2.1 Conoscenti

Cam

«Non ti ho visto ieri sera, al falò», mi sussurrò Chloe dal banco accanto al mio.

Alzai gli occhi dal libro di chimica quel tanto che mi bastava per guardarla arrotolarsi una ciocca di capelli biondo platino intorno al dito e sorridere.

Chloe Asher era la capo cheerleader della scuola ed era dal primo anno che tentava disperatamente di attirare la mia attenzione. Era sicuramente molto carina, con quegli occhi da cerbiatto, una spruzzata di lentiggini e un fisico da urlo, ma come lei ne avevo conosciute mille; per lo più, aveva la personalità di un sasso.

«C'ero, invece.» Altri dieci minuti, poi avrei potuto fuggire da lei.

«Davvero? Ho visto Lucy e gli altri, ma tu non eri con loro. In compenso, c'erano dei ragazzi nuovi.»

Non sapevo se essere più irritato dalla sua insistenza o spaventato dal fatto che sapesse tutti questi dettagli, ma, in ogni caso, decisi di sfruttare la situazione a mio vantaggio per riuscire a liberarmi di lei, anche se solo temporaneamente.

«Sì, erano degli amici della ragazza con cui sono venuto ieri.»

Spalancò gli occhi scuri e smise per un secondo di toccarsi i capelli. «Sei venuto con una ragazza?»

Forse dirlo alla regina del gossip non era stata un'idea geniale, ma ormai il danno era fatto.

«Sì, è di un'altra scuola.»

«Oh», rispose soltanto, e pescò il telefono dalla borsa. Accidenti a me, la notizia si sarebbe sparsa alla velocità della luce.

Finalmente suonò la campanella e mi fiondai fuori dall'aula, diretto al mio armadietto. Come previsto, Lucy era già lì ad aspettarmi; a parte a pranzo, non l'avevo mai vista perché lei frequentava solo corsi avanzati.

«Allora?», chiese, guardandomi attentamente con le sopracciglia inarcate.

«Cosa?» Misi via i libri e mi incamminai svogliatamente verso l'uscita, con mia sorella che saltellava al mio fianco.

«Le hai scritto?»

«A chi?»

«Ad Allie!» La sua espressione stava diventando impaziente, il che significava che era ad un passo dal darmi un pugno. Adoravo farla impazzire.

«No.» Ero stato tentato tutto il giorno, ma ero riuscito a resistere.

«Che cosa? Perché no?»

«Perché avrei dovuto?»

Mi fulminò con un'occhiata. «Sei un vero imbecille.»

Mi limitai ad alzare gli occhi.

«Non mi stupisco che tu riesca ad attirare l'attenzione solo di ragazze stupide, avete probabilmente lo stesso quoziente intellettivo.»

Ci dirigemmo verso la macchina mentre continuava a criticarmi per le – poche – ragazze che avevo avuto il coraggio di farle conoscere, tanto che smisi di ascoltarla quasi subito, finché un nome non attirò la mia attenzione.

«... Allie», finì il discorso con un sorriso.

Sbuffai. «Ti ho già detto che...»

«No, stupido. C'è Allie.» Indicò una ragazza appoggiata al cofano di una macchina nera, poco distante da noi, che osservava pensierosa il cielo nuvoloso. Era proprio lei.

Il sorriso di Lucy andava da un orecchio all'altro. «Raggiungila.»

Le scompigliai affettuosamente i capelli e le passai le chiavi dell'auto. «Guida piano!»

Si allontanò ridendo e scuotendo la testa, perché era la stessa raccomandazione che le facevo ogni volta che le prestavo la macchina.

Mentre mi avvicinavo a lei non smisi per un secondo di guardarla: era vestita in modo casual, con un paio di converse grigie consumate e i capelli color cioccolato raccolti in un'alta coda di cavallo. Era assolutamente bellissima.

Quando la raggiunsi mi sorrise, e il sole fece capolino da dietro le nuvole.

«Beh, ciao.»

«Ciao a te», le risposi, ricambiando il sorriso.

«Ti va di fare un giro?»

Guardai prima l'auto, poi lei: era una macchina sportiva e sembrava anche piuttosto potente. Non che non mi fidassi della guida di Allie, semplicemente mi spaventava l'idea di una donna al volante di una vettura che superasse i settanta chilometri orari, qualsiasi essa fosse.

Si accorse della mia esitazione e inarcò un sopracciglio. «Che c'è, hai paura?»

Al diavolo. «Certo che no, andiamo.»

Sorrise e saltò su, allacciandosi la cintura; due secondi più tardi, uscì dal parcheggio sgommando.

Mi strinsi forte alla maniglia, rimpiangendo la mia decisione: sapeva guidare bene, non c'era dubbio, ma la velocità le piaceva un po' troppo.

Accese la radio e, mentre, vi trafficava, pregai che riportasse al più presto gli occhi sulla strada, perché stavamo sfrecciando a una velocità non indifferente.

Quando finalmente trovò una canzone di suo gradimento, iniziò a cantare a squarciagola.

«Dove stiamo andando?», urlai, cercando di sovrastare la musica.

«Tra poco lo vedrai.» Mise la freccia a destra e si immisi in una stradina laterale, praticamente deserta se non fosse stato per una piccola gelateria la cui insegna luminosa lampeggiava allegramente.

Si slacciò la cintura e si voltò a guardarmi. «Questa gelateria fa i migliori frappè dell'intero stato.»

La seguii all'interno, ordinammo e poi mi sedetti su una delle panchine esterne.

«È buono, ma bisogna essere pazzi per farsi tutta questa strada solo per un frappè.»

Sembrò soppesare un attimo la mia risposta, poi si sedette anche lei, lasciandosi letteralmente cadere al mio fianco. «Mi hanno detto di peggio.»

La osservai di sottecchi, chiedendomi se fosse vero. Sembrava la tipica ragazza che stava simpatica a tutti, era impossibile che qualcuno la odiasse.

Ignorò la mia occhiata e fissò il cielo con la stessa espressione pensierosa che aveva quando Lucy l'aveva vista nel parcheggio. Era come se fosse del tutto estranea a ciò che la circondava.

Improvvisamente, si riscosse dai suoi pensieri e si voltò verso di me. «Parlami di te.»

Aggrottai le sopracciglia, ancora una volta stupito. «Di me?»

Si sedette a gambe incrociate, in modo da essermi di fronte. «Sì, di te. Della tua famiglia, dei tuoi amici... oppure possiamo stare qui a guardarci negli occhi, se preferisci.»

«Beh, non c'è molto da dire. Io e Lucy viviamo con mia zia Carol, perché mia madre ci ha abbandonati quando eravamo piccoli e mio padre ha avuto qualche problema con l'alcool. Mia zia però fa l'infermiera e nell'ultimo anno ha fatto più ore di straordinari che di sonno, perciò si può dire che viviamo da soli.» Feci una pausa, notando i suoi occhi spalancati.

«Tua madre se n'è andata?»

Annuii. «Ricordo poche cose di lei, Lucy nemmeno quelle. Non sappiamo perché l'abbia fatto, ma secondo me aveva un amante: papà, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, ci ha detto che ci ha lasciati definitivamente quando avevamo circa quattro anni, ma che passava tantissimo tempo fuori casa già da quando ne avevamo appena compiuto uno.»

Era di nuovo pensierosa e probabilmente si stava chiedendo come potesse una madre abbandonare i propri figli appena nati, ma nel suo sguardo non c'era la compassione che avevo paura di vedere. C'era solo molta tristezza e... comprensione?

«Tu, invece? Abiti vicino alla Jackson?», le chiesi, cercando di sviare l'attenzione su di lei.

Scoppiò a ridere, come se avessi detto un'assurdità. «Che? No. Hai idea di come funzionino le cose in quella scuola?»

Scossi la testa; lei era la prima persona che conoscevo che la frequentasse.

«Io abito alla Jackson. Tutti noi viviamo lì.»

Che cosa? Perché mai avrebbero dovuto farlo?

«Da quanto?»

«Da sempre. I nostri genitori ci hanno scaricati lì quando eravamo piccoli, siamo cresciuti in quella scuola. La direttrice, Anna, è la nostra tutrice legale e ci ha cresciuti come dei figli. Non ci è mai mancato nulla. Ragazzi della nostra età ce n'erano sempre a vagonate e poi, quando abbiamo compiuti sette anni, io e Jay abbiamo smesso di condividere la stanza e così abbiamo conosciuto meglio Charlie, Justin e Amanda.»

Quindi anche gli altri erano stati abbandonati dai genitori... che razza di persone facevano una cosa del genere? Almeno mia madre ci aveva lasciati con nostro padre.

«Lo so cosa stai pensando», mi disse, osservandomi attraverso le lenti scure degli occhiali da sole. Quando li aveva messi? «Ma la Jackson è un'ottima scuola, i nostri genitori sapevano che ci stavano lasciando in buone mani. Non è stato un vero e proprio abbandono.»

Scossi la testa, per niente convinto. Io e mia sorella eravamo cresciuti con un solo genitore e non era stato facile, loro erano cresciuti con un'estranea.

«Perché hai scelto la Juke?», cambiai argomento. Aveva uno sguardo intelligente, probabilmente aveva le capacità per entrare in un college molto più prestigioso.

«È la più vicina.»

Non era vero, ed ero sicuro lo sapesse. «Non è che la Juke sia proprio a due passi, sono minimo venti minuti di macchina da Clint. Potresti andare da qualunque altra parte.»

«E tu allora perché ci vai?»

Era brava a rigirare il discorso. «Ho una borsa di studio per lo sport che non copre rette più alte. Perlopiù, sono cresciuto qui, tutti i miei amici sono qui. Andandomene perderei tutto.»

In realtà c'era anche un altro motivo: mia madre sapeva dove ci aveva abbandonati e se mai avesse deciso di darci qualche spiegazione, se me ne fossi andato non avrebbe saputo dove cercarmi. Patetico, ne ero consapevole, ma era una speranza che non riuscivo a fare morire.

«Anche io sono cresciuta qui.»

«Sei cresciuta all'interno di una scuola.» Mi pentii di averlo detto non appena vidi il suo sguardo diventare di ghiaccio.

«E quindi? Credi che, solo perché il mio dormitorio era di fianco ai laboratori di scienze, non sappia come funziona il mondo? Non sono stata tutto il tempo lì dentro, ho avuto anch'io una vita.»

«Scusami, non intendevo offenderti», mi affrettai a dire. Non pensavo se la sarebbe presa così tanto.

«Ho capito perfettamente cosa intendevi. Devo tornare ora, ho un impegno con Jay. Dove abiti?»

Ero assolutamente certo non avesse nessun impegno e la sua reazione mi fece arrabbiare. «Lascia stare, mi arrangio, grazie.»

Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Non sai nemmeno dove siamo. Forza, dimmi dove abiti.»

«Ti ho detto di no, grazie. Chiederò a Lucy di venirmi a prendere.»

Stava perdendo la pazienza, lo capii da come serrò con forza la mandibola. Bene, la stavo perdendo anch'io.

«Sono qui io, perché dovresti far scomodare tua sorella?»

Restai in silenzio, cercando una risposta adeguata. La verità era che era evidente che aveva fretta di andarsene e la cosa mi dava fastidio.

Lei interpretò il mio silenzio nel modo peggiore. «D'accordo, non dovevo passare. Colpa mia, ma non ripeterò l'errore. Ci vediamo.»

Mi alzai in piedi, cercando di afferrarla per un braccio, ma sgusciò via, diretta a grandi passi verso l'auto.

«Allie, aspetta! Non intendevo offenderti!»

La portiera nera sbatté forte in risposta e, un secondo dopo, partì sgommando.

Accidenti!

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