ATTENTA A QUELLO CHE DICI
pov ashley
Stringo la mano di Kate in segno di avvertimento e poi lascio subito la presa. I suoi occhi si calamitano nella mia stessa direzione, ispezionando l'ampia pista, ingombra dai corpi sudati e in balìa della musica. Parecchi di quei ragazzi frequentano la mia stessa scuola.
Riesco a riconoscerli perché durante la pausa pranzo mi è capitato spesso di sedermi ad un tavolo accanto al loro. Ma ovviamente nessuno di loro sembra accorgersi di me.
Forse è semplicemente troppo presto per sperare che il mio volto sia impresso nella loro memoria. Forse a metà semestre... o forse quando mia madre si licenzierà... o forse quando uscirò di nuovo con Jason...
"E' quello lì?". Kate si solleva sulle punte dei piedi, oltrepassando con lo sguardo la schiera di schiene che si para davanti a noi.
Acciuffo un lembo del suo top e lo tiro. "Sta giù. Ti dico che è folle".
A pochi metri da noi, seduto ad un tavolo in legno piuttosto appartato, il ragazzo che avevo urtato muove la schiena come sotto ad una risata. Non sembra averci viste e l'ultima cosa che voglio è che sollevi lo sguardo verso di me, dandogli così l'impressione di fissarlo. Non che lo stia facendo del resto.
Osservare non significa automaticamente fissare.
C'è una bella differenza tra le due cose. Lo sanno tutti.
Credo...
E comunque non ha importanza. Non siamo venute in questo locale per rimorchiare ma per discutere di un problema economico che comincia ormai seriamente a pesare sul mio bilancio familiare. Kate ha detto di avere una soluzione al mio problema e onestamente non vedo l'ora di sentire le sue proposte.
"Sembra carino", commenta, fissando attentamente le spalle di quel ragazzo.
"E molto folle", aggiungo. "Per una banalissima spinta sembrava essere sul punto di uccidermi. Potrebbe essere pericoloso. Preferirei sedermi lontana dal suo tavolo".
In un modo o nell'altro riusciamo a trovare posto su due sgabelli al bancone del bar, sistemiamo le borse e prendiamo la lista dei cocktail.
"Comunque non credo ti abbia vista", sentenzia, sbirciando discreta oltre il menù.
Faccio scorrere gli occhi lungo la lista delle bevande prima di azzardare un'occhiata tutto attorno, stile carrellata, senza soffermarmi sul nulla. Il ragazzo ci da ancora le spalle. Tiene un bicchierino saldo tra le dita, lo porta alla bocca senza accostarlo alle labbra e poi lo riposa sul tavolo. Di profilo è bello da togliere il respiro. Mi sforzo di trovargli dei difetti perché non sembra averne nessuno. Mento pronunciato, nascosto sotto uno strato sottile di barba scura, capelli tirati indietro, leggermente più scuri accanto alle tempie, naso sottile. E' il ritratto stesso della virilità.
Riporto lo sguardo sul menù. Dio che stress.
"Mi ha guardata come se mi odiasse", borbotto.
"Hai detto che stava parlando con una cameriera. Magari ci stava provando con lei e tu gli hai rovinato i piani".
"E ti sembra una ragione sufficiente per urlarmi dietro? Quando mi sono allontanata ha cercato di trattenermi".
"Se voleva qualcosa da te sarebbe venuto a cercarti", taglia corto, scrollando le spalle.
Ordiniamo due guinness e alcune tartine e aspettiamo che il barista si allontani prima di rilassarci completamente.
"Quindi, che proposte avevi?", le chiedo, sorseggiando la mia pinta.
"Ah già", sembra ricordarsi di punto in bianco il vero motivo per cui ci siamo incontrate. "Ho letto sul quotidiano che stanno cercando una commessa part-time al centro commerciale".
"Non ho esperienza nel campo".
"Non è richiesta".
Balza giù dallo sgabello e si accuccia sopra la sua borsetta alla ricerca di qualcosa. Dopo qualche istante mi allunga un giornale ripiegato, muovendolo a mo di ventaglio.
Lo apro alla pagina che mi indica e resto per un attimo immobile. Gli occhi non mi si schiodano dall'annuncio che ha cerchiato con un pennarello verde.
Okay, ditemi che è uno scherzo.
"Dovrebbero pagare bene", aggiunge, accorgendosi che a mala pena riesco a respirare.
Sollevo lo sguardo lentamente, strappandolo via a forza da quelle poche righe dattiloscritte.
"E' uno scherzo?", do voce ai miei pensieri.
Non voglio essere scortese con Kate, anche in merito al fatto che è l'unica amica che sono riuscita a farmi da quando mi sono trasferita a Colorato City. Ma questo è troppo...
"Vuoi aiutare tua madre?", replica. Il suo tono è secco.
"Certo che voglio aiutarla ma...". Di nuovo gli occhi mi si abbassano sopra l'articolo di giornale. Lo indico con un cenno della testa. "Stanno cercando una commessa in un sexi shop".
Kate mi fissa come se le avessi appena detto di essermi mangiata un gatto intero. Peli compresi.
"Devi vendere vibratori, mica usarli. Qual è il problema?".
Qual è il problema?
Una serie di immagini attraversa la mia mente. E non sono belle immagini.
"Tu ricordi che sono vergine, vero?".
La sua unghia smaltata sbatte contro il giornale. "Cercasi commessa anche senza esperienza!", legge piccata. "C'è forse scritto che le candidate non devono essere vergini?".
"Ma...".
"Ma niente, Ashley. Tu hai seri problemi economici. Tua madre a stento arriva alla fine del mese. Questo lavoro vi risolleverà il bilancio famigliare. Quanto difficile vuoi che sia vendere due film pornografici o due oggettini con le batterie?".
La fisso disperata. "Ma non so come funzionano".
"A batterie", risponde ovvia.
Mi sforzo di non mettermi a frignare. Per quanto l'idea di lavorare in un sexi shop mi spaventi, devo ammettere che quello che ha trovato Kate è il primo annuncio di lavoro da settimane.
"Intendevo dire che non ho idea di come funzionino gli uomini".
"E questo cosa centra?".
"Come posso consigliare a qualcuno dei giocattoli sessuali se non so come funzionano?".
"Adesso ti riferisci agli uomini o ai giocattoli?".
"A tutte e due".
"Be', per i giocattoli ci sono i foglietti di istruzione".
"E per gli uomini?".
Prende un sorso di birra e ammicca, complice. "Loro sono più o meno simili ai vibratori. Anche se non vanno a batterie, il loro unico scopo è infilarsi da qualche parte".
"Mi piacerebbe rifiutare".
Incrocia il mio sguardo, divertita dalla mia espressione terrorizzata. Infine, colta probabilmente da un moto di pietà, pigia alcuni tasti sul suo cellulare e lo solleva in alto.
"Che stai facendo?", indago.
"Non c'è campo in questo cavolo di locale". Sventola il cellulare un po' a destra e un po' a sinistra, poi lo solleva un po' più in alto sopra le nostre teste finché un misera tacca annuncia la connessione. "Ecco qua".
Sullo schermo appare una vasta gamma di immagini in merito a vibratori e altre aggeggi di cui ignoravo l'esistenza. C'è persino un pene con dei brillantini attaccati tutto attorno.
Dio. E' inquietante. Chi mai potrebbe usare una cosa simile? Sarà igienico?
Inclino la testa all'indietro per osservare meglio lo schermo in alto.
"Scusa la posizione scomoda, ma se abbasso il braccio perdo la linea", si scusa Kate. "In questa pagina dovresti farti un'idea di quello che andrai a vendere".
"Ma quanto sono grossi?", boccheggio.
"Mi sono sempre chiesto in effetti perché le ragazze passassero tanto tempo connesse a internet". Una voce alle nostre spalle ci fa irrigidire. Ho già sentito questa voce. Dove? Dove l'ho sentita? "Se non altro ora posso dire di saperlo".
Io e Kate ci fissiamo inorridite e immediatamente il suo braccio scatta verso il basso, lontano dal segnale di connessione. La pagina resta impostata, bloccata sullo schermo luminoso. I nostri occhi bloccati sulla pagina.
"Chiudi la pagina", squittisco imbarazzata.
Ma nonostante lei stia pigiando venti tasti contemporaneamente le immagini restano lì, in bella mostra.
"Non si chiude... non si chiude". Schiaccia ancora qualche tasto laterale, quindi rassegnata comincia a colpire il balcone col cellulare. "E' lì ferma, vedi? Resta lì. Perché resta lì?".
"Continuate pure, non volevo distogliere la vostra attenzione da sofisticate ricerche di mercato". L'ironia nella voce maschile alle nostre spalle mi fa sussultare come se un insetto mi avesse appena punta sulle natiche.
Di mala voglia ruoto sullo sgabello, preparandomi mentalmente una risposta abbastanza intelligente da dare allo sconosciuto.
E poi avverto come un colpo allo stomaco. Oh cavolo!
"Ci rivediamo", mi saluta il ragazzo che avevo urtato poco prima.
Avvampo. Il mio corpo formicola. La mia testa smette di funzionare, impostandosi in modalità vegetale. Non può essere. Non può essere. Magari è un'allucinazione.
Chiudo gli occhi. Li strizzo. E poi gradualmente li riapro.
Okay, non è un'allucinazione.
"Ciao", squittisco in imbarazzo.
"Non volevo disturbare", si scusa ancora, sebbene sul suo volto non ci sia traccia di alcun pentimento.
"Noi due, in effetti, stavamo facendo una specie di ricerca di...", deglutisco, schiarendomi la gola. "Di... hmm... sperimentazioni".
Annuisce con un'espressione indecifrabile. Perché non mi permette di decifrare i suoi pensieri? Perché li tiene corazzati da qualche parte dentro di sé? Mi ha creduta? Non mi ha creduta? Cosa sta pensando?
"Sperimentazioni di che genere?", domanda, pensoso.
Per qualche secondo resto senza parole.
Non posso credere che mi ha davvero chiesto una spiegazione.
"E'... hmm... ", mi schiarisco di nuovo la gola. Dov'è la mia birra? Ah, eccola. Ne bevo un sorso. Un altro. "Sono sperimentazioni su esperimenti... uhmm... sperimentali".
Segue un silenzio imbarazzato.
"Sulle sperimentazioni... sperimentali?", insiste.
"Sì!", rispondo con aria di sfida.
Non può contraddirmi. Non può farlo e basta. Anche perché non può sapere di cosa sto parlando. Non lo so nemmeno io.
E nemmeno Kate a giudicare dal modo stravolto in cui mi sta guardando, cercando con tutta probabilità di comunicarmi con o sguardo di starmene zitta.
"Comunque io sono Kate", salta giù dallo sgabello, allungando la mano verso il ragazzo per spezzare il momento imbarazzante.
La mano del ragazzo scatta in avanti automatica, ma si direziona verso di me. Come se Kate non avesse parlato. Come se non fosse nemmeno presente.
"Piacere, io sono David".
Fisso le sue dita tese verso di me. Sono belle. Lunghe, affusolate, con le unghie corte e in ordine. Ma direzionate dalla parte sbagliata.
"Kate è lei", indico la mia amica.
"E tu chi sei?", domanda, senza nemmeno prendersi la briga di volgere lo sguardo verso di lei.
Le dita sono ancora tese verso di me, pazienti. Perché la sta ignorando? Non lo sa che è maleducazione?
"Ashley", mi presento.
"Hai intenzione di stringermi la mano o devo afferrarmela da solo?".
"Cosa? Oh... scusa, io...". Sollevo la mano in fretta e stringo la sua.
E' calda. Di quel calore che ti fa sentire a casa. Mi fa venire voglia di ritirare il braccio e nasconderlo tra le cosce. Non mi piace toccare questo ragazzo. Mi spaventa. Non so perché. Mi spaventa e basta.
"Temo di essere stato piuttosto sgarbato con te, prima. Mi permetti di rimediare invitandoti al mio tavolo?", dice galante.
Davanti al mio tentennamento mi indica il proprio tavolo con un movimento del braccio e da lontano vedo un ragazzo seduto, intento a guardare qualcosa al cellulare. Ha l'aria familiare eppure non riesco a ricordarmi dove l'ho visto. Forse l'ho intravisto qualche minuto fa, quando sono finita addosso a David.
"In realtà stavamo andando", declino.
"Sei qua con qualcuno?", domanda.
Mi volto disorientata verso la mia amica. Ma lo sta facendo a posta di ignorarla?
"Sono con lei", rispondo lentamente, indicando Kate.
David la fissa per un secondo e abbozza.
"Io sarei Kate, eh! Quella che si è presentata dieci secondi fa". Sbotta la mia amica.
"Ashley", pronuncia David, gli occhi di nuovo su di me. "Il tuo nome somiglia ad una carezza". Quindi scrolla la testa, riassumendo un contegno più serioso. "Devi proprio scappare? Non hai nemmeno il tempo di finire la birra con me?".
"Il mio coprifuoco scade tra mezz'ora".
E comunque non berrei mai una birra con lui. Si comporta da pazzo.
Corruga la fronte, spiazzato. "Quanti anni hai?".
"Diciassette".
Istintivamente retrocede di un passo, quasi a voler mettere una distanza di sicurezza tra di noi. Per quanto il suo viso sia amichevole, lo sguardo esprime cautela.
"Sarà bene che ti lasci andare allora".
Allunga di nuovo la mano per aiutarmi a scendere dallo sgabello e di malavoglia permetto alle sue dita di intrecciarsi alle mie. Appena la mia pelle entra in contatto con la sua, uno scossone sembra buttarci l'uno contro l'altra.
Oh, cazzo!
Alzo la testa di scatto, occhi negli occhi con i suoi. Cosa è stato?
L'ho solo immaginato?
Un altro scossone fa tremare il pavimento sotto i miei piedi e sono costretta a sorreggermi al bancone per non finire scaraventata a terra.
Dalle mensole vedo cadere file e file di bicchieri. I cocci di vetro si sparpagliano sul pavimento, altri esplodono in un boato al terzo scossone.
Che sta succedendo? Oh Dio. Oh Dio. Oh Dio.
Siamo stati colpiti da una bomba?
Prima ancora di rendermi conto di ciò che sta succedendo, sento le urla della gente riecheggiare nel locale. La musica si interrompe. Le finestre vanno in frantumi. Uno squarcio enorme si apre sul soffitto e le pareti sembrano ripiegarsi su se stesse. Si stanno accartocciando. Non lo sto immaginando. E' vero. E' tutto vero.
Sto per morire. Me lo sento. Lo so.
Boccheggio tenendomi ben salda al bancone ma è come se qualcosa stesse cercando di trascinarmi verso il basso. Come se la gravità fosse aumentata di intensità. Mi pesa addosso. Mi schiaccia.
Disperata mi guardo attorno: borse e giacche stanno precipitando a terra, dei calcinacci si stanno staccando dagli angoli delle pareti, alcune ragazze sanguinano...
"Mantieni la calma", sento la voce di David arrivare da vicino.
Troppo vicino.
Lo guardo e trovo il suo volto a pochi centimetri dal mio. Presa com'ero a osservarmi attorno, non mi sono accorta che col suo corpo sta cercando di farmi da scudo. Mi sommerge, imprigionandomi in una specie di abbraccio.
"Resta calma", ripete.
Restare calma? Non riesco nemmeno a respirare. Anzi, quasi quasi vomito.
Sento qualcuno accanto a me recitare il padre nostro e vengo assalita da un'altra ondata di panico.
Percepisco un'altra scossa. Oh, Dio. Oh, Dio.
Stiamo tutti per morire schiacciati qua dentro come sardine.
Morirò abbracciata a uno sconosciuto.
Morirò abbracciata a uno sconosciuto folle.
"Non morirai", mi tranquillizza David, bianco in volto.
Ho parlato ad alta voce? Grandioso. Sono l'unica che riesce a fare figuracce persino in punto di morte.
"Non preoccuparti per le figuracce. Tutto sommato non hai detto nulla di grave", abbozza.
Dannazione. Ho parlato ad alta voce un'altra volta.
Okay, ora il pavimento sembra essere fermo.
Schiaccio bene i piedi sulle piastrelle e le sento ferme. Traballano solo un po' ma sembra più che altro che si siano scollate dalla pavimentazione.
"Siete pregati di mantenere la calma", avverte una voce dagli altoparlanti. "Uscite dal locale usufruendo delle uscite di sicurezza. Sono posizionate a destra e sul retro. Non corrette. Muovetevi adagio. Non accalcatevi. Seguite le indicazioni delle persone di servizio".
E' successo tutto così in fretta da non lasciarci nemmeno il tempo di capire cosa in effetti sia accaduto. Un attimo fa c'era la musica, la gente rideva ed io stavo cercando di togliermi di torno questo ragazzo. Ora ci sono urla, le pareti sono crepate, le mensole cadute, le travi spezzate...
"Sarà meglio muoversi prima che crolli tutto", mi invita David.
"Dov'è Kate?", chiedo, vedendo che lo sgabello accanto al mio è stato catapultato a decine di passi di distanza.
Oddio magari è morta. Magari è rimasta intrappolata sotto una trave. Vedo già il suo volto stampato in bianco e in nero sulla cronaca locale: Giovane studentessa della Bennett hight scholl perde la vita durante un...
"Chi è Kate?", chiede David.
Lo fisso stravolta. Chi è Kate? Lo fa a posta? Se la situazione non fosse così drammatica mi arrabbierei. Ma al momento la mia testa è vuota. Non riesce a funzionare.
"La ragazza seduta accanto a me", gli spiego. "E' una mia amica".
"Non l'ho vista, mi dispiace. Ma se vuoi posso aiutarti a cercarla. Sarà già fuori dal locale, vedrai".
"Davvero non l'hai vista?". Mi viene da piangere. E anche da vomitare. Non posso fare tutte e due le cose insieme.
"Ho visto te", risponde. E nello sguardo che mi invia ci leggo centinaia, milioni di sottintesi. "Vieni. Mettiamoci in un posto sicuro".
A fatica cerchiamo di farci spazio tra la calca di persone che si sta spintonando verso le varie uscite di sicurezza. Alcuni buttafuori cercano di mantenere una parvenza di ordine ma il panico getta nel caos la maggior parte di ragazzi ancora intrappolati qua dentro. Le travi tagliano la pista in due e siamo costretti a dirigerci verso il retro. La porta d'emergenza è crollata e passiamo sotto l'intelaiatura da cui penzolano dei cavi dell'elettricità.
"Presta attenzione", si raccomanda quando dobbiamo farci largo tra alcune persone stese a terra.
Non sembrano gravemente ferite e si limitano ad asciugarsi del sangue dal naso o dalla testa.
"Cosa credi sia accaduto?", sento dire ad una ragazza sospinta dalla calca verso di noi.
"Un terremoto", risponde qualcuno che non riesco ad individuare.
Mi sento tutta sudata, ho i capelli in disordine e probabilmente mi è colato il rimmel.
Attorno a noi la situazione è surreale ma almeno il suolo è solido. Lo sento tremare solo quando aumento il passo per allontanarmi dal groviglio di corpi accucciati a terra e dalle grida di alcune ragazze che, come me, stanno cercando qualcuno. Probabilmente sono le mie gambe a tremare.
Sono confusa e onestamente sorpresa di avercela fatta. Per un momento ho davvero creduto che sarei morta. Forse anche in due momenti.
"La mia borsa", mi ricordo di punto in bianco.
Faccio per voltarmi ma il braccio di David mi batte sul tempo, bloccandomi il polso. "Non è sicuro rientrare. Ti verrà consegnata quando avranno recuperato tutti gli effetti personali".
Da lontano sentiamo delle sirene e alcune persone si staccano dalla massa per gettarsi in mezzo alla strada e attirare l'attenzione dei soccorsi.
"Vieni", mi trascina verso destra, puntato un piccolo spiazzo sgombro di macerie. "Sediamoci laggiù. Hai l'aria di una che sta per svenire".
Traballo in mezzo a quell'incubo, aggrappandomi senza quasi rendermene conto al braccio muscoloso di questo ragazzo. Queste cose accadono alle altre persone. Si sentono sui notiziari e allora si spegne la tv e puff, sparisce tutto. Non accadono a me.
Mi lascio cadere sul cordolo del marciapiede e poso il mento sopra le ginocchia, dondolandomi avanti e indietro. Se solo riuscissi a scorgere Kate.
"Tieni".
Sollevo gli occhi di scatto e mi accorgo che David mi sta porgendo una bottiglietta d'acqua e un cellulare.
"Dovresti chiamare i tuoi genitori", si preoccupa.
Frastornata afferro il cellulare e resto a fissare i tasti. Come facevano un tempo a ricordarsi tutti i numeri a memoria? Okay, calma. Sono sette cifre tra lo 0 e il 9. Non deve essere così difficile ricordarsi il numero di casa.
Provo a schiacciare alcuni tasti ma nulla. Zero assoluto.
055847...
No.
0558743...
No. No, dannazione. No!
"Non lo ricordi?".
"Certo che lo ricordo", ribatto con ovvietà.
No, che non me lo ricordo. Ma non posso fare un'altra simile figuraccia con questo tizio. Voglio dire, sono solo sette cifre. Sette stupide, inutili, banalissime cifre. Ed io non posso essere così stupida, inutile e banalmente incapace. Il numero di casa lo ricordano persino i bambini delle elementari. Praticamente è la seconda cosa che insegnano dopo l'indirizzo di casa.
Provo a digitare di nuovo: 0558734
La linea è libera.
Grandioso.
Sorrido come un'ebete e mi ritrovo a sorridere soddisfatta a questo tizio in caso pensasse che sono solo una ragazzina di diciassette anni che non sa cavarsela da sola. Il ché è vero. Ma non è necessario che lui lo sappia.
Quattro squilli dopo mi risponde una voce femminile.
"Pronto?".
La voce appartiene ad una donna anziana e non l'ho mai sentita prima. Di male in peggio, ho persino sbagliato numero. E ora cosa dico a questa tizia? Metto giù e fingo che nessuno ha risposto? Oppure potrei...
"Ciao mamma", improvviso.
"Mamma? Temo abbia sbagliato numero, signorina".
"Sì, sì, certo sto bene. E' crollato tutto ma me la sono cavata senza un graffio".
"Ma chi è lei? Le ripeto che ha sbagliato numero".
"Oh, no. Non serve che mi vieni a prendere", parlo a raffica. Non so nemmeno cosa sto dicendo.
Mi giro di lato, cercando di allontanare il più possibile la cornetta da David. I suoi occhi non mi perdono di vista e l'ombra di un sorriso gli abbellisce le labbra carnose. Probabilmente è sollevato di sapere che sono riuscita a tranquillizzare i miei genitori.
"E' uno scherzo telefonico? L'avverto che segnalerò la chiamata alla polizia", mi minaccia quella voce.
"Ora riattacco. Tornerò presto. Recupero la borsa e arrivo".
"Glielo ripeto. Chiunque lei sia chiamerò la polizia. Il suo numero mi appare in memoria".
Cosa? Ommioddio. Che qualcuno mi uccida. Adesso. Voglio morire.
"Anche io ti voglio bene. A dopo", blatero nel panico, digitando in fretta il tasto rosso per chiudere la chiamata.
Riconsegno il cellulare a David e sorrido grata.
"Si è tranquillizzata?", si informa premuroso. L'ombra di sorriso si è trasformata in un vero e proprio ammiccamento.
Perché è così felice?
"Sì", squittisco. "Grazie per...".
"Ma ti pare. Vuoi andare a cercare... uhmmm... Katya?".
"Kate", lo correggo. Chissà che problema ha con la mia amica. Il mio nome lo ricorda benissimo. "Ma credo sia il caso di attendere. Non la troveremo mai girando attorno a queste persone".
"D'accordo. Permetti?", indica il pezzo di marciapiede accanto al mio.
Mi si siede accanto, mantenendo una certa distanza di sicurezza e per un attimo resta a digitare qualcosa sul cellulare. Con la coda dell'occhio leggo il messaggio che sta inviando ad un certo Lucas. La risposta gli arriva immediata e intuisco che deve trattarsi del ragazzo con cui è venuto al locale. Se solo ricordassi il numero di Kate potrei scriverle anche io su Wathsapp.
"Va meglio?", chiede, riposando il cellulare nella tasca del giubbotto scuro.
Somiglia alla classica giacca che usano i motociclisti, solo che non c'è nessuno stemma attaccato. E' di pelle, nera e bianca. E gli sta divinamente bene.
Sì, be', ma questo cosa centra?
"Abbastanza meglio. Mi dispiace per quello che ti ho detto prima. Non volevo darti del folle. E' solo che quando ti sono finita addosso ti sei comportato proprio come uno squilibrato patetico che...", mi blocco, sgranando gli occhi. Cioè... intendevo dire... che... che...".
"Stai facendo una gaffe di nuovo", mi fa notare.
Lo fisso imbarazzata. Infine chiudo gli occhi, maledicendomi mentalmente.
"Forse è meglio non rivangare quello che è stato", mi viene incontro. Almeno non sembra essersi particolarmente offeso.
Cerco di sorridere ma non ho neppure il coraggio di guardarlo in faccia.
"A quanto pare con te non riesco a fare altro che figuracce. Mi succede sempre quando sono sotto pressione. Un po' come a scuola, durante un'interrogazione di letteratura inglese. Comincio a straparlare e a stento capisco cosa dico".
David si volta di scatto verso di me, l'espressione di colpo molto attenta. "Non ami la letteratura inglese?".
"La odio", butto lì, usando il tono più sdegnato che mi riesca. "E' una materia inutile. Mi sorprendo che ci sia ancora qualcuno che possa interessarsi a qualcosa che uno scrittore ha scritto cento anni fa".
La sua bocca ha un guizzo, sembra quasi si stia per mettere a ridere. "E che materie preferisci?".
Sul serio gli interessa? Siamo appena riusciti a scampare ad un terremoto che ha devastato il locale e ci mettiamo a discutere di scuola? Tra l'altro non mi sembra nemmeno uno studente. Mi mette in soggezione.
"Nessuna in particolare. Non amo la scuola. Non amo starmene seduta per ore ad ascoltare professori decrepiti che a stento si reggono in piedi. Mi piace studiare per conto mio. Per questo con la mia amica Kate abbiamo escogitato un sistema infallibile per svignarcela dalla classe durante le lezioni senza che quegli imbecilli dei professori se ne accorgano".
"E quale sarebbe?".
"Quando io e Kate non seguiamo la stessa lezione, di solito viene nella mia aula e mi dice che la professoressa Tunner ci sta aspettando in aula magna per le prove di recitazione".
"E se qualcuno dovesse chiedere a questa Tunner se è vero?".
Mi lascio sfuggire una smorfia. "E' così vecchia che non si ricorda nemmeno quali sono i suoi studenti".
Un altro guizzo gli piega le labbra di lato e una piccola fossetta gli scava il mento. "E che fate quando dite di andare a recitazione?".
"Di solito ce la svigniamo al bar a mangiare pasticcini".
Ma perché è così interessato? E perché io non riesco a smettere di ciarlare? Ogni volta che gli occhi mi si posano inavvertitamente su qualche ragazzo che si lamenta per qualche ferita o su alcune macerie, il mio cervello va in tilt e dalla bocca mi esce un fiume di parole. Sono ancora così frastornata da non rendermi conto di ciò che sto dicendo né se le mie parole hanno un senso logico. So solo che parlare mi aiuta a mantenere la calma. O parlo o mi metto a vomitare.
"Alle volte mi domando come sia riuscita ad arrivare all'ultimo anno di liceo senza mai essere rimandata... una volta ho falsificato la pagella e i miei se la sono bevuta... un'altra volta sono entrata di soppiatto nell'ufficio del preside e ho rubato il timbro della scuola...".
"Sul serio?", si sorprende.
"Già... per cui adesso mi basta un foglio di word per inventarmi gite inesistenti e potermene stare fuori una notte intera senza che i miei facciano domande...".
Non so nemmeno perché glielo sto raccontando. Però mi distrae. I suoi occhi su di me sono una distrazione, sono l'argine mancante che di solito mette un freno tra il mio cervello e la bocca. Per questo parlo. Parlo. Parlo. Parlo senza nemmeno sapere che direzione far prendere al discorso.
"... non posso più farlo ovviamente perché da quando mi sono trasferita in questa maledetta città mia madre è entrata nel corpo insegnanti del mio liceo... dicono che non sia da sfigati essere la figlia della professoressa di ginnastica ma intanto nessuno mi saluta in pausa pranzo... ho pensato che magari potesse dipendere dalla mia taglia 44 ma poi ho notato che mi evitano come la peste anche senza mai avermi guardata. Quindi probabilmente non sanno nemmeno che sono una taglia 44...".
"... i compiti in classe non sono un problema. Copiare è così facile. Basta nascondere i bigliettini tra le cosce e indossare una gonna corta e il professore non può di certo controllare... ogni tanto con le mie amiche rubiamo le monetine dalla cassetta per le raccolte che sta in segreteria e le usiamo per comprarci tutte le merendine alla macchinetta... il cibo della mensa fa schifo, solo quegli idioti dei professori riescono a mangiarlo... sputo nel succo del professore Orixon ogni volta che mi da un'insufficienza... in realtà lo faccio col succo di tutti i professori...".
"... quando ci danno un libro da leggere per casa vado sempre su wikipedia e leggo il riassunto, tanto nessuno se ne accorge... i temi di italiano? Che cosa inutile. Tanto me li fa Kate e poi me li passa sotto banco. Lei è brava ma io ho problemi coi tempi verbali... mia mamma mi ha pagato delle lezioni di recupero ma io non ci sono mai andata e ho speso quei soldi per comprarsi delle Louboutin... sono fantastiche ma a scuola non me le fanno indossare...".
"... sono certa che la professoressa di francese mi odia. Infatti ho messo in giro la voce che sia piena di forfora e ogni volta che non se ne accorge le spruzzo un po' di gesso sulla giacca, così impara...".
"... da quando ho saltato le lezioni di recupero di inglese faccio sempre i compiti usando il tempo presente...".
"E' ferita?".
"Come?". Alzo lo sguardo, completamente spiazzata.
Un infermiere è in piedi davanti a noi e ci sorride rassicurante, tenendo tra le mani una cartelletta.
"Stiamo bene", lo tranquillizza David al mio posto, alzandosi.
"Vi conviene allontanarvi e lasciare spazio alle manovre dei mezzi di soccorso".
"Ma certo". Mi alzo anche io, frastornata, e in quel momento mi accorgo che il parcheggio è ormai quasi vuoto.
Per quanto tempo ho parlato? Oh, Dio.
"Ashley?".
Ruoto su me stessa riconoscendo la voce della mia amica. La vedo correre verso di noi. Tra le mani tiene la mia borsetta. Quando è riuscita a recuperarla?
"Dio santissimo, come sono felice di vederti", sbotto, andandole incontro a braccia aperte.
Ci stringiamo forte, scoppiando in lacrime.
"Ti ho cercata dappertutto. Che spavento, Ashley". Mi allontana da sé per esaminarmi dalla testa ai piedi. "Stai bene? Sei ferita?".
"Sto benissimo. Mi ha aiutata David".
Kate gli sorride sopra la mia spalla e mi passa la borsa. "Ha appena telefonato tua madre. E' agitatissima".
Sento alle mie spalle la risata di David e in quel momento mi ricordo della finta telefonata.
Oh Dio, no.
"L'ho già sentita", cerco di farla star zitta.
Ti prego non dire altro. Ti prego non dire che...
"Ha appena telefonato. Mi ha detto che non sa nemmeno dove sei. E' davvero molto preoccupata".
"Kate, sul serio...", blatero a disagio, cercando di mimarle con le labbra di non proseguire.
Ma è troppo tardi.
"Vado a cercare il mio amico", ci saluta David, accostandosi a me. Il suo sforzo di non scoppiare a ridermi in faccia è quasi offensivo. "Vi serve un passaggio?".
Kate gli sorride riconoscente. "Sta venendo mio fratello. Sei stato gentile con la mia amica. Grazie".
"Spero solo che questo non mi costi una denuncia", mi strizza l'occhio. "La signora con cui hai parlato un'ora fa era davvero molto alterata".
Inghiotto a vuoto. Ha davvero sentito tutta la mia brillante conversazione con quella sconosciuta?
Voglio morire. Subito.
"Di che state parando?", si intromette Kate, ignara.
"Mi dispiace", dico tra i denti.
Il sorriso di David è smagliante. "Almeno so che non dovrò usare quel numero per rintracciarti. Non che questo mi impedirà di riuscirci. A presto. Spero".
"Grazie ancora".
Ammicca una volta e se ne va, lasciandomi sotto sopra.
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