17
Da qualche giorno Karen restava per interi pomeriggi chiusa nella sua stanza. Stesa sul letto, fissava il soffitto bianco, mentre rifletteva sulle parole del professor McCoy, ma soprattutto pensava ad Annie: perché non si ricordava chi era?
Le sembrava strano, quasi impossibile, che avesse avuto a che fare per tanto tempo con quella ragazza e, nonostante ciò, non se ne ricordasse.
Si portò le mani sul viso, coprendosi così gli occhi, e cercò di riflettere e portare alla luce anche solo un frammento del suo viso, della sua voce, del suo aspetto fisico, o di qualsiasi altra cosa che l'avrebbe condotta a lei...
Niente, vuoto totale.
All'improvviso le venne un'idea: come aveva fatto a non pensarci prima?
Prese il proprio telefono e cercò il suo contatto tra quelli memorizzati nella rubrica. La trovò quasi subito, era una delle ultime persone con cui si era sentita prima della sua misteriosa morte...
Strano.
Il nome Annie era affiancato da un'emoji a forma di cuore.
Per curiosità lesse i messaggi che si erano scambiate, alcuni la facevano ridere, ma si sentiva lo stesso a disagio: era come se stesse spiando le conversazioni di due estranei.
Giacché aveva ancora il cellulare, guardò anche le foto che aveva nella galleria: ce n'erano tantissime insieme ad una ragazza che mai aveva visto in vita sua, o, almeno, non se lo ricordava. Sicuramente era quella Annie.
Lasciò stare il telefono e tornò a fissare il soffitto: più si sforzava a ricordarsela, più aveva l'impressione che in realtà fosse tutto dentro la sua mente. Pensò di nuovo a quanto sarebbe stato bello se, all'improvviso, avesse sentito il rumore fastidioso della sveglia e si fosse svegliata da quel terribile incubo: si sarebbe alzata dal letto controvoglia e sarebbe scesa in cucina, dove i suoi genitori e Roman avrebbero iniziato a fare colazione, sorridenti; erano felici e anche lei lo sarebbe stata; non avrebbe sentito la necessità di uccidere né Jonson né tanto meno il dottor Mears e nessuno le avrebbe fatto in continuazione domande sulla fantomatica Annie.
Ma per quanto ci sperava e per quanto le sue illusioni fossero allettanti, sapeva perfettamente che quello non era un incubo, ma la cruda realtà. Ripensando a Roman, alcune lacrime iniziarono a bagnarle il volto e lentamente quel pianto silenzioso si trasformò in numerosi singhiozzi.
Si raggomitolò all'angolo del letto e immaginò a quanto sarebbe stato bello se in quel momento suo fratello fosse stato di fianco a lei a consolarla: l'avrebbe abbracciata e le avrebbe detto cose carine e un po' divertenti per farle tornare su il morale, le mancava come l'aria... Quasi lo vedeva, seduto sul bordo del letto mentre le sorrideva dolcemente, ma era consapevole che quella era solo una visione della sua mente stanca, stanca per tutto il nervosismo accumulato in quei giorni, stanca di tutti quegli avvenimenti assurdi.
-"Perché capitano tutte a me, Roman, perché?" Urlò, ma senza alzare di troppo la voce per non farsi sentire dai suoi genitori.
Restò in silenzio, aspettando una risposta che già sapeva di non poter ricevere. Ma cosa avrebbe risposto Roman a quella domanda?
-"Perché sei morto? Perché mi hai abbandonata?!" A questa domanda, invece, conosceva già la risposta: era colpa sua, non aveva visto la macchina sfrecciare nella loro direzione. Per colpa di una sua svista, Roman era morto... E nulla poteva cambiarlo.
Era convinta che uccidendo coloro che, secondo lei, le avevano strappato via il fratello, si sarebbe sentita meglio, l'avrebbe vendicato; e invece adesso stava pagando il caro prezzo delle sue azioni sconsiderate e impulsive con la sofferenza e i sensi di colpa. Uccidere non le avrebbe riportato indietro Roman, ormai però era troppo tardi.
-"Scusami Roman, sono sicura che ora mi odierai..." Sussurrò infine, così a bassa voce che lei stessa a malapena si sentì.
La testa le faceva male e, senza neanche accorgersene, la ragazza chiuse gli occhi, addormentandosi quasi subito.
***
Karen si trovava in una stanza buia, non ricordava, però, come fosse finita lì. Man mano gli occhi si abituarono all'opprimente oscurità e iniziò a distinguere lentamente l'ambiente in cui si ritrovava, era l'interno di una casa sconosciuta, ma in qualche modo familiare.
-"Karen!" Una voce, tetra e leggera come un soffio di vento in pieno inverno, la chiamò alle sue spalle. Subito, si voltò di scatto, ma dietro di lei non c'era nessuno.
-"Karen!" Di nuovo, ma stavolta da un'altra direzione. La ragazza iniziò a tremare dalla paura: non c'era nessun altro oltre a lei, eppure quella voce non se la stava inventando!
Era là, con lei, ma non riusciva a vederla.
Quella voce continuava a chiamarla, mentre Karen, con le gambe che tremavano come gelatine e il cuore che le martellava forte nel petto, cercava nella stanza la fonte del suono.
-"Karen, perché non ti ricordi di me?" Sulla soglia della porta era comparsa dal nulla una ragazza alta più o meno quanto lei. Lunghi capelli biondi incorniciavano un volto estremamente pallido e ossuto. Anche le mani e il resto del corpo era completamente scarno.
-"Chi sei?" Chiese Karen, mentre indietreggiava per il terrore.
Quella che aveva davanti non era una persona, forse un tempo lo era stata, ma adesso... Adesso cos'era?
Sbatté la propria schiena al muro, non poteva più scappare da nessuna parte. Solo in quel momento notò che, il mezzo al suo petto, era conficcato un coltello e i suoi vestiti, larghi e sgualciti, erano sporchi con qualcosa di molto scuro: era sangue incrostato.
-"Tu mi conosci, ma non ti ricordi chi sono..." Iniziò ad avvicinarsi alla ragazza "Chi sono io?"
Karen si svegliò di soprassalto confusa e stordita. Era stesa sul suo letto, nella sua stanza. Quindi, quello era stato solo... Un incubo? Tirò un sospiro di sollievo: le era sembrato così reale.
Solo in quel momento realizzò che, l'aspetto dell'essere che aveva visto, somigliava a quello della compagna di nome Annie che aveva visto nelle foto.
Qualcuno bussò alla porta, la ragazza balzò in piedi per lo spavento, mai poi tornò a sedersi sul bordo del letto, costringendosi ad incamerare quanta più aria possibile nei polmoni e calmarsi.
-"Avanti." Dalla porta entrò il padre di Karen.
-"Tutto ok? Ti abbiamo sentita gridare."
Annuì, poco convinta. L'uomo stava per parlare di nuovo, quando la ragazza lo interruppe.
-"Papà, com'è morta quella Annie?" Il padre rimase sorpreso dalla domanda della figlia. Con difficoltà, cercò le parole giuste.
-"Ecco, è stata pugnalata al petto, la lama ha penetrato subito il cuore della tua amica ed è morta sul colpo... Dicono che non abbia sofferto." Karen sentì il sangue gelarle nelle vene: aveva scoperto i dettagli della morte di Annie solo in quel momento, possibile che fosse solo una coincidenza?
O c'era dell'altro?
-"Comunque tua madre e io pensiamo che questa tua perdita di memoria sia davvero grave... In realtà lo pensa anche il tuo professore di geografia. Ci ha chiamati l'altro giorno, sai? Abbiamo conosciuto il signor McCoy ed è molto preoccupato per la tua salute..."
Karen, in condizioni normali, si sarebbe sorpresa dell'accaduto e avrebbe iniziato ad agitarsi: insomma, il suo professore, per il quale aveva una cotta bella grossa, aveva chiamato i suoi genitori?
Però la sua mente era occupata da ben altro.
-"Abbiamo deciso di portarti da uno psichiatra." Karen non poté fare a meno di pensare al dottor Mears: anche lui lavorava in quell'ambito e guarda un po' com'era andata a finire.
-"Quando?" Chiese con voce distratta, come se fosse appena riemersa da una lunga serie di riflessioni.
-"Tra poco. Vai a prepararti." Detto questo, l'uomo uscì dalla stanza. La ragazza andò a lavarsi e, sotto il getto caldo della doccia, ritornò a riflettere: da quanti giorni non usciva se non per andare a scuola?
Troppi.
Non era neanche andata a studiare geografia dal professore. Cosa avrebbe fatto dal psichiatra? Non ne aveva la più pallida idea.
***
Appena entrata nello studio del dottore, Karen si soffermò molto tempo a osservare lo studio: lo stile dei mobili era moderno e prevaleva il colore bianco; su un lato c'era un armadio dalle ante in vetro e dentro la ragazza poteva notare dei libri di medicina messi in modo disordinato. Sulle pareti c'erano dei quadri con soggetti astratti e linee distorte e confuse. Le venne in mente lo studio del professor McCoy: quello in cui si trovava era tutto il contrario.
-"Buongiorno signorina Stravinskij, sono la dottoressa Talbott."
-"Salve, dottoressa." Rispose Karen. Davanti a lei c'era una donna sulla trentina, forse qualche anno in meno. I capelli rossi erano raccolti in una coda bassa, dietro un paio di occhiali si nascondevano degli incantevoli occhi blu. Non poteva negare che era una bella donna, però quel volto non le era nuovo: sapeva di averlo già visto da qualche parte, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva collegarlo da nessuna parte.
Seline.
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