9 - Esperimenti e strade chiuse

Alexander tastò le tasche del giacchetto che aveva abbandonato sul mio letto, mentre io mi sedevo sulla sedia della scrivania. Per un attimo pensai che fosse tutto una sciocchezza, anche dargli corda, ma cosa mi costava? Che sarebbe successo, mi sarebbero spuntate le ali con le piume nere? Sciocchezze.

«Ecco qua», annunciò di aver trovato un coltellino svizzero. Quando fece scattare la lama mi passarono per la mente diverse opzioni, e quelle più accreditate non formavano un bel quadretto (tipo "adesso ti taglio un dito, che tanto ti ricresce subito" oppure "sai che se te lo sfreghi tra i denti diventa più affilato?"). «Devi sapere che i Demoni hanno un rapporto particolare con il sangue», rispose ai miei occhi interrogativi.

Sbuffai. «Quelli sono i vampiri».

Con un angolo della bocca tirato su disse qualcosa sul fatto che le informazioni sul soprannaturale vanno prese sempre con le pinze, ma non gli stavo dando ascolto.

«Sai cosa? Ho cambiato idea», il secondo sbuffo seguì il primo e tentai nuovamente di chiamare mio padre senza risultati.

«Cosa ti costa?».

«Non so se essere più imbarazzata o...», fui interrotta da lui che disse: «È così difficile accettare la realtà?».

Lo fissai in cagnesco. «Realtà? I Demoni sono realtà?!».

«Vuoi farmi fare l'esperimento sì o no?». Senza attendere risposta avvicinò il la punta del coltellino all'indice sinistro, fino a farla affondare di qualche millimetro dentro per permettere ad una grossa goccia di sangue di fuoriuscire. «Finalmente un po' di silenzio», ridacchiò quando si accorse che io lo guardavo con gli occhi sgranati. Sì, avevo acconsentito, lo ammetto, ma non immaginavo lo avesse fatto davvero, quel pazzo. «Non ti viene voglia di assaggiarlo?».

«Mmm no».

«Sul serio?», il suo tono lo mostrò sorpreso: non se lo aspettava.

«Abbiamo finito? Prima torno a casa e meglio è».

«No, un'ultima cosa».

«Senti, io il patto l'ho rispettato. Ti ho lasciato fare, perdendo tempo, e questo dimostra ancora una volta l'assurdità delle balle che mi state rifilando. Ora voglio solo sdraiarmi sul mio letto prima di arrabbiarmi con i miei genitori».

«Aspetta».

«No», infilai la mano nella tasca e riesumai le chiavi della stanza. «Tienile tu, io chiamo un taxi». Mi sentivo delusa, una minuscola parte di me per un attimo aveva davvero sperato che fosse quella fosse la verità. Mi eccitava l'idea di essere diversa, di avere qualcosa che mi portasse a scoprire un lato sconosciuto della mia personalità. Che non mi rendesse la solita Victoria. E un'altra parte di me mi dava della sciocca anche solo per avergli dato corda.

«Dannazione». Si passò velocemente il dito sulle labbra e ingenuamente pensai che fosse per dare sollievo alla ferita con un po' di saliva. Invece, lo sfregò così tanto da sporcarsi le labbra di sangue. Fece un lungo passo fino a raggiungermi, appoggiarmi le mani sulle guance e tirare il mio viso contro al suo. Fu troppo rapido e inaspettato che lo lasciai fare, solo quando le mie labbra toccarono le sue mi riscossi. Lo spinsi via con tutta la forza che avevo e lui mi assecondò.

«Che. Diavolo. Fai», sibilai, passandomi il dorso della mano sulle labbra per togliere il sangue, che era così poco da rendere solo più intenso il colore della pelle.

«L'esperimento», scrollò le spalle e si sedette sul letto, fissandomi per capire la mia reazione.

In quell'istante capii. Mi avvicinai a lui mentre il sangue cominciava a ribollirmi. «L'esperimento sono io, per caso?!».

Mi lanciò un'occhiata divertita, peggiorando la situazione.

«Mi stai dicendo che non hai mai provato prima questa idiozia? E hai sfruttato questa dannatissima occasione?». Istintivamente, inumidii le labbra. Poco prima di sentire il sapore di ferro in bocca, i suoi occhi scintillarono vittoriosi. Lo aveva fatto apposta a farmi indispettire, così da distrarmi in attesa che sentissi il bisogno di passare la lingua dove aveva lasciato una minima traccia di sangue. «Cosa dovrebbe succedere ora? Eh? Mi spuntano le corna?», tentai di non lasciarmi sopraffare dalla rabbia, ma era difficile non alzare la voce vedendolo così tranquillo dopo avermi preso in giro ancora una volta.

«No», il suo tono era giulivo, gli occhi ancora fissi su di me come una cavia che aveva risposto bene ai test. «Ma quando ti arrabbi ti si gonfia una vena sulla tempia», picchettò sulla propria per sottolineare il concetto, come se fosse l'argomento centrale di quella discussione.

«Sai cosa? Va' al diavolo». Gli lanciai sgraziatamente le chiavi e uscii dalla stanza. Avevo bisogno di sbollire e il suo atteggiamento tranquillo stava peggiorando il mio umore. Arrivai alla fine del corridoio e tornai indietro, ripetendo quel percorso una dozzina di volte in maniera frettolosa. Cercavo di concentrarmi su un respiro profondo e regolare, ma la voglia di dargli un pugno in faccia sembrava avere la meglio.

Quando passai per l'ennesima volta di fronte alla porta della mia camera, la trovai aperta, con Alexander appoggiato allo stipite della porta che ridacchiava. «Non dirmi che te la sei presa perché quello era il tuo primo bacio». Non risposi, tirando dritto e continuando il mio percorso calmante. «Oh cielo, lo era sul serio», il divertimento fece spazio allo sdegno. «A diciassette anni ancora nulla?».

«Per i tuoi ritmi che a diciotto devi sposarti, in effetti sono una suora», sibilai, forse un po' troppo lontana da lui per essere sentita, perché non rispose.

«Vieni qui».

«Ancora un passo e ti faccio saltare i denti».

«Sarebbe divertente vedere come ci provi». Sì, dal suo atteggiamento era chiaro che non mi avesse sentito.

«Ti diverte tutto questo? Vedermi diventare pazza? Vedermi all'oscuro mentre tutti mi dicono bugie?». L'ultima parola venne stroncata da un singhiozzo. Dio no, non piangere ora. Ma ormai avevo cominciato, tanto vale sfogarmi del tutto. Indicai il corridoio di fronte a me. «Soddisfatto?».

Gli angoli del suo sorriso tornarono al loro posto e i suoi occhi si spensero. «Dai, non fare così», si allungò per afferrarmi la mano ma mi ritrassi.

«Potreste gentilmente continuare la telenovela da un'altra parte?», una voce sconosciuta irruppe nel corridoio. Con la vista offuscata dalle lacrime mi voltai verso la sua origine: un uomo sulla cinquantina che si affacciava dalla porta a fianco la mia.

Alexander lentamente si avvicinò a lui. «Le sembra il modo di parlare così ad una ragazza in lacrime?», fu così garbato da sembrare minaccioso.

«Andate ad urlare da un'altra parte».

Lui continuava a non fermarsi, continuando il suo percorso verso il vicino fino ad una distanza tale da renderlo invadente. «Glielo chiederò di nuovo, le pare garbato rivolgersi in questa maniera in un contesto così delicato?».

L'uomo lo guardò negli occhi, ma vidi il suo sguardo vacillare. Non gli piaceva l'atteggiamento di Alexander, né la poca distanza che separava i loro due corpi, era evidente. Con quei suoi modi pacati paradossalmente stava spaventando anche me. Aprì bocca ma poi cambiò idea. Il ragazzo attendeva una risposta, immobilizzandolo sulla soglia con i suoi occhi neri.

«Dai, andiamo», esortai a voce più bassa, avvicinandomi anche io per tirargli una manica.

«Un attimo solo, Victoria, questo gentiluomo e stiamo parlando». Come un predatore che non perdeva mai di vista la preda, non si girò a guardarmi mentre mi rispondeva.

«Alexander, per favore». Ci mancava solo la scenata e la mia giornata sarebbe stata piena. Lo tirai nuovamente, stavolta per il polso così da risultare più efficace, beccandomi una leggera scossa al contatto con la sua pelle.

«La prossima volta sarà educato, sì?», gli riservò un sorriso gelido prima di dargli le spalle con noncuranza e guardare me. «Su, continuiamo dentro».

«Io devo solo fare lo zaino e uscire».

Annuì senza aggiungere altro e aspettò che entrassi per chiudere la porta. «Vuoi una mano?».

«No, ho riposto già tutto, devo solo controllare se ho lasciato cose in giro», avevo ancora il naso tappato e gli occhi rossi. Attesi che si girasse prima di asciugarmi le lacrime con la manica. Feci un veloce giro in bagno per assicurarmi di non aver dimenticato nulla e poi chiusi la zip dello zaino. Sperai con tutto il cuore che non cominciasse a parlare di quanto successo nei pochi minuti precedenti.

«Questi non li prendi?», sventolò i fogli che mi aveva dato papà.

«Sono solo pezzi di carta».

Non disse nulla per un po', mentre io tentavo ancora di contattare i miei genitori, finché non afferrai la maniglia della porta.

«Perciò... terrai fede alla nostra scommessa? Farai la spia?».

Per un secondo tutta la stanchezza che cercavo di combattere si fece sentire. «Non lo so, Alexander... voglio solo tornare a casa alla mia vita di sempre, dove non ci sono Demoni né fughe».

«In ogni caso, suppongo che questo sia un addio», allungò la mano.

«Non te la prendere, ma lo spero», allungai la mia per stringergliela, quando presi di nuovo la scossa. «Ahia».

«Speravo davvero di essermi sbagliato sulla storia del sangue, se può consolarti un poco», il rammarico nella sua voce mi disorientò. Continuava a cambiare umore e non riuscivo davvero a reggerlo.

Non aggiunsi altro: continuare quella discussione mi stava facendo perdere tempo, e l'idea di non vederlo mai più mi stuzzicava. Uscii dalla stanza, stavolta per non tornarci mai più. Arrivata nella hall mi avvicinai alla reception per comunicare alla proprietaria che mi sarei protratta a tempo indeterminato con il mio soggiorno, così da lasciare ad Alexander tutto il tempo di cui aveva bisogno per orientarsi senza venire più contattata da lui. Quando le comunicai che avrei condiviso la stanza con un ragazzo – per non destare sospetti – storse il naso. «Mi dispiace, signorina, ma non potete soggiornare in due in una stanza singola».

«Neppure se gliela paghiamo come se fosse doppia?». Ma sì, al diavolo, avrebbe pagato lui.

«Ci sono delle norme sulla sicurezza che dobbiamo rispettare».

«Lasci pure al mio ragazzo il conto di quanto le serve per chiudere un occhio», senza attendere risposta, sapendo che gli avrebbe spillato una bella somma, uscii dalla hall e finalmente respirai aria fresca. Avevo ancora tutto il tempo del mondo per arrivare a casa prima dell'ora di cena, ma questo non mi spingeva a prendermela comoda. Girai l'angolo per imboccare la strada principale e chiamare un taxi. Il primo che passò, vedendomi sbracciare, accostò qualche metro davanti a me e attese che salissi. Lo salutai frettolosamente e gli comunicai l'indirizzo. «La tariffa è maggiorata fuori città».

«Va benissimo». Tirai fuori la carta di credito che mi aveva lasciato papà e lui si convinse che non gli stavo facendo perdere tempo.

Inserì nel navigatore la destinazione e un piccolo avviso rosso coprì parte dello schermo touch. «Signorina, dovrò lasciarla qualche metro prima, perché pare che la strada sia chiusa per un breve tratto».

«Nessun problema». Sprofondai sul sedile, rilassandomi finalmente dopo quasi ventiquatt'ore di tensione. Sentivo di essere tornata bambina, quando ero impaziente di arrivare pur sapendo che mancava ancora un bel po', ma evitai di domandarlo al tassista per più di due volte per non sembrare insistente. Guardavo con pigrizia sfilare attraverso il finestrino prima i palazzi, che lasciarono il posto a villette fuori mano per poi essere sopraffatte solo dal verde della strada provinciale. Più mi avvicinavo a casa più mi sentivo leggera. Neppure la rabbia che pensavo di provare sembrava esserci: volevo solo il mio letto e sapere che il giorno dopo sarei andata a scuola; c'era tempo per fare i conti con papà e mamma. Di nuovo, tornarono le villette e poi ancora palazzi. Buttai un attimo lo sguardo davanti invece che lateralmente e notai una colonna di fumo. «È per quello che la strada è chiusa?». La indicai nonostante il tassista non potesse vedermi.

«Sì, pare che una casa abbia avuto una fuga di gas».

«Speriamo non si sia fatto male nessuno».

«Già».

Piano piano cominciai a riconoscere le strade: ci stavamo avvicinando al mio quartiere e la colonna di fumo continuava ad essere sempre più larga e stagliata nel cielo di fronte a noi. Il conducente chiuse i finestrini e attivò il ricircolo d'aria senza aggiungere nulla, finché non accostò al bordo della strada, un incrocio prima del previsto. «Non vorrei fosse tossica», si scusò, mentre attendeva che gli consegnassi la carta di credito. «Forse è il caso che si metta un fazzoletto sul naso». Mentre digitava l'importo nel pos tirai la manica della maglietta abbastanza per potermi coprire per il fumo, per poi prendere le mie cose, ringraziarlo e scendere.

Sin da lì vedevo una folla di curiosi accalcarsi là dove aveva origine la colonna, ma non gli badai. Speravo solo che non facessero da muro umano, nel momento in cui fossi passata per dirigermi a casa. Passo dopo passo, mi avvicinavo a loro e sembravano sempre di più, come a moltiplicarsi. Inoltre, non avevo mai visto così tanti camion dei vigili del fuoco insieme, parcheggiati alla rinfusa nella fretta di prestare soccorso. Una dozzina di soccorritori continuava ad innaffiare la casa. La casa. Di chi era? Di quale dei miei vicini? Strabuzzai gli occhi per tentare di capire dallo scheletro avvolto dalle fiamme a chi appartenesse; neppure il giardino incenerito sembrava volermi dare qualche indizio, finché qualcosa scattò nel mio cervello. I miei passi si fecero più lenti, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Qualcuno tra la folla mi riconobbe e tentò di chiamarmi, ma non mi fermai finché uno dei vigili del fuoco non mi intimò di rimanere dietro di lui. Solo allora mi accorsi di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo in cui avevo realizzato.

Un paramedico si avvicinò a me, affiancato da un vicino di cui non avevo le forze di ricordare il nome. «Victoria?», chiamò timidamente, entrando con cautela nella mia visuale per attirare i miei occhi su di lui, mentre erano ancora fissi su casa mia che bruciava. Le fiamme continuavano imperterrite a distruggere tutto e nonostante fosse spaventoso non riuscivo a distogliere lo sguardo. «Victoria?».

«È sotto shock», disse una voce nuova. «Chiamo dei colleghi per tenerla d'occhio».

Ma il vicino non demorse. «Victoria, dove sono i tuoi genitori?».

Lo guardai attraverso le lacrime e con difficoltà dissi che non lo sapevo, che non rispondevano al telefono.

Il paramedico si intromise. «Non pensiamo al peggio, potrebbero solo essere irrintracciabili. Sai se hanno degli appuntamenti imminenti? Forse sono lì».

«C'era... una cena a casa nostra, ma è stata annullata». Scuotere la testa per escludere quella possibilità mi fece venire un capogiro.

«Con chi dovevano vedersi a questa cena?», ci misi un po' a capire cosa stava dicendo, perché le mie orecchie cominciarono a fischiare.

«Wladimir e Cordelia Bloodwood, degli amici». Pronunciare i loro nomi mi fece venire la nausea. Con le fiamme davanti agli occhi non avevo le forze per impedire ai miei pensieri di creare le peggiori congetture su di loro e su quello a cui stavo assistendo.

«Hai i loro contatti?».

«No... ho il numero del figlio».

«Ti dispiace comunicarlo alla polizia?».

Prima che potessi rispondere, una piccola esplosione mi fece spostare di nuovo l'attenzione verso l'edificio in fiamme. Il grappolo di persone curiose dietro i soccorritori sussultò, ma non era nulla di allarmante. Ma nella mia testa continuò a ripetersi più e più volte, come un eco che però non perdeva mai di intensità, che sembrava un costante "te l'avevo detto".

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