«Pensavo gli avresti detto che sono qui». Le sue spalle si rilassarono e le piccole rughe di espressione sulla fronte sparirono.
«Già, lo pensavo anche io», diedi una spinta alla porta per assicurarmi fosse chiusa, ma non girai la chiave nella toppa, infilandola nella prima tasca che trovai. «Perciò..».
«Spero che la mia visita non sia mal gradita», provò ad aprire discorso mentre io cercavo di ignorare il silenzio togliendomi la giacca e appoggiandola sulla sedia. «Sono qui in amicizia».
Quelle ultime parole mi sorpresero. Pensavo davvero che fosse lì in vece dei genitori, secondo chissà quale assurdo piano che non capivo. O forse loro sapevano che i miei genitori erano pazzi e lo avevano mandato a scusarsi della brutta impressione che dovevano dare. No... troppo artificioso. «Cioè?».
Si mise una mano sul petto, come a rendere più sentite le sue parole. «Le battaglie dei miei genitori non sono le mie, sono qui per chiederti di non lasciare che il loro passato influenzi noi».
«Ammesso che non tenga conto di tutto questo», abbracciai con lo sguardo la camera in cui ci trovavamo, «cosa ci fai qui?».
«Sono scappato, come te», si passò una mano tra i capelli e si buttò a peso morto sul letto. «Non ce la faccio più con i miei genitori e non voglio tornare a casa. Qui è diverso, è nuovo, e voglio scoprirlo senza fretta».
«Per tornare a casa intendi da dove vieni tu?».
«Sì, presto dovremmo tornare lì, dato che mio padre ha concluso i suoi affari, ma a me non va. È sempre tutto lo stesso, tutti ti conoscono, tutti sanno come ti comporterai e come reagirai agli eventi. Basta, non voglio più essere Alexander, ho bisogno di una pausa da me stesso per svagarmi e cambiare aria; non me lo permetterebbero mai, quindi ho deciso di fare di testa mia».
«Così ti cercheranno...».
«Non m'importa, continuerò a scappare finché non avranno capito le mie ragioni».
«... e troveranno anche me».
Si tirò su di scatto, per poi raggiungermi vicino alla porta e – inaspettatamente – mi sfiorò il mento con la nocca. Ma più che un gesto dolce o ammiccante, sembrava che volesse dare enfasi alla disperazione che gli leggevo negli occhi. Non lo conoscevo da tanto e avevamo avuto delle incomprensioni – per usare un eufemismo – per cui se da estranea e diffidente avevo notato quell'angoscia, doveva essere alquanto evidente e radicata. «Ti prego, ho bisogno di aria fresca».
«Io no, però». Gli afferrai la mano per cercare di tranquillizzarlo. «Là fuori il mondo è grande, ma a me piace la mia vita. Non vedo l'ora di tornare a casa alle mie solite abitudini».
«È per questo che ho bisogno di una guida, perché là fuori io non conosco nulla, brancolerei nel buio».
Rimasi in silenzio per un po', soppesando le parole per risultare chiara ma allo stesso tempo poco severa, ma lui mi anticipò: «Lo so che posso sembrare pazzo, ma a casa c'è qualcuno che mi aspetta e che non voglio più vedere». Al mio sguardo confuso sbuffò e disse diretto, come stanco del mio tentennare: «Mio padre mi ha promesso in matrimonio ad una ragazza, ma diamine io ho solo diciotto anni!».
«Ma è così... medievale», furono le uniche parole che riuscii a dire senza sembrare scortese. Sul serio? Nel terzo millennio, ancora questo tipo di usanze barbare? Forse mi stava prendendo in giro anche lui.
Mi inchiodò con lo sguardo. «Non te l'hanno detto?».
«Detto cosa?».
«Da dove vieni, le tue origini, le nostre tradizioni».
Feci una smorfia al pensiero di come mi avesse preso in giro papà e mi allontanai un po' da lui: la conversazione stava prendendo una piega che non mi piaceva.
«Te lo hanno detto, ma tu non ci credi». Più che un'interpretazione ad alta voce dei miei pensieri, sembrava che volesse schernirmi. Non era decisamente il comportamento che mi avrebbe convinto ad aiutarlo, anzi questa mia continua resistenza mi stava stancando. Non richiedeva meno energie crederci? Alla fine non lo avrei detto a nessuno al di fuori della mia famiglia, sarebbe stata una piccola pazzia che mi concedevo per serenità personale.
«Dimmi un po', che ti hanno raccontato di preciso?».
«Nulla».
Ci fissammo per qualche secondo, quasi a sfidarci: lui non vedeva l'ora di schernirmi e io che se ne andasse. Che fine avevano fatto tutte le risposte taglienti che mi erano venute in mente dopo i nostri incontri, quelle che mi erano venute molto più tardi, sotto la doccia?
Sospirò, cambiando di nuovo atteggiamento. «Senti, lo so che può sembrare strano ma sono disposto a tutto pur di togliermi questa condanna all'ergastolo che mi attende a casa. Cosa vuoi? C'è qualcosa che posso fare in cambio, per te, per il tuo aiuto?».
«Non ho detto di volerti aiutare».
«Nascondimi solo, per un po'». Di nuovo, nei suoi occhi vidi la necessità di fuggire. «I miei genitori non sanno che faccia hai, se pure venissero a cercarti non ti riconoscerebbero... lasciami stare un po' qui con te, prometto di non uscire mai e di non attirare l'attenzione».
«Alexander... non so come dirtelo: io non posso restare qui. Sono qui solo per evitare la cena di stasera, i miei avevano paura a lasciarmi a casa, ma domani mattina tornerò alla mia vita».
Scosse la testa, guardandomi confuso. «La cena è saltata ore fa».
«Cosa?!».
«Mio padre aveva un incontro con alcuni imprenditori e quindi ha disdetto, non lo sapevi? È stato questo che mi ha spinto ad agire, ci avrebbero messo molto meno a capire cosa succede se non mi fossi presentato a quell'appuntamento».
Senza rispondere afferrai il telefono e cercai in rubrica il numero di mio padre. Volevo spiegazioni. Perché ero rimasta confinata lì come una colpevole in fuga, quando il motivo del mio allontanamento era sfumato?
Alexander mi prese il telefono dalle mani prima che potessi far partire la chiamata. «Sapranno che anche io sono qui».
«Non se cambi stanza».
«Per farlo ci vogliono dei documenti».
«Alexander... come mi hai trovata?». Idiota, ero solo un'idiota! Perché non ci avevo pensato prima, senza perdere tempo?
«Ci sono così pochi hotel qui che...».
«Quindi come mi hai trovato tu, potrebbero trovarmi i tuoi genitori?».
«Eh? E a loro che gli frega? Ti vedo un sacco confusa, che ti hanno raccontato i tuoi genitori di così catastrofico?».
«Che sono... siete... siamo Demoni». Dirlo ad alta voce era quasi umiliante, come se potessero davvero esistere qualcosa del genere. Come se davvero papà mi credesse così sciocca da abboccare ad una simile storiella.
Mi guardò per un po' e sperai con tutta me stessa che si mettesse a ridere. Invece, con una lentezza snervante, si sedette ai piedi del letto senza mai smettere di guardarmi. «E quale sarebbe il problema?».
«Quale sarebbe?! Che è una sciocchezza, che sono ore che mi arrovello cercando da sola la verità, visto che nessuno vuole dirmela!», sbuffai, dando un calcio alla sedia della scrivania, illudendomi che le lacrime che stavano per uscire fossero per l'improvviso dolore al piede. «Ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto, non ho fiatato quando avrei potuto oppormi e l'unica cosa che mi sento dire è questo!».
Cambiò posizione e tentò di sembrare rilassato, ma le sue spalle rigide lo tradivano. «Se pure fosse, cosa ci sarebbe di male?».
«Mi prendi in giro?».
«Victoria, non siamo mostri». Era la prima volta che mi chiamava per nome e ne rimasi colpita. Non che ci avessi fatto caso prima, ma questo rendeva le sue parole serie quasi più del suo tono.
«Non mi interessa... io non sono questo!», sbuffai. «Perché vi prendete gioco di me?».
Si tolse la giacca nera e la poggiò accanto a sé, rivelando sotto una maglietta dello stesso colore. «Essere Demone o meno non ti definisce. Concorre a descriverti, sì, ma essere Victoria umana o Demone cambierebbe ben poco».
Non risposi. Tutto quello che stavo sentendo era assurdo. Continuare a parlarne mi avrebbe solo fatta rabbuiare e perdere lucidità era l'ultima cosa di cui necessitavo. Ancora non mi fidavo di lui, né della sua motivazione per avermi trovata.
«Guardami», disse dolcemente. Senza perdere la pazienza aspettò che i miei occhi incontrassero i suoi, per dire poi con una voce così delicata che in un'altra occasione avrei giurato non potesse essere la sua: «Tutto questo non cambierebbe la tua vita, né come si svolge. Saresti solo più consapevole di te stessa».
«Ma questo significa che... sono sporca, sono rovinata dentro».
Per un attimo gli angoli della sua bocca si tirarono su, probabilmente per deridermi, ma in poco tempo recuperò l'autocontrollo e continuò con lo stesso tono: «Demone non significa servitore del male. Dimentica tutta la storia della religione, su di noi se ne sentono di tutti i colori ma poche sono vere. Siamo solo diversi dagli umani, ma non per questo siamo destinati alla dannazione eterna».
«E allora cosa?».
«Ti racconterò tutto, ma a patto che tu mi aiuti», fu svelto, preciso. Ecco da dove veniva quella gentilezza, ecco il secondo fine che ero troppo presa dai miei dubbi per considerare. «Significa che mi credi?».
«No».
Annuì, senza aggiungere nulla. Stava aspettando la mia risposta.
«E va bene, ma solo per stanotte. Da domani, sarai un fuggitivo indipendente».
«Amen», ridacchiò, probabilmente per prendermi in giro per quanto avevo detto poco prima.
«Rimanere qui è più sicuro, hanno un registro cartaceo. E poi io sono qui da ieri, quindi desterei meno sospetti di te che dovresti ottenere una stanza oggi...».
«Che stai cercando di dire?».
«Che tu resti qui».
«Eh?», lanciò uno sguardo al letto singolo.
«Non ti preoccupare, io torno a casa. Il motivo della mia permanenza qui non esiste, e posso dire di non averti visto e sviare la tua ricerca».
Non era quello che aveva immaginato, glielo leggevo dalla smorfia. E poi, lui mi aveva confermato che ai suoi genitori non importava nulla di me, non aveva senso rimanere.
«Ad una condizione», interruppe il mio flusso di pensieri sempre più positivi. Non vedevo l'ora di tornare nel mio letto, diamine.
«Non mi sembri nella posizione di poterti imporre, sai?».
Mi lanciò un'occhiataccia e fece finta di non avermi sentito. «Dovrai farmi da guida. Non importa se non sarai fisicamente qui, non voglio rimanere sempre nello stesso posto perché voglio avere più esperienze possibili ed essere sempre ad un passo dai miei genitori».
Mi sedetti accanto a lui. «Ma sei sicuro? Vuoi davvero scappare di casa?».
«Tu non conosci cosa significa "casa" per me. È una tortura. E i miei hanno fatto un grave errore a darmi un'alternativa, perché pare mi piaccia molto di più questa vita che quella vecchia. Non ti sto chiedendo di giudicare e probabilmente io al tuo posto non mi aiuterei, ma ti assicuro», e si avvicinò un po' di più a me, «che anche senza il tuo aiuto non tornerò indietro».
«Potrei sempre fare la spia», gli ricordai.
I suoi occhi ebbero un guizzo, come quando il fuoco per un attimo si estende più in alto del percorso tracciato. E in quel breve istante, una parte di me ricollegò quella reazione alle parole di mio padre sulla pericolosità della sua famiglia. «Fa' pure, se vuoi. Renderebbe la mia fuga molto più divertente».
«E perché dovrebbe?».
«Perché loro darebbero la caccia a me e io la darei a te». Il suo tono era tremendamente serio e non mi venne alcuna ragione di dubitare di quanto stesse dicendo. Ma allo stesso tempo non volevo soggiacere a quelle parole, al significato che voleva dargli lui. Mi stava minacciando per avere una mano, e potevo anche giustificarlo per la disperazione che poco prima gli avevo letto negli occhi, ma di certo non avrei lasciato che mi influenzasse.
Mi alzai e gli dissi che ci avrei pensato, ma di non dare troppo per scontato la risposta. «Se pensi di intimorirmi così, ti sbagli», sibilai. Alzò un angolo delle labbra, divertito, e si appoggiò sui gomiti mentre io uscivo dalla stanza per chiamare mio padre.
Aveva la linea occupata, ma non demorsi fino al quarto tentativo. Rientrando in stanza, trovai Alexander che fissava i documenti che mi aveva dato papà con fare sospettoso. Il mio cuore si sentì più leggero sapendo che erano falsi – da una parte – mentre dall'altra questo confermava le bugie di mio padre. Per cosa, poi?!
«Questi dove li hai presi?».
«Me li ha dati papà».
Mi fissò per un po', assottigliando gli occhi. Sbuffò e si alzò, tenendo così forte un documento in particolare tra le mani da accartocciarlo, mentre gli altri che erano abbandonati sulle sue ginocchia caddero a terra. Accese l'abat-jour sul comodino e la puntò vicina ad una porzione della carta, inclinandola leggermente per leggervi qualcosa. «Non ci posso credere», sibilò, «lo ha fatto davvero».
«Sono finti, me li ha dati papà per farmi credere a tutta questa assurda cosa».
«No che non lo sono. Questa è la calligrafia di mia madre, e anche il suo segno di riconoscimento è qui».
«Quale segno?».
«Non posso mica dirtelo. È una cosa che sappiamo in pochi, ognuno di noi ha un suo piccolo simbolo per capire se si tratti di qualcosa di autentico».
«E... questo lo è?».
«Puoi giurarci», rispose a denti stretti, per poi strapparla in mille pezzi e lasciarli cadere sul tappeto. «Abbiamo deciso di tagliare i ponti con i nostri genitori, no?», anticipò la mia domanda, facendo spallucce.
«Sarebbe stato comunque corretto chiederlo».
Alzò gli occhi al cielo, sbuffando ancora. «Ma se non credi neppure a chi sei davvero».
«Eh no, caro mio. Hai appena detto che essere un Demone non modifica chi sono davvero!», uscì con più enfasi del previsto, ma era una storia strampalata e finalmente avevo qualcuno a cui mostrare le falle di quella trama intricata di menzogne.
«Il discorso è leggermente più complesso di così», ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli mentre si chinava a prendere il resto dei fogli che aveva fatto scivolare con noncuranza.
«Hai bisogno di tempo per inventarne un'altra?», risposi amaramente, mentre provavo a chiamare nuovamente l'altra persona che mi avrebbe rifilato una versione distorta.
«Mmm... no. Stavo pensando ad altro per la verità». Fece due lunghe falcate e mi raggiunse vicino alla porta, lasciandomi ben poco spazio tra il suo petto e la porta. «Puoi anche credere che noi ti raccontiamo fandonie, ma basterà solo che il tuo io Demone prenda il sopravvento».
Lo spinsi via, se quello era un modo per intimorirmi si sbagliava di grosso. «Ci proviamo, ma solo ad una condizione». Volevo vedere fin dove volesse spingersi, fin dove avrebbe continuato con quel teatro. «Se il mio fantomatico io Demone non risponde al tuo appello, tornerai con me stasera, dai tuoi genitori».
«Che succede se non lo faccio?», chiese divertito.
«Farò la spia, qualsiasi conseguenza dovesse causare».
I suoi occhi cambiarono espressione, diventando eccitati da quella sfida con me stessa. «Andata».
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