17 - Respiro
«Stai cercando di portare nostra sorella sulla cattiva strada?»
Noah alzò lo sguardo per rivolgere a Simon, appena entrato nella sala, il migliore dei suoi sorrisi accattivanti. «È importante apprendere le regole del gioco. È un'abilità che può sempre tornare utile.»
Simon si lasciò cadere sulla poltrona accanto a quella di Odette, senza lasciare il suo sguardo. «Ah, sì?» gli chiese, con una punta di sarcasmo. «E come, esattamente, sapere giocare a carte potrebbe tornare utile nella vita?»
Noah riportò lo sguardo al tavolino tra lui e Odette, dove vi erano sistemate, disordinatamente, molte carte da gioco. «Nessuno lo dice, ma le guerre non si vincono sul campo di battaglia. La maggior parte delle vittorie si decidono a porte chiuse, nei palazzi, con una mano a carte.»
Simon fece un verso di scherno. «Devo aver dormito durante la lezione in cui il maestro Mirai ci svelava questo strabiliante segreto. Fortuna che sei tu, l'erede.»
Noah sogghignò e poi alzò lo sguardo su sua sorella, il cui viso concentrato gli fece tenerezza. Si stava davvero impegnando per capire le regole del gioco che lui le aveva iniziato a spiegare per farla svagare un po'.
Era tarda sera, e quando lui, come d'abitudine, si era affacciato mezz'ora prima nella sala dove tutta la sua famiglia era solita passare un po' di tempo insieme dopo cena, vi aveva trovato solo Odette, china su un grosso libro, annoiata e frustrata.
Era una sala comune riservata a loro, sul piano reale, vicino alle loro camere. Quando erano stati dei bambini, i loro genitori si impegnavano ogni sera per passare con loro del tempo di qualità lì dentro. Ogni sera, si ritagliavano dello spazio per stare da soli con i loro figli, come una famiglia comune, senza servitù, diplomatici o consiglieri intorno.
A mano a mano che erano cresciuti, quella abitudine era diventata sempre meno tradizione. Soprattutto da parte di loro padre.
Loro tre, però, provavano sempre a onorare l'usanza, anche solo per un'oretta prima di ritirarsi nelle proprie stanze.
Odette posizionò due carte sul tavolo, alzando intanto lo sguardo titubante su di lui. «Così vinco, vero?» gli domandò.
Noah sorrise. «Una mossa interessante» le rispose, con voce diplomatica. Iniziò a calare, con lentezza, le ultime tre carte che aveva in mano. «Ma no, mia dolce sorella. Mi hai appena servito la vittoria» concluse, trasformando il sorriso in un ghigno.
Odette riportò gli occhi, spalancati ora di sorpresa, sulle carte. «Perché? Gli ori sono più forti delle spade!» esclamò, piccata.
Noah scosse la testa e incominciò a raccogliere le carte dal tavolo. «Davvero, Odette?» le chiese, retoricamente. «Valgono di più, ma come può l'oro battere una spada?»
Odette lo guardò furibonda e incrociò le braccia al petto. «Questo non lo avevi specificato.»
«Ops» ribatté insolente, picchiettando il mazzo di carte sul tavolo per livellarlo. «Visto?» si rivolse poi a Simon, che lo stava guardando esasperato. «Imparare a giocare affina la mente, la deduzione, i riflessi, mio caro fratello. Puoi ancora dire che è inutile?»
Simon roteò gli occhi. «E perché stai usando Odette come esercizio? Filippo si è finalmente stancato di te?»
Noah iniziò a mischiare il mazzo. «È sabato» gli rispose, stringendosi nelle spalle. «Il fine settimana ha sempre meglio da fare, che passare il tempo con me.»
Ha la libertà di fare quello che vuole, di andare dove vuole, di stare con chi vuole.
Noah gettò uno sguardo veloce all'orologio. Erano ancora le nove di sera. Era presto per salire sul tetto? Lei ci sarebbe davvero stata?
Ma vedrai, la prossima volta mi troverai più preparato.
Dopo che quella frase gli era scivolata inconsapevolmente sulle labbra, Noah si era maledetto. Si era chiesto come potesse pensare ci potesse essere una prossima volta, dato che Iris avrebbe capito chi lui fosse veramente prima del nuovo tramonto.
Quello, però, non era accaduto. Non ancora.
E lei, quando le aveva detto che aveva intenzione di difendere il proprio titolo, era sembrata interessata alla proposta, implicita, di rivedersi lì.
Forse quella notte non era destinata a rimanere solitaria come aveva pensato con il sorgere del sole.
Ma sarebbe stato giusto incontrarla un'altra volta sotto mentite spoglie? Sarebbe stato giusto fingersi, di nuovo, chi non era?
Ma io ieri non ho finto niente.
«Odette, hai finito la tua lettura?»
Noah si sorprese di sentire la voce di sua madre. Non si era accorto del suo arrivo.
La cercò con lo sguardo, trovandola già nelle vicinanze delle loro poltrone. Non solo, dietro di lei si stava avvicinando anche suo padre.
Pensò di non doversene sentire sorpreso. Tra tutte le sere della settimana, era proprio quella del sabato che i loro genitori riuscivano a far loro compagnia come ai vecchi tempi.
No, non proprio come ai vecchi tempi. Il loro modo di stare insieme era cambiato negli anni: meno giochi, più parole; meno risate, più disciplina.
«È noiosa» rispose Odette, mettendo il broncio.
Noah non aveva letto il titolo del libro su cui aveva trovato china la testa di sua sorella, ma l'aveva riconosciuto comunque. L'aveva letto anche lui, più volte.
I rapporti tra i regni.
A Odette doveva essere stato assegnato, almeno per quei giorni, il capitolo che parlava di loro e dei Monvisi, per l'arrivo a corte di Victoria Paddington.
Sua madre le sorrise, dolce. «Oh, lo so bene, Odette. Ma devi finirla lo stesso. Ti va se ti aiuto?»
Odette sospirò, arresa. «Va bene.»
Riluttante, si alzò dalla poltrona e tornò verso il tavolo su cui aveva lasciato il libro. Loro madre rivolse un sorriso a lui e a Simon e le andò dietro, prendendo posto accanto a lei.
Loro padre, invece, prese posto proprio sulla poltrona che Odette aveva appena lasciato libera.
Noah, con ancora il mazzo di carte in mano come dimenticato, scrutò suo padre mentre cercava una posizione più comoda e si impegnava a scrostare un po' della maschera che ogni mattina doveva incollarsi sul viso e che era libero di togliersi solo una volta tornato su quel piano.
Noah però sapeva che non lo faceva mai del tutto: rimanevano sempre dei pezzi sul suo volto, fissati talmente bene, da così tanti anni, che era impossibile levarli senza spellare anche la pelle al di sotto.
«Simon» disse, dopo aver riaperto gli occhi, ora molto più suoi. «Folksir mi ha raccontato che l'incontro di stamattina, con la signorina Paddington, è andato molto bene.»
Simon si affrettò ad annuire, assumendo una postura più composta. «Abbiamo fatto colazione e poi le ho mostrato i giardini.»
Noah sapeva che non avevano ancora avuto modo di parlarne: loro padre era arrivato all'ultimo alla messa delle diciassette, ed era scappato appena era finita per un impegno che l'aveva occupato per tutto il giorno. Quando si erano visti per cena, la presenza di Victoria non aveva dato modo di porre domande.
Ma suo padre, per tranquillizzarsi, doveva averne subito parlato con Folksir. «Bene» ribatté, spostando lo sguardo su di lui. «E mi ha detto che anche il tuo comportamento è stato eccellente, proprio come lo è stato a cena.»
Noah si umettò le labbra. «Non mi sarei mai permesso di comportarmi diversamente.»
Ma dallo sguardo di sollievo di suo padre, Noah capì che non era stato così ovvio, per i suoi famigliari. Dopotutto, aveva scelto di non presentarsi al suo arrivo.
«Mi piace, Victoria. È gentile» intervenne Odette, che non doveva ancora essere riuscita a focalizzare la sua attenzione sulla lettura. «Quando si sposeranno?» aggiunse poi, curiosa.
Noah vide le guance di Simon andare in fiamme. Noah ghignò nella sua direzione.
«Ancora non lo sappiamo» rispose sua madre, gettando un'occhiata a suo marito. «La signorina Paddington si deve ambientare, lei e tuo fratello devono conoscersi meglio e lei deve imparare prima molte cose sul nostro regno» spiegò, tamburellando pensierosa un dito sulle pagine del libro.
«Ma si sposeranno prima di Noah e Livia, giusto?»
La domanda di Odette fu semplice, ingenua, ma gettò sulla stanza un'ombra di disagio. Liberare il nome della sua promessa sposa e, in generale, parlare delle sue nozze programmate, non era mai qualcosa da fare alla leggera.
Ma per Odette non era ancora chiaro: avendo la stessa età, lei e Livia erano cresciute insieme durante tutte quelle estati che Livia, come d'accordi, aveva passato alla loro corte. Per tre mesi l'anno, dal compimento del suo sesto anno d'età, la principessa di Rocheforte e futura regina di Huron abitava quelle mura, per imparare a conoscerle quanto le mura della propria casa, per imparare a conoscere il suo futuro marito e le persone che un giorno avrebbero governato insieme.
Per prepararsi al meglio al suo futuro.
Per tutto il tempo che avevano passato insieme, Odette era davvero legata a lei, si volevano un sincero bene, ed era quindi eccitata al pensiero che un giorno avrebbe sposato suo fratello e si sarebbe stabilita definitivamente lì.
Lui, d'altro canto, non aveva mai provato la sua stessa eccitazione.
Noah sentì lo sguardo di tutti, Simon compreso, sul suo volto. Non si azzardò a incontrarne nessuno. Puntò i suoi occhi, lividi, sul mazzo di carte, che riprese a mischiare con indifferenza.
«Sì.» L'affermazione di suo padre fu sicura, ma Noah vi percepì comunque timore. «Manca ancora un anno al compimento dei sedici anni di Livia e, quindi, all'età in cui suo fratello ha deciso che potrà prendere marito» spiegò.
Un anno e tre mesi, pensò Noah. Ma ehi, chi li conta?
«La signorina Paddington e Simon si sposeranno prima» confermò sua madre. «La prossima estate, probabilmente.»
Odette sembrò davvero contenta di questa informazione. «Oh, un matrimonio estivo?» domandò, sognante.
Noah rialzò, con cautela, lo sguardo per lanciare un'occhiata a suo fratello. Ma lui aveva ancora il proprio fisso nella sua direzione, nessun più imbarazzo a dipingergli di rosso il viso.
Lo stava scrutando senza vederlo davvero, la mente persa a chissà quale domanda.
«Avanti, Odette, finiamo il capitolo. Si sta facendo tardi.»
Odette sbuffò. «E va bene.»
Calò il silenzio, o almeno calò tra gli uomini seduti in poltrona. Di sottofondo, rimase ad aleggiare la voce limpida di Odette mentre illustrava fatti su Masteria.
Noah guardò ancora una volta l'orologio. Ventuno e trenta.
Ancora troppo presto?
Se prima aveva provato titubanza al pensiero di tornare lì, sul tetto, nella speranza di poter passare un'altra serata con Iris, adesso l'incertezza era svanita.
Aveva bisogno di respirare a pieni polmoni.
«A cosa stavate giocando?» La domanda di suo padre lo colse di sorpresa. Riportò gli occhi su di lui, ma quelli di suo padre erano fissi alle sue mani strette intorno alle carte.
Noah si schiarì la voce. «Ammàzzino.»
«Oh, ricordo ancora le partite che ho giocato contro re Enrik Havelar» mormorò suo padre, la voce persa in dei ricordi che gli modellarono un caldo sorriso sul viso. «Abbiamo rischiato di far scoppiare una guerra, per una partita ambigua che non ci ha fatto trovare in accordo su chi fosse il vincitore.»
Noah non riuscì a non scoppiare a ridere, e guardò Simon, che era tornato presente, l'espressione esasperata, sapendo già quello che stava per dirgli, conoscendo già il tono strafottente con cui glielo avrebbe detto. «Vedi, Simon? Ho o non ho sempre ragione? Ricordati di questo momento, la prossima volta che ti verrà il malsano istinto di dubitare ancora delle mie parole.»
Simon si limitò a scuotere la testa.
Suo padre si sistemò meglio in poltrona, sfregandosi le mani sulle cosce. «Avanti, Noah. Dai le carte.»
Noah gli sorrise, complice, affettuoso, reale. «Agli ordini, papà.»
Un altro pezzo della maschera di re Mikael Hudson cadde a terra.
*
Al loro rientro da Huron, quando Iris aveva parlato della sua intenzione di farsi portare da mangiare in camera anche quella sera, Victoria l'aveva spinta a partecipare alla cena con le altre dame.
Le aveva detto, con un tono materno, che non sarebbe stato educato evitare ancora una volta la loro compagnia. Aveva poi provato a rassicurarla, dicendole che le avrebbe fatto bene conoscere qualcuno di nuovo. Doveva fare il primo passo, se voleva combattere la sua timidezza, e aveva concluso chiedendole poi se la sua intenzione fosse quella di passare il resto della sua vita chiusa in una camera.
Iris aveva evitato di rispondere che non sapeva per nulla quale fosse la sua intenzione, che era proprio una delle domande che non lasciavano riposare i suoi pensieri dal momento in cui erano arrivate lì. Così come non le aveva detto che il motivo per cui avrebbe preferito restarsene in camera non era tanto dovuto alla timidezza, quanto più alla certezza che tutte l'avrebbero guardata come una forestiera senza nessuna caratteristica sociale, e personale, degna di nota.
L'aveva però accontentata, sapendo che aveva ragione: la sera precedente aveva avuto come scusa la stanchezza, una scusa che si era protratta anche per il pranzo che aveva saltato quando non si era svegliata in tempo.
Non andare l'avrebbe marchiata solo come scortese.
Così Iris, alle sette in punto, era arrivata alla sala comune dove la maggior parte delle dame si riuniva per i pasti. L'aveva trovata abitata da una decina di donne, dalla più svariata età.
Appena aveva fatto un passo incerto all'interno, tutte si erano voltate a guardarla, interrompendo il loro chiacchiericcio allegro. L'avevano squadrata curiose, avevano studiato le sue iridi, così Iris aveva abbassato lo sguardo, colma di imbarazzo, e si era presentata. Appena aveva fatto il nome di Victoria, loro si erano apprestate a presentare sé stesse e il ricco nome a cui facevano compagnia.
E poi, appena si erano sedute a tavola per mangiare, erano partite le domande.
Iris aveva sperato che nessuno le avrebbe prestato attenzione, aveva creduto di poter passare inosservata, che l'avrebbero dimenticata una volta che compreso che non fosse una persona di chissà che rilievo.
Quanto era stata ingenua a pensarlo.
Certo che era interessante, ai loro occhi. La dama di compagnia di Victoria Paddington, futura moglie del loro caro principe Simon Hudson.
Iris ci aveva messo poco a rendersi conto che le domande con cui l'avevano sommersa non erano state tanto indirizzate alla sua conoscenza, ma che erano state poste con la speranza di cogliere qualche particolare succulente riguardo Victoria.
Iris aveva risposto a monosillabi, gli occhi sempre bassi sul suo piatto, sforzandosi di sorridere educatamente.
Non aveva detto, però, niente di succulente. Anche perché non c'era niente di succulente riguardo Victoria.
Questo però non aveva scoraggiato le altre ragazze.
Iris non si era sentita mai più sollevata quando, un'ora e mezza dopo, aveva potuto scappare da quella sala. Neanche quando era approdata sulla terraferma.
«Avrei preferito trovarmi ancora sulla nave reale in mezzo all'oceano, piuttosto che lì dentro» sbuffò ora, quando Noah acquietò la risata che l'aveva scosso quando aveva finito di raccontargli i motivi per cui fosse stata una terribile esperienza.
Noah.
Quando Iris si era allontanata dalla sala del pianterreno, ci aveva messo solo pochi minuti per rendersi conto che i suoi piedi non la stessero riportando in camera.
In men che non si dica, si era ritrovata al quarto piano della parte centrale della reggia, ai piedi dello scalone che portavano all'ultimo piano.
Non l'aveva salito subito. Aveva vagabondato nei dintorni per almeno un'ora, prima di decidersi a farlo. Era stata colta dall'ansia di essere vista dalla servitù, che ancora si aggirava affaccendata per i corridoi della reggia, e di dover rispondere a domande che non avrebbe saputo come rispondere.
Era stata trattenuta dalla paura, più totalizzante, di non trovarlo lì.
E quando alla dieci di sera era uscita sul tetto, riuscendo in qualche modo a passare inosservata agli occhi ancora svegli di chi abitava il quinto piano, non l'aveva fatto.
Noah non c'era stato, e Iris era rimasta lì in attesa, chiedendosi se fosse il caso di aspettarlo, chiedendosi quanto avrebbe dovuto aspettarlo, chiedendosi se lui si sarebbe davvero presentato.
Ma alla fine lei non era riuscita ad andare via, e alla fine lui era arrivato davvero, e ancora una volta era riuscito a sorprenderla.
Concentrata a guardare il panorama, come la sera precedente, Iris non si era accorta del suo arrivo, non si era accorta che lui l'avesse vista prima che lei vedesse lui.
Si era resa conto del suo arrivo solo quando aveva sentito qualcuno poggiarle una coperta calda di lana sulle spalle, la stessa coperta che, la sera prima, era andato a recuperare per lei.
Iris si era voltata a guardarlo, meravigliata, e lui le aveva sorriso con un sorriso che le aveva stretto il cuore.
E poi si erano seduti, lui aveva tirato fuori le carte e aveva proclamato l'inizio della sua rivincita.
Ma, si rese conto adesso Iris, nessuno dei due, quella sera, si stava davvero interessando alla partita.
«Non mi sembra così tremando trovarsi in mezzo all'oceano su una nave reale» le disse Noah, ancora l'ombra di un sorriso sulle labbra. «Insomma, non mi sembra un ottimo termine di paragone.»
Iris scosse la testa. «Odio l'oceano» ribatté, tetra. «Credimi, essere in balia delle acque per due settimane è stata un'esperienza tremenda.»
Noah la guardò con curiosità. Ma non la stessa curiosità calcolata, interessata, con cui l'avevano guardata per tutta la cena le dame. La sua era una curiosità genuina, gratuita. Interessata, sì, ma in tutt'altro modo. «Come mai odi l'oceano?» le domandò, pensieroso. «Voglio dire, mi sembra un sentimento molto forte per una persona che è cresciuta su un'isola.»
Iris abbassò lo sguardo sulle carte che stringeva in mano, studiandole davvero per la prima volta da quando Noah gliele aveva passate. Dal numero che ancora aveva, si rese conto che doveva essere il suo turno. Troppo infervorata dal racconto della sua serata, si era dimenticata di rispondere alla mossa di Noah.
«Nessun motivo in particolare» rispose, scrutando le carte che il ragazzo aveva buttato sul tavolo. «Non... non è mai stato il mio elemento» concluse, sperando di non suscitare altre domande.
Non voleva raccontargli della tragedia che l'aveva colpita a soli dieci giorni di vita, o dei suoi genitori biologici, o che non fosse davvero originaria del regno dei Monvisi.
Stavano passando una serata leggera, si stavano divertendo. Parlare di tutto quello non avrebbe fatto altro che rovinare i loro discorsi spensierati. E poi non ne voleva parlarne, non in quel momento. Non voleva perdersi nelle onde del passato, voleva farsi cullare da quelle del presente.
Noah, per fortuna, non indagò oltre. «Beh, sei sopravvissuta alla tua prima cena. D'ora in poi, è tutto in discesa.»
Iris arricciò le labbra. «Sinceramente, non ci tengo a ripetere l'esperienza» mormorò, mentre calava sul tavolo un asso di coppe e un re di spade.
Soddisfatta della sua mossa, portò veloce lo sguardo su Noah per vedere la sua reazione. Stava fissando le due nuove carte, in parte incredulo, in parte esasperato.
Rivincita, eh?, pensò compiaciuta.
«Mossa audace» borbottò, mordendosi il labbro inferiore, concentrato a pensare a una mossa di risposta.
Il sorriso appagato di Iris vacillò. Le sue guance si accaldarono, e poi andarono in fiamme quando, qualche secondo dopo, il ragazzo prese a umettarsi le labbra con fare inconsapevole.
Iris aveva visto molti ragazzi compiere quel gesto, eppure mai una volta aveva sentito le proprie budella attorcigliarsi nell'osservarli.
«Comunque, riguardo alle dame, non arrenderti» mormorò Noah, ancora concentrato a ragionare. «Non sono davvero tremende, è che sanno essere molto protettive. Se vuoi andare sul sicuro, ti consiglio di avvicinarti prima a Linette e Matilde, loro sono a posto» continuò, la voce lontana, come se non stesse davvero prestando attenzione alle parole che uscivano dalla sua bocca. «Anche Isabel, in realtà, anche se ha decisamente un carattere tutto suo» concluse, dopo una breve pausa.
Iris, concentrata ancora a guardare, ora, come le sue labbra si muovevano e si scontravano tra loro, ci mise più tempo del dovuto per comprendere ciò che Noah le aveva detto. Cosa significasse il suo consiglio.
Distolse, con fatica, gli occhi dalla sua bocca, che ora che si era silenziato aveva ripreso a torturare con i denti. Ricercò i suoi occhi, che erano però puntati alle carte che aveva in mano.
Il suo volto, così concentrato, così immerso, era... bellissimo. Aveva un viso semplice, pulito, forse non così oggettivamente bello da spiccare tra tutti in una stanza, ma neanche così insignificante da poter passare inosservato.
«Le conosci?» gli domandò, sorpresa.
Non si era aspettata che un ragazzo della servitù potesse conoscere le dame di compagnia, soprattutto non due delle tre che aveva nominato. Iris aveva capito chi erano Linette e Matilde: le dame della principessa Odette. Erano state le più giovani, insieme a lei, quella sera. Di Isabel, invece, non si ricordava. Forse non c'era stata.
Noah fece un distratto verso di assenso.
«Le conosci bene» specificò meglio quello che la sua domanda aveva significato. Non sapeva dire perché, ma c'era qualcosa in quell'informazione che la agitava. «Come mai?»
Noah sembrò riprendere conoscenza solo in quel momento. Sbatté un paio volte le palpebre, e tornò a posare gli occhi nei suoi. Vi vide smarrimento. «Oh» mormorò, e sul suo volto si accese una luce di imbarazzo. «Io...» Si schiarì la voce. «Sono le dame di... della principessa Odette. Si fanno riconoscere e... sono cresciuto, tra queste mura, e anche loro. Tra i bambini, qui, non c'è poi così tanta distinzione... sociale» le spiegò, con un tono così basso che Iris lo percepì a fatica. «Da bambini si è soliti giocare tutti insieme in giardino, durante i giorni di sole.»
Aveva distolto lo sguardo, mentre glielo diceva. Iris non riuscì a vedere cosa stesse vorticando nelle sue iridi, ma la sua postura era... c'era qualcosa di triste, nel modo in cui si curvato in sé stesso.
«Sei cresciuto qui, quindi?» gli chiese, ora interessata a lui.
Noah annuì, piano. «I miei genitori sono... sempre stati al servizio della corona.»
Fu tutto quello che si lasciò sfuggire, e questa volta Iris non insistette nel sapere cosa, specificatamente, facesse lì. Forse c'era un motivo dietro al suo non volerne parlare. Forse non poteva farlo.
Iris gli sorrise. «Sei come me, allora.» Con un po' di titubanza, Noah rialzò lo sguardo. La squadrò interrogativo. «Anche io sono cresciuta in una casa che non era mia... non davvero» specificò, pensando a tutto il tempo che aveva passato tra le stanze del maniero dei Paddington.
Iris non poteva dirlo con certezza, ma era convinta di aver vissuto più a casa della sua amica, che nella propria.
Noah le rimandò un debole sorriso, poi fece un cenno al tavolo, alla partita che Iris si continuava a dimenticare di star giocando. «Non ho niente con cui rispondere» le disse, depositando sul tavolo, scoperte, tutte le carte che aveva in mano. «La vittoria è di nuovo tua, Iris.»
Iris avrebbe voluto sorridere di nuovo compiaciuta, avrebbe voluto girare il dito nella piaga, avrebbe voluto esultare. Non riuscì a fare niente di tutto quello.
Perché il modo con cui disse il suo nome la infiammò. No, non il modo. Non l'aveva pronunciato in nessuna particolare maniera. Non diversamente da come in tanti, nel corso dei suoi diciassette anni di vita, l'avevano pronunciato.
Deglutì quando il pensiero che a infiammare le sue vene fu solo il fatto che l'avesse pronunciato, che si fosse posato sulle sue labbra umide.
Labbra su cui i suoi occhi caddero di nuovo.
Iris schiuse le proprie, lasciando uscire un sospiro, un alito di vita, un respiro incontrollato.
Tra loro si protrasse il silenzio, e Iris si chiese cosa dovesse star pensando Noah, mentre, era evidente, lo sguardo di lei era impegnato a calcare le sue labbra.
«Un'altra?» mormorò, alla fine, lui.
Iris pensò come potesse anche solo chiederglielo, dubitare che volesse restare ancora lì con lui. Non se ne voleva andare, non ancora, non fino a quando l'alba li avrebbe costretti a separarsi.
E se fingere di giocare a carte era la scusa che le serviva per rimanere seduta a quel tavolo, Iris avrebbe acconsentito ad altre cento partite.
«Certo, Noah.»
Le labbra di Noah, su cui ancora erano posati i suoi occhi, si schiusero.
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