al mio posto, apparsomi improvvisamente a fianco «Non abita qui e non sappiamo dove trovarla. Cercatela altrove.» E gli chiuse la porta in faccia.
«Chi diavolo era?», gli chiesi, sempre più confuso e anche un po' spaventato. Perché era interessato ad Allie? Era forse nei guai?
Si strinse nelle spalle. «Non lo so, ma non è la prima che qualcuno viene a cercarla. Non so di preciso cosa vogliano da lei.»
Lanciai un'occhiata al salotto, dove gli altri sembravano ignari di quanto appena successo, e mi chiesi in cosa fosse coinvolta Allie. Era evidente che non se ne fosse andata solo perché non mi voleva più attorno, ma era forse in pericolo?
«Jay, in cosa si è cacciata?»
Mi guardò e per un istante nei suoi occhi lessi l'incertezza, indeciso se dirmi o meno la verità, ma alla fine abbassò lo sguardo.
«Nulla che ti riguardi, Cam, non preoccuparti. Mia sorella sa cavarsela da sola.»
Ma certo, lei non aveva bisogno d'aiuto. E sicuramente non spettava a me salvarla.
Salutai gli altri e salii in macchina, seguito da Lucy, per andare da nostro padre, l'entusiasmo sotto le suole delle scarpe. Odiavo il Ringraziamento.
Quando però papà venne ad aprirci restai a bocca aperta: si era dato una ripulita, si era tagliato i capelli e, per la prima volta da molti anni, sembrava sobrio. La somiglianza tra me e lui era incredibile, ma si notava poco quando era distrutto dall'alcool. In quel momento, invece, mi fece quasi paura: mi sembrava di guardarmi in uno specchio del futuro, vedendo nel mio riflesso l'aspetto che avrei avuto tra trent'anni.
«Bentornati, ragazzi», ci salutò sommessamente e sembrava quasi sul punto di abbracciarci quando Lucy lo superò ed entrò in casa, interrompendolo.
Lucy non perdonava facilmente, e quello che ci aveva fatto lui era molto difficile da dimenticare; se non ci fosse stata zia Carol, saremmo finiti in una casa-famiglia e a lui non era mai importato. Non era una cosa che si scordava.
Si schiarì la gola e restammo a guardarci per qualche istante, senza sapere cosa dire. Non ero abituato ad avere un padre, non sapevo che tipo di conversazione avrei dovuto intrattenere con lui. Avrei dovuto parlargli dell'ultima gara di nuoto? O del fatto che poco più di un mese prima ero quasi morto e probabilmente lui nemmeno lo sapeva?
«Sei cresciuto», ruppe il silenzio, senza smettere di guardarmi.
Una perspicacia a dir poco notevole.
«È passato un anno dall'ultima volta che ci siamo visti.»
Sembrava imbarazzato mentre fingeva di essere particolarmente interessato alla punta delle sue scarpe. «Ti va di entrare?»
«Certo.» In realtà, avrei preferito restare fuori a congelarmi.
Raggiungemmo Lucy in cucina, che stava guardando all'interno del frigo come se potesse far apparire qualcosa con la sola forza del pensiero.
«Mi dispiace.»
Ci voltammo entrambi verso nostro padre, stupiti. Non l'avevamo mai sentito pronunciare una parola di scuse, probabilmente non si era neanche mai reso conto di aver sbagliato qualcosa.
«So di non essere stato un bravo padre, ma sto cercando di migliorare. Sto cercando di rimediare, se me lo permetterete. Non bevo da dieci mesi, mi sto facendo aiutare. So che forse è troppo tardi, che siete cresciuti senza di me, che vi ho abbandonato. Lo so. So di non meritare una seconda possibilità. Ma spero con tutto me stesso che vogliate concedermela ugualmente.»
Beh, questo era di sicuro il discorso più lungo in assoluto che gli avessimo mai sentito fare. Il punto però era che era solo questo: un discorso. Nulla di più.
«Ma fai sul serio?». La voce di Lucy trasudava rabbia e disprezzo «Non ti è mai importato di noi. Ti importava solo di te stesso! Apprezzo che tu ti sia reso conto dei tuoi errori, ma ciò non cambia il passato. Come puoi anche solo pensare che potremo mai perdonarti? Non si può dimenticare una cosa del genere, mai. Per quanto mi riguarda, verrò qui ogni Ringraziamento come ho sempre fatto, ma non aspettarti nient'altro.»
«Lucy, io...»
Lei lo interruppe, stendendo un braccio tra loro come a volerlo distanziare fisicamente. «Hai detto quello che dovevi dire, papà, e io ho fatto altrettanto. Non c'è bisogno di aggiungere altro.»
La seguimmo entrambi con lo sguardo salire le scale di corsa, diretta in quella che per tutti questi anni era rimasta la sua stanza, e un po' mi dispiacque per lui. Non che con quelle parole io l'avessi perdonato, anzi, ero assolutamente d'accordo con Lucy, ma non doveva essere stato facile per lui rendersi conto dei suoi sbagli.
«Ho sbagliato proprio tutto, non è vero?», commentò amareggiato appena sentimmo la porta della camera di mia sorella sbattere violentemente.
Mi limitai a sospirare. «So che vuoi rimediare, ma forse è semplicemente troppo tardi. Siamo diventati grandi, abbiamo accumulato troppo rancore per cedere alle prime scuse che ci rivolgi. Non sarà facile farsi perdonare.»
«Lo so, figliolo, lo so. Puoi andare a vedere come sta tua sorella? Mi dispiace averla fatta arrabbiare ancora di più.»
Annuii distrattamente e salii le scale, ma, invece di bussare alla sua porta, entrai nella mia stanza, che non vedevo da anni.
Era esattamente come l'avevo lasciata, con alcuni poster di musicisti attaccati alla parete sopra al letto, un computer fisso sulla scrivania e una piccola libreria a fianco ad essa. Sul comodino c'era l'unica foto che ci era rimasta di mamma, in cui eravamo ancora tutti insieme e lei stava abbracciando me e Lucy. Stava guardando mia sorella e sorrideva, i capelli biondi scompigliati dal vento.
Mi sedetti sul bordo del letto e aprii il primo cassetto del comodino, dove un tempo – prima di trasferirmi definitivamente da zia Carol – tenevo le lettere e i biglietti personali. Ero sempre stato uno che conservava tutto, anche le cose più inutili.
Trovai una marea di cartoline da parte dei miei amici dai posti più disparati e non riuscii a trattenere un sorriso, che però svanì non appena vidi la lettera successiva.
Era un semplice foglio bianco, con il mio nome scritto in un corsivo elegante sul retro. Non l'avevo messo io nel cassetto, non l'avevo mai visto prima.
Lo aprii con la cautela con cui ci si avvicina ad una tigre affamata, gli angoli tremolanti a causa delle mie dita incerte.
Ne divorai l'intero contenuto in meno di un minuto, famelico di risposte, e improvvisamente mi divenne difficile anche solo respirare.
Allie e gli altri, la Jackson, l'incidente... in quel momento tutto acquistò un senso. Un senso, irrazionale, ma pur sempre un senso. Tutte le risposte alle mie domande erano davanti ai miei occhi.
Dovevo trovare Allie.
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