18 - Scappare
Iris non riusciva a smettere di contorcersi le mani mentre, affianco a Victoria, seguiva ser Joshua tra dei corridoi che non aveva ancora avuto il piacere di esplorare.
«Ci saranno tutti?» sussurrò, timorosa.
Erano appena arrivati all'ala sinistra della reggia, verso cui lei non si era mai spinta. Era però troppo in ansia per godersi la vista di quei nuovi ambienti.
Victoria la guardò di sbieco. «Da quanto mi hanno detto, sì» le rispose, sussurrando allo stesso modo. Non per timore, però. Più per mantenere la loro conversazione privata. La sua espressione era tranquilla. «Ogni domenica pomeriggio, la famiglia reale si ritrova insieme all'ora del tè» aggiunse, riportando lo sguardo in avanti. «Quindi sì, dovrebbero esserci tutti.»
Iris non le rispose.
L'idea che, tra pochi minuti, si sarebbe seduta a un tavolo con i reali Hudson la stava agitando fino a farle tremare il corpo e a rendere i suoi passi incerti.
Si era svegliata ansiosa. Aveva passato la sua mattinata – tarda, dato che anche quel giorno aveva trovato le forze di aprire gli occhi ben oltre un orario consono – cambiandosi in continuazione d'abito, camminando avanti e indietro per la sua stanza, immaginando tutte le cose che avrebbero potuto trasformare quell'incontro in un disastro.
A iniziare dalla consapevolezza che non si era mai seduta allo stesso tavolo di qualcuno di così importante, per continuare al pensiero di tutte le etichette che avrebbe dovuto seguire e che si era ritrovata a seguire veramente poche volte nella sua vita, per finire al non avere assolutamente la minima idea di cosa avrebbe dovuto parlare.
Per sua fortuna, Victoria l'aveva raggiunta nella sua stanza poco dopo pranzo, e aveva passato le ore che le separavano da quel tè con lei. Aveva dovuto sapere della sua agitazione, ed era andata per non farla cadere nella spirale della propria inadeguatezza.
Aveva funzionato, Iris si era calmata.
Almeno fino a quando ser Joshua aveva bussato alla porta per avvisarle che era arrivato il momento di raggiungere la sala del tè.
L'ansia era tornata a sommergerla, aumentando a ogni passo fino a lasciarla senza respiro.
«Iris» la richiamò Victoria, dolce. Allungò una mano verso le sue per stringergliene una, così da fermare la tortura a cui le stava sottoponendo. «Andrà tutto bene» aggiunse, convinta.
Iris prese a tormentarsi le labbra. «Vorrei ricordarti che disastro è stata la cena di ieri con le dame» ribatté, tesa. «Se ho miseramente fallito con delle dame, voglio vedere come potrò cavarmela con la famiglia reale.»
Le aveva raccontato tutto della sera precedente. Beh, non proprio tutto. Il nome di Noah non aveva ancora lasciato il porto sicuro delle sue labbra.
Avevano passato un'altra notte insieme, si erano separati ancora una volta alle prime luci dell'alba, tanto che quando si era svegliata quella mattina si era domandata se in realtà il tempo passato con quel ragazzo non fosse un sogno, una presenza che la sua mente aveva inventato per rassicurarla durante le notti.
Una chimera.
Ma le aveva raccontato tutto della cena. Di come si era sentita fuori posto, di come le domande delle sue commensali le avevano fatto desiderare fuggire, di come poi, appena finito il pasto, fosse effettivamente scappata, provando nient'altro che sollievo.
«Era ovvio che ti avrebbero sommerso di domande su di me, Iris» le ripeté Victoria, come le aveva detto quando, ore prima, aveva finito di raccontarle cosa era successo. «Ma i reali non lo faranno. E te lo prometto, sono davvero bravi a mettere a proprio agio le persone.»
Iris le credeva. Victoria era a suo agio.
Aveva lasciato Intelli con il terrore. Erano bastati tre giorni tra quelle mura per tranquillizzarla.
«Siamo arrivati, signorine.» Ser Joshua si fermò davanti a una porta dagli alti battenti e si voltò verso di loro. «Se siete pronte, entriamo.»
Victoria tornò a guardarla e Iris le rivolse la prima occhiata da quando avevano lasciato la sicurezza della sua camera. Annuì, così Victoria diede un'ultima stretta alla sua mano e poi la lasciò andare.
«Siamo pronte» disse, riportando gli occhi su ser Joshua.
Il cavaliere inclinò leggermente la testa e poi fece un cenno al paggio vicino alla porta, che Iris non aveva neanche notato.
Quest'ultimo aprì la porta quanto bastò a lui per entrare, e dopo qualche secondo Iris lo sentì annunciare il loro arrivo. Poi le ante si spalancarono e, fianco a fianco a Victoria, entrò nella sala.
Era molto più piccola di quello che Iris si era aspettata, ormai abituata agli immensi spazi della reggia, ma di quella bellezza comune a ogni altra stanza che aveva visto in quei giorni.
Quello degli Hudson era uno sfarzo che non ostentava molto: era una ricchezza pulita, lineare, tagliante.
Confortevole.
Il giro di perlustrazione, che i suoi occhi non riuscirono a non compiere, nemmeno in quel momento, durò però poco.
Iris portò lo sguardo sul principe Simon, quando lo percepì avvicinarsi a loro. Raccolse la mano di Victoria, si prodigò in un baciamano, e poi la lasciò andare per mettersi di fronte a lei, prodigandosi, questa volta, in un profondo inchino.
«È un piacere fare finalmente la vostra conoscenza, signorina Larson» le disse. «La signorina Paddington non smette di parlare di voi.»
Iris intravide il sorriso che tagliò il volto di Victoria.
Il principe si raddrizzò, e Iris fu colpita dai lineamenti del suo viso. Era la prima volta che lo vedeva così da vicino. L'unica volta che aveva avuto modo di posare gli occhi su di lui, era stata durante l'accoglienza di Victoria. Iris l'aveva osservato da una sostenuta distanza, più concentrata su Victoria, che su di lui.
Ora, faccia a faccia, Iris sentì un piacevole calore espandersi dentro di lei. I capelli biondi risplendevano, colpiti dalla luce morente del tramonto, e i suoi occhi nocciola erano colmi di familiarità.
Si perse, quindi, a scrutarlo per qualche momento di troppo, cercando di capire il motivo per cui il suo viso sembrasse così conosciuto. Per questo si rese conto in ritardo che i loro occhi si erano allacciati.
Iris fu sul punto di distogliere in fretta lo sguardo, ma Simon le sorrise incoraggiante e niente attraversò le sue iridi, se non gentilezza.
Poi le diede le spalle per voltarsi verso i suoi famigliari, seduti già al tavolo rotondo vicino alle finestre.
Iris però non portò subito lo sguardo verso di loro, ma gettò un'occhiata a Victoria, incredula.
Tutti avevano sempre una reazione davanti alle sue iridi. Tutti le notavano, e tutti lo mostravano. Non riuscivano a mascherare quell'attimo di sconcerto.
Il principe Simon, invece, non aveva battuto ciglio.
Victoria le stava sorridendo, incoraggiante quanto lo era stato il suo promesso sposo, e Iris capì che era stata lei a proteggerla.
Doveva averli avvisati. Doveva averli pregati di non fare commenti. Doveva averlo fatto per non farle vivere il solito, agonizzante, scompiglio.
Grazie, si ritrovò a mimare con le labbra.
Victoria fece un leggero cenno con il capo, e riprese a camminare per avvicinarsi al tavolo. Iris la seguì in fretta.
«Mio figlio ha ragione» disse la regina, quando Iris si fermò davanti a loro. «È un piacere conoscervi, signorina Larson.»
Iris si sforzò di ritrovare le parole. «Il piacere è mio, vostra maestà» ribatté, cercando di far apparire la sua voce il più possibile sicura. Si inchinò nella sua direzione, per poi fare la stessa cosa in direzione del re, che le stava sorridendo. «Vi ringrazio per l'invito, e per la vostra generosa ospitalità.»
«A costo di ripeterci...» le rispose re Mikael, la cui voce richiamò in lei ancora quel qualcosa di noto che non riusciva ad afferrare. «Il piacere è tutto nostro.»
Iris si raddrizzò, e poi fece vagare lo sguardo verso gli altri occupanti del tavolo. I suoi occhi si posarono sulla giovane principessa Odette, che la stava scrutando meravigliata.
Come quelli del principe – e il re e la regina, dopotutto – i suoi capelli biondi risplendevano, raccolti in una lunga treccia, e i suoi grandi occhi nocciola brillavano di affabilità.
Iris non poté fare a meno di sorridere, quando anche il volto di lei le apparve familiare. Ma questa volta riuscì a capire senza problemi chi le ricordasse.
Angela Paddington.
Il volto della principessa era più maturo, aveva comunque qualche anno in più, ma i lineamenti e i colori le ricordarono quelli della sorellina di Victoria.
Iris si chiese se anche la sua amica avesse notato quella somiglianza.
«Principessa.» Iris si inchinò anche al suo cospetto.
La principessa schiuse le labbra, ma non dalla sua bocca non uscì alcun suono. Forse a lei non era arrivata la voce al riguardo delle sue iridi, o forse non era brava a contenersi quanto i suoi genitori e suo fratello, ma a Iris non diede fastidio il suo sguardo.
Era quello innocente di una bambina, senza malizia né giudizio.
Poi Iris cercò l'ultimo componente della famiglia reale, l'unico che non aveva ancora avuto modo di vedere, neanche di sfuggita.
Fece vagare lo sguardo in giro per la sala, ma, oltre a della servitù che si stava affaccendando a preparare il cibo, non vide nessun altro.
Iris tornò a guardare il principe Simon, quando lo sentì schiarirsi la voce. «Mio fratello» esordì, come ad avere indovinato chi fosse la persona che lo sguardo di Iris stava cercando «è stato... trattenuto.» Gli occhi di lui si posarono su suo padre, per un solo breve istante. «Non siamo sicuri che ce la farà ad arrivare, purtroppo.»
Iris inarcò un sopracciglio. Che cosa poteva aver trattenuto il primogenito degli Hudson, di domenica pomeriggio?
Sicuramente non qualcosa di ufficiale, considerando che suo padre, il re, era seduto lì con loro. Se c'erano delle questioni urgenti a cui rispondere, non avrebbe dovuto essere con il figlio a occuparsene?
Iris scrutò il volto del re. Sulle sue labbra persisteva il sorriso con cui l'aveva accolta. Cordiale, sicuro, reale.
A Iris tornò in mente l'assenza del primogenito all'accoglienza, e poi le parole di Victoria, quando le aveva detto che non si era presentato neanche alla cena di benvenuto.
Era fuori per delle questioni diplomatiche.
Se prima Iris gli aveva dato il beneficio del dubbio, ora le sembrò evidente che fosse solo una scusa.
«Sedetevi, ragazze» le invitò la regina, indicando due delle tre sedie libere. «Il tè è già arrivato, sarebbe un peccato farlo raffreddare.»
Iris e Victoria si sedettero, e subito una ragazza si prodigò a riempire le tazze posizionate davanti a loro di liquido ambrato. Un'altra, posizionò diversi vassoi di pasticcini al centro del tavolo.
Iris non poté fare a meno di guardare l'unico posto rimasto inoccupato, quando una delle ragazze vi si avvicinò con l'intento di portare via la tazza per liberare un po' di spazio.
Simon però allungò una mano, scuotendo la testa. La ragazza fece un inchino e si allontanò. Gli occhi del principe corsero alla porta.
«Iris.» Iris rinsavì quando sentì la regina chiamare il suo nome. «Victoria ci ha parlato della vostra abilità nel cucire» le disse, quando i loro occhi si incontrarono. «Avete già avuto modo di vedere il nostro laboratorio di sartoria?»
Iris raccolse la tazza dal piattino. «No, vostra maestà.»
La regina annuì. «Chiederò a Maximillian di accompagnarvi, domani, se può farvi piacere.»
«Mi farebbe molto piacere» ribatté, spaesata da tutta quella cordialità e interesse.
La regina le sorrise estasiata. «Sentitevi libera di usarlo quando volete, cara.»
Iris voltò il capo verso Victoria, i cui occhi, ancora, erano su di lei.
Te l'avevo detto, no?, le sembrò che le stessero dicendo.
Iris nascose un sorriso dietro la tazza, quando la sollevò alle labbra per fare il primo sorso.
Sì, me l'avevi detto.
Tutta la sua agitazione sparì, come a non essere mai arrivata a scuoterla.
*
Noah aveva esagerato.
Lo sapeva.
La notte precedente, con Iris, si era spinto oltre il punto di non ritorno e, ora, non poteva più tornare indietro.
E nemmeno andare avanti.
Aveva voluto prendere più di quanto gli spettava. Non era riuscito a fermarsi solo a una notte di libertà, come avrebbe dovuto.
No, era tornato da lei.
Era tornato da lei con la scusa che le avrebbe detto la verità, così che il giorno dopo, al tè pomeridiano, non avrebbe dovuto affrontare la sua confusione e amarezza.
Ma non c'era riuscito. I suoi polmoni avevano incanalato così tanta aria pura, quando l'aveva rivista, che pensare di sussurrare la verità e tornare in apnea gli aveva fatto serrare le labbra.
E ora non ci sarebbe stato più niente a giustificare quanto aveva fatto.
Le aveva mentito. Per due notti intere, Noah aveva celato consapevolmente il suo status. Il suo cognome.
Ma non me stesso, pensò, come aveva pensato un milione di altre volte mentre il suo cavallo lo aveva guidato tra i boschi che circondavano la reggia e i suoi pensieri colpevoli avevano continuato a tormentarlo.
Era una calda rassicurazione. Una rassicurazione, però, che Iris non avrebbe provato.
Una volta che avrebbe scoperto chi fosse, Noah era convinto che non solo avrebbe cambiato atteggiamento nei suoi confronti, ma che non l'avrebbe neanche più guardato.
Era certo che Iris si sarebbe sentita presa in giro.
Avrebbe fatto alcuna differenza spiegarle che non era quello il motivo per cui era rimasto in silenzio? Che non era mai stata sua intenzione, ingannarla? Ma che al contrario, era stata l'unica persona a non ingannare neanche per un istante?
Noah era anche consapevole che più avrebbe tenuto quel segreto, meno possibilità c'erano che Iris sarebbe stata disponibile ad ascoltare le sue giustificazioni.
Lo sapeva che era arrivato il momento, se voleva anche solo sperare di avere una possibilità di sistemare le cose.
Eppure non aveva trovato il coraggio di affrontarla, quel pomeriggio. Sapeva che non fosse giusto farglielo scoprire in quel modo.
Così era scappato dalla reggia poco prima dell'ora del tè.
E non era tornato fino al completo calare del sole.
Noah arrivò al cortile interno della reggia, dirigendosi a passo sicuro verso la porticina che usava sempre per intrufolarsi dentro e fuori dalla propria casa.
Era un magazzino, una delle tante dispense della loro cucina, che rimaneva aperta tutto il giorno per permettere ai rifornitori facile accesso.
Sgusciò all'interno e chiuse la porta dietro di sé. L'oscurità lo inghiottì, così quando sentì una voce richiamarlo, Noah sobbalzò, realmente colto di sorpresa.
Si voltò verso l'altra porta della dispensa, quella che si apriva sul corridoio del pianterreno. Lì, poggiato allo stipite, riconobbe Folksir.
«Per la divinità celeste» mormorò, con il fiato corto. Si portò, più per un gesto melodrammatico che per reale necessità, una mano al petto. «Hai rischiato di farmi venire un infarto, vecchio mio.»
Lo sguardo di Folksir rimase impassibile. «Inutile anche solo chiederti dove sei stato» disse, atono quanto i suoi occhi, che scorsero sul suo corpo per scrutare il suo abbigliamento.
Noah aggrottò la fronte. «Mi stavi aspettando? Da quanto sei lì?» domandò, per poi rendersi conto dove fosse lì. «Come facevi a sapere che sarei passato qui?» aggiunse, stupito.
Folksir slacciò le braccia dal petto. «Credi davvero che, dopo tutti questi anni, io non sappia quali sono i tuoi passaggi segreti?»
Noah strabuzzò gli occhi, per poi sorridere, volutamente leggero. «È proprio vero che non ti si può nascondere niente, vecchio mio!»
Gli occhi di Folksir non accennarono nessuna ironia. «Seguimi. I tuoi genitori ti stanno aspettando.»
Gli diede le spalle e si incamminò, senza controllare che Noah si mettesse davvero in moto per seguirlo. Non ce n'era bisogno. Noah, prendendo prima solo un grosso respiro, lo fece.
Il corridoio era animato. Era quello che portava alle cucine, dopotutto, e lui era proprio rientrato all'ora di cena.
«Dove sono?» si azzardò a domandare, aumentando il passo per stare dietro a quello veloce di Folksir.
«A cena.»
Noah annuì, anche se Folksir non poteva vederlo. La sala era vicina. Non sarebbe stata una lunga camminata della vergogna.
«Folksir...»
«Risparmia il fiato» lo interruppe lui. «È ai tuoi genitori che devi delle spiegazioni, non a me.»
Non ho spiegazioni, pensò. O almeno, non ho spiegazioni che posso dare ad alta voce.
Noah sospirò, e si chiuse nel silenzio per i pochi metri che ancora lo separavano dalla sfuriata di suo padre.
Noah sapeva di avere esagerato.
Non solo con Iris, ma anche con la sua famiglia.
Aveva promesso a Simon che ci sarebbe stato, e invece era sparito senza dire una parola a nessuno.
Era stato più forte di lui. Non ce l'aveva fatta.
Folksir si fermò davanti alla sala da pranzo. Neanche gli diede il tempo di raggiungerlo, che aprì la porta e si scostò per farlo passare.
Sconfitto, lo fece.
La porta si richiuse dietro di lui. Noah non si voltò per vedere se Folksir l'avesse seguito all'interno o se ne fosse andato. I suoi occhi erano già incatenati a quelli di suo padre.
«Dove sei...» iniziò, senza neanche concedergli il saluto. Ma si fermò, senza bisogno di porre la domanda. Come Folksir, gli bastò vedere i suoi vestiti per capire dove si fosse andato a nascondere. «Hai qualcosa da dire?» gli domandò allora.
Il tono era controllato, ma freddo.
Noah deglutì, e distolse lo sguardo da suo padre per scrutare il tavolo. Sua madre lo stava guardando, preoccupata. Simon lo stava guardando, amareggiato. Odette lo stava guardando, curiosa.
«La signorina Paddington?» si ritrovò a chiedere, quando si rese conto che non fosse presente.
Ma certo, pensò poi. Folksir non l'avrebbe mai condotto lì, se Victoria fosse stata seduta al tavolo con loro.
Simon inarcò un sopracciglio. «È con la sua dama.»
Noah quasi si strozzò con la saliva che continuava a mandare giù. «Stanno venendo qui?» domandò, a mezza voce.
Le avevano esteso l'invito per la cena? Sarebbe stato sorpreso da lei, lì, in quel momento? Aveva davvero causato tutto quel malcontento per niente?
Noah gettò un'occhiata istintiva alle proprie spalle, come aspettandosi di vedere la porta aprirsi per decretare la sua sconfitta. Ma tutto quello che incrociò furono gli occhi grigi e inespressivi di Folksir.
«No» gli rispose, dopo un attimo di esitazione, Simon, la voce incerta di chi non comprende la domanda. «Mangeranno da sole, questa sera. Perché?»
Noah sentì un'ondata di sollievo pervaderlo e riportò lo sguardo in avanti. Scosse la testa.
«Noah» lo richiamò suo padre, spazientito. «Hai qualcosa da dire?» ripeté la domanda, come se fosse importante sentire la risposta per decidere cosa dirgli.
Noah riportò lo sguardo su suo padre. «Mi dispiace. Io...» si interruppe, incapace di pensare a un modo per completare la frase.
Cosa avrebbe potuto dire? Che si era perso? Che aveva perso la cognizione del tempo? Che era successo qualcosa al suo cavallo?
Ma erano tutte bugie ed era inutile sprecare fiato per dar loro voce. La sua famiglia lo sapeva che non si era presentato perché non voleva presentarsi. Non c'era modo di aggirare quella verità.
«No» aggiunse, rizzando il capo. «Non ho niente da dire. Mi dispiace.»
Gli occhi di suo padre fiammeggiarono. «Pensavo ci fossimo chiariti, Noah.» Sillabò la frase parola per parola, scandendo ogni lettera.
La mente di Noah volò alla mattina precedente, quando era andato nella camera dei suoi genitori per scusarsi, prima di raggiungere Simon e Victoria a colazione.
Suo padre gli aveva ovviamente fatto una ramanzina, la voce grossa ma stabile, che era finita con la domanda: Ci siamo capiti, Noah?
E Noah aveva ovviamente risposto: Sì, padre, ci siamo capiti.
Aveva davvero capito. L'aveva sempre fatto.
Ma...
«Eppure, poco più di ventiquattro ore dopo, rieccoci di nuovo qui» continuò, alzandosi in piedi, le mani posate sul tavolo. «Perché?»
Noah abbassò lo sguardo e serrò le labbra.
Come posso dirtelo il perché, padre, quando non lo so nemmeno io?
«Volevo solo andare a cavallo» mormorò tra i denti. «Ed era così una bella giornata. Non mi pare di avere commesso un crimine.»
«Il tuo volere non...» urlò suo padre, interrompendosi però senza completare la frase. «Sei il primogenito, Noah» disse, recuperando il controllo. Noah chiuse gli occhi nel sentire la solita frase che giustificava da tutta la sua vita ogni sua limitazione. «Hai dei doveri da rispettare, e il tuo dovere, oggi, era stare con la tua famiglia!»
«Mikael» intervenne sua madre, la voce tesa ma calma.
Noah fece saettare gli occhi su di lei. Aveva posato una mano sul braccio di suo marito. Si guardarono per un breve istante che bastò entrambi a capirsi.
Suo padre si risedette, le labbra serrate.
«Eravamo preoccupati, Noah» gli spiegò sua madre. «Sei sparito senza dire niente a nessuno, e ci hai lasciati... scoperti. Eravamo convinti che saresti arrivato, non sapevamo cosa dire.»
Noah abbassò di nuovo gli occhi a terra. «Mi dispiace.»
E lo intendeva davvero. Gli dispiaceva più di quanto poteva esprimere, spiegare.
Calò il silenzio, Noah non ebbe il coraggio di guardare nessuno. Nemmeno i suoi fratelli.
«Hai fame?»
La domanda di suo padre non lo colse di sorpresa, non veramente. Non riusciva mai a restare arrabbiato troppo a lungo. E Noah sapeva che aveva sentito la sincerità nel suo tono di scuse.
Suo padre gli stava già offrendo un rametto d'ulivo, ma Noah non era ancora pronto ad accettarlo. Era troppo stanco per farlo.
L'ansia, la cavalcata, la rabbia, le notti insonni. Voleva solo andare a dormire.
Rialzò la testa, la scosse e si indicò il corpo. «Preferirei andare a lavarmi.»
Suo padre lo guardò. Nei suoi occhi non vi era più rabbia. Solo stanchezza. «Vai» gli concesse, annuendo.
Noah annuì a sua volta. «Buona notte.»
Voltò loro le spalle, senza incrociare lo sguardo di nessun altro, se non quello di Folksir. Noah, senza sapere perché, si sentì a disagio ad andargli incontro.
«Noah.» Suo padre lo richiamò proprio quando raggiunse la porta. «Nessuna deviazione, non stasera.»
Noah abbassò la maniglia. «Nessuna deviazione.»
Uscì, certo delle proprie parole.
Si sarebbe fatto un bagno e sarebbe scomparso sotto le coperte.
Non sarebbe salito sul tetto alla ricerca di Iris.
Non l'avrebbe più fatto.
Non avrebbe avuto senso farlo.
Sei il primogenito, Noah. Hai dei doveri da rispettare.
Una sentenza che gli era stata data ancora prima della sua nascita e che nessuno avrebbe mai revocato.
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