7 - Squilli e paure
Durante quella breve dormita sognai qualcosa di strano. Dovetti sforzarmi per richiamarlo alla memoria dopo aver aperto gli occhi. Si trattava quasi di una nave, come quelle che avevo visto nei film sui pirati, che però non navigava sul mare ma per aria. Ricordo di aver aperto la finestra della mia camera per avvicinarmi a quella figura, che continuava ad avvicinarsi a me ad un ritmo incessante, mostrando la bolena consumata e sporca.
«Sto diventando pazza», dissi ad alta voce per rompere il silenzio della camera d'albergo. Non potevo di certo essere biasimata per quello, visto che le premesse per impazzire c'erano tutte. Persino papà aveva detto che al posto mio avrebbe dato di matto... eppure aveva peggiorato solo la situazione mentendo.
L'idea che continuavo a schiacciare in un ripostiglio della mente quel giorni si era fatta più forte: e se non fossero bugie? Se davvero fosse la verità, per quanto strana fosse?
Sbuffai. «Non scherziamo», ammonii me stessa. Immaginare anche solo che una parte di quanto detto fosse vera significava lasciare a loro il potere di manovrarmi come volevo. Era stato tutto architettato quasi alla perfezione, ma da qui a rendere condivisibile un'utopia ce ne passava di acqua sotto i ponti.
Il cellulare squillò e ci misi un po' a reperirlo tra le coperte. «Pronto, Sam?».
«Ma che fine hai fatto?».
Allontanai lo schermo dall'orecchio per vedere l'orologio. La prima ora di lezione era già passata da un po'. «Scusa, mi sono dimenticata di dirti che oggi non ci sono, resto da parenti».
«Parenti?». Non ci credeva, giustamente.
«Sì, sono arrivati in città senza preavviso e ho deciso di passare del tempo con loro». Suonavo falsa persino alle mie, di orecchie. E mi detestavo. Mi detestavo perché mi stavo comportando esattamente come i miei genitori, che continuavo ad incolpare. Stavo mentendo ad una persona importante per me, tutto per quel dannatissimo e generico pericolo che andavano predicando.
«Senti, Vic... lo so che magari è imbarazzante, ma lo sappiamo solo io e James. Non serve smettere di venire a scuola per paura di incrociarlo».
«EH?!».
«Davvero, prometto di non dirlo in giro. Per carità, sono felice che dopo tutti questi anni ti sia presa una cotta, ma la stai affrontando male».
Tentai di ridere per smorzare la situazione, ma venne fuori più un rantolo. Non sapevo neppure come continuare, nonostante io fossi una pessima amica lei si stava dimostrando sensibile e attenta a me, anche se aveva sbagliato ad interpretare la situazione. «Sam, non è questo... davvero, giuro di spiegarti, ma per ora è meglio che me ne resti qui». Evitai di dire dove mi trovassi, come a tenere l'opzione parenti ancora in gioco. «Torno dopodomani, così puoi aggiornarmi su James e io posso aggiornarti su tutto questo casino».
«Mi giuri che stai bene in questo momento?».
«Sì».
«Bugiarda», sbuffò. «Va bene, non insisto, ma se vuoi parlarmi chiamami in qualsiasi momento. Ho un appuntamento a quattro domani, ma se ne hai bisogno mando all'aria tutto».
«Grazie, Sam». Dovetti reprimere la voglia di raccontarle tutto, di dirle di raggiungermi e affrontare insieme questa malsana piega degli eventi. Ma questo avrebbe reso vano quello che era successo ieri, e non potevo permettermi di buttare alle ortiche la promessa – seppur non mantenuta – di ottenere la verità.
«Anche Alexander non c'è oggi», stava cambiando discorso e le ero infinitamente grata. «Forse ha fatto troppo tardi ieri sera. Sai, James mi ha detto che è uscito con Tyler e la sua combriccola e hanno fatto le ore piccole. Tyler stesso ha certe occhiaie stamattina...». L'idea che Alexander potesse uscire e divertirsi mi sembrava strana. Per carità, era un ragazzo come tutti, ma non ce lo vedevo a ballare in discoteca in una calca di corpi deliranti. Magari partivo prevenuta io e davvero non c'era un doppio fine nella sua assenza quel giorno.
Dopo qualche frase di convenevoli, Sam mi salutò per dirigersi alla lezione successiva.
Cominciavo ad avere fame, perciò scesi dal letto per decidere cosa mettere per raggiungere il bar più vicino. La scelta era tristemente limitata a tre maglioni di colori diversi. Decisi di prendere quello viola e di sbrigarmi, così da potermi fare una passeggiata per cercare un posto dove pranzare più tardi. Dopo una doccia veloce e una sistemata ai capelli, strinsi con forza le chiavi in mano per essere certa di non chiudermi fuori e raggiunsi la sala principale. Era vuota, persino della donna dietro al bancone non vi era traccia: non potevo chiedere a nessuno di consigliarmi dove andare.
Tastai la tasca dei jeans per controllare di avere il cellulare e uscii sulla strada. Cominciai a perlustrare le facciate dei palazzi alla ricerca di una caffetteria, ma sembrava più saggio spostarsi sulla via principale. Girai l'angolo e mi trovai immersa nel traffico mattutino della piccola città. Non fu necessario fermare qualcuno per chiedere, un'insegna bianca si stagliava contro uno sfondo nero a dichiarare i prezzi e gli orari, come ad invitare i passanti ad entrare.
Facendo slalom tra le persone sul marciapiede mi diressi verso quella caffetteria ed entrai, facendo suonare una piccola campanella. Due ragazze dietro il bancone che percorreva un intero lato del locale mi sorrisero, mentre una si avvicinava per sapere se volessi ordinare al bancone o sedermi. Dopo aver sentito la mia risposta mi sorrise e mi lasciò un menù. «Quando sei pronta chiamami».
Scelsi un tavolino in disparte, così da non attirare troppo l'attenzione. Sì, uscire era sbagliato, ma morire di fame non era tra le opzioni. Dovevo ripiegare su qualcosa e il cibo mi sembrava un'ottima idea. Caffè, cappuccino, mocaccino... la scelta era ardua. Era troppo tardi per prendermi qualcosa di elaborato come dolcetto, perciò ripiegai su un muffin con gocce di cioccolato. Con un cenno della testa la cameriera si avvicinò e prese la mia ordinazione, portandosi via il menù. Senza sapere cosa fare osservai l'ambiente intorno a me. Il lato opposto al bancone era rappresentato da una vetrata, coperta però da una larga ringhiera sulla quale si arrampicavano numerose piante, creando una parete di fitto verde che impediva ai passanti di sbirciare dentro. Al centro della caffetteria vi erano tanti piccoli tavoli, con le tovaglie di carta che richiamavano i colori del soffitto. La maggior parte delle persone che entravano e che facevano oscillare la campanella ordinavano al bancone e se ne andavano poco dopo. Solo io e un paio di clienti eravamo seduti. Mentre una cameriera serviva ai tavoli e al bancone, l'altra puliva e sistemava delle vecchie bottiglie e i soprammobili sugli scaffali in legno, annaffiava le piante che coprivano la vetrata e si affrettava a rimettere in ordine i tavoli quando venivano lasciati.
Aprii il telefono alla ricerca di un passatempo. Non ero dell'umore per sbirciare i social: vedere altri che condividevano anche solo momento banali mi avrebbe intristito ancora di più nel mio esilio. Giochi non se ne parlava, nessuno mi avrebbe distratto adeguatamente. Sospirai e fui grata alla cameriera di essere stata veloce a portarmi la mia ordinazione. Mi augurò buon appetito e si allontanò con un sorriso.
Avrei dovuto gustarmi il muffin, ma finii con divorarlo e buttarlo giù con il cappuccino per il nervosismo. Ma questo significava cercare un modo per passare il tempo. Mi avvicinai al bancone per pagare e chiesi alla cameriera qualche consiglio sui posti da visitare nei dintorni. Non essendo una città turistica aveva pochi luoghi da indicarmi, e questo mi fece pensare che forse era davvero il caso di restarmene rintanata in stanza. Ma questo mi avrebbe ucciso di noia, avevo deciso di dar retta a mio padre e sorvolare sulle bugie, ma davvero murarmi in una stanza era fuori discussione.
Forse avrei potuto cercare delle evidenti falle in quello che mi aveva raccontato e nei documenti che mi aveva lasciato. Appena fuori dalla caffetteria mi squillò il telefono.
«Ehi, Sam, dimmi».
«Oddio, sono troppo eccitata! Alexander ha chiamato Tyler, che ha chiamato James, che ha chiamato me!».
«Ehm... scusa ma non capisco».
«Cercava il tuo numero! Capisci? Ricambia!».
I miei pensieri però non correvano sulla stessa lunghezza d'onda dei suoi. A che gli serviva il mio numero? Cominciavo a diventare sospettosa e non sapevo se era un bene o un male. Forse lui avrebbe potuto confermarmi la storia di mio padre. Una parte di me cominciava disperatamente a voler chiudere quella questione, in qualsiasi senso, purché si chiudesse. «Glielo hai lasciato?».
«Sì... ho fatto male?».
«No no, assolutamente».
«Ma adesso ti lascio!», interruppe la frase che stavo cercando di formulare. «Sia mai che ti chiami, non facciamogli trovare il numero occupato!». Senza attendere una mia risposta mise giù.
Da una parte apprezzavo l'entusiasmo di Samantha, dall'altro era un mondo così estraneo al mio da rimanere scombussolata a volte. Ma questo non mi impediva di volerle un mondo di bene e di ripromettere a me stessa di raccontarle questa giornata, una volta conclusasi. Sarebbe diventata una bella storiella, "Quando la mia amica Vic è scappata di casa su iniziativa dei genitori".
Se Alexander aveva chiesto il mio numero significava che voleva mettersi in contatto con me, quindi trovarmi in un posto silenzioso sarebbe stato comodo per ordinare i pensieri e ottenere delle risposte. Ripiegai quindi verso l'hotel in attesa che mi contattasse. Ma più fissavo le pareti della mia stanza più cominciavo a pensare che non mi avrebbe chiamata. Forse aveva cambiato idea, forse aveva trovato un altro modo per ottenere le informazioni che cercava.
E se si voleva scusare per come si era comportato la sera prima? Improbabile.
Proprio quando mi ero decisa ad uscire per farmi una passeggiata e liberare la mente di tutte quelle domande, il cellulare squillò. Era un numero sconosciuto. Le dita corsero veloci vicino al touchscreen per poi rimanere sospese, a pochi millimetri dall'opzione "Rispondi". Volevo davvero mettermi in contatto con lui e rischiare di farmi scoprire, vanificando tutto? Dai, su, ero abbastanza sveglia da riuscire a soppesare le parole. Allora cosa aspettavo? Troppi squilli si stavano succedendo, presto sarebbe partita la segreteria. Quindi, Vic, che fai? Rispondi o no? E se mi avesse detto anche lui delle bugie, intrecciando ancora di più i miei pensieri? Ma se non avessi risposto, quante altre possibilità avevo di capirci qualcosa al di fuori della storiella raccontata da papà?
No, diamine. Avevo criticato aspramente i miei genitori, è vero, ma non potevo mandare tutto all'aria solo per la mia curiosità. Io e mio padre avremmo fatto i conti, era certo, eppure permettere alle mie emozioni – a questa debolezza – di essere più forte di me avrebbe portato problemi. Dovevo fidarmi, per quanto difficile. Il telefono smise di squillare.
Per un attimo mi diedi della stupida. Ma i miei genitori, anche se esagerati, sapevano chi fossero quelle persone e questo non escludeva, una volta che avessi saputo la verità, di impuntarmi e recriminarli per una misura eccessiva.
Ero così concentrata nei miei pensieri, a cercare qualcosa per non sentirmi ulteriormente fuori posto, che sussultai quando la suoneria ricominciò daccapo. Alexander mi stava richiamando, ma stavolta non mi assalirono i dubbi di pochi minuti prima. Tenere ferma la linea, ecco. Dovevo concentrarmi solo su quello, e sapevo di potercela fare. Nonostante quelle ventiquattro ore fossero state le più irrazionali della mia vita, dovevo confidare nella mia famiglia.
Si susseguirono un altro paio di chiamate, a vuoto. Una piccola curiosità su cosa volesse e sul perché anche lui aveva saltato scuola continuava ad accompagnare i miei occhi mentre fissavo lo schermo del telefono, ma a differenza della prima volta la mia mano aveva perso interesse a spingere verso una delle due risposte.
Se avessi risposto, avrei avuto delle informazioni, sì, ma ero sicura che sarebbero state vere? Anche mio padre aveva promesso la verità e poi non si era comportato come speravo, come potevo pensare che un perfetto sconosciuto con problemi di bipolarismo potesse fare di meglio?
«Forse è meglio rimanere chiusa qui», ammonii me stessa. Ma a fare cosa? A scoprire se sarebbe stata più l'irrazionalità o l'incoerenza a farmi diventare matta?
Il telefono squillò per una terza volta. Avrebbe anche potuto mandare un messaggio, pensai, ma forse non voleva lasciare tracce evidenti come parole scritte. Ma tracce di cosa? Massaggiai con le dita le mie tempie che sembravano voler implodere. Quella suoneria mi stava entrando nel cervello, e con essa la tentazione di mettere fine ai miei film mentali. Dovevo mettere il silenzioso a quel telefono, anche andando contro a quanto mi aveva detto papà. Continuava incessante a suonare, avevo perso il conto delle chiamate che mi stava facendo.
E... se fosse successo qualcosa ai miei genitori e lui volesse avvertirmi? Sì, poteva essere, ma cosa poteva succedere loro di tanto grave da farmi chiamare da Alexander? Nulla, in effetti. O meglio, nulla che io considerassi accettabile, perché mamma aveva avuto portarmi lontano dalla città proprio per evenienze simili. D'un tratto l'ansia cominciò ad assalirmi. Se avessero avuto ragione, forse avrei potuto aiutare in qualche modo... Forse rispondendo...
«No!», mi rimproverai come se parlassi ad una bambina. «Non si risponde al telefono».
Cambiare aria poteva essere un'idea, ma visto che Alexander mi cercava mi sentivo al sicuro chiusa in camera. Dovevo trovare qualcosa da fare. Una doccia poteva essere un'idea, così da sperare che il tempo scorresse più velocemente sotto il getto d'acqua. Preparai il cambio, riempii la mensola dell'angolo doccia dei miei prodotti e iniziai dal pettinare i capelli di fronte allo specchio. Tra un sospiro e l'altro mi spogliai e buttai in doccia. Ci volle un po' per trovare la giusta temperatura dell'acqua e in un altro momento mi sarei spazientita, ma mi faceva perdere tempo in attesa del pranzo.
Mentre mi trovavo sotto al soffione cominciai a far vagare la mente. Chissà come avrebbe apparecchiato la tavola mamma, se finalmente avrebbe tirato fuori il suo servizio buono che da anni si impolverava nella vetrina in soggiorno. Immaginavo i suoi capelli e il suo vestito, i modi gentili ma distaccati di mio padre. E loro. Sì, loro, che viso avevano? A chi dei due somigliava Alexander? Di chi era la mascella squadrata, le ciglia lunghe e scure o i capelli riccioluti?
Continuai con quei pensieri per un po', arrivando persino a immaginarmi dove papà avesse collocato questa fantomatica Capitale nella cartina del nostro Paese. Grattacieli prendevano il posto di edifici in legno, fontane rubavano spazio ai pozzi... insomma, un gran miscuglio di elementi.
Uscita dalla doccia mi accorsi di non aver portato un phon e che quello attaccato al lato dello specchio del bagno era minuscolo. Ripresi in mano il pettine e cominciai ad asciugarli per ciocche, tentando di dar loro un senso. Spesso sembravo più una nuvola di crespo, sperai che almeno in quella situazione la mia chioma mi avrebbe dato tregua.
Quando ormai avevo solo le punte umide l'ansia mi costrinse a controllare il telefono e togliere la modalità silenzioso, nel caso avesse chiamato papà. Strabuzzai gli occhi a vedere quella sfilza di chiamate perse da parte del numero sconosciuto, perdendo il conto dopo il numero undici.
Papà non aveva chiamato, non lo avevo ignorato: questo mi rendeva più tranquilla. Tornai ad asciugarmi i capelli più per noia che per evitare un raffreddore, continuando a fantasticare.
Il mio stomaco aveva deciso di brontolare, segno che era arrivato il momento di uscire e cercare un posto dove pranzare, anche se era un po' presto. Un'ultima sistemata allo specchio e andai ad aprire la porta.
Il corridoio era vuoto, così come il ristorante che la donna alla reception mi aveva indicato. Ormai ero stanca anche di concentrarmi sui dettagli per far passare il tempo: non ce la facevo quasi più. Non feci caso al tragitto verso il ristorante, né a cosa ordinai, né alle domande cordiali del cameriere: volevo solo che tutto passasse il prima possibile.
Spesso fui tentata di richiamare quel numero sconosciuto, per poi capire che sarebbe stata la mossa più sbagliata in quel momento. Anzi, forse ero proprio io a essere sbagliata. Se mi avevano mandato via per proteggermi voleva dire che ero inadeguata a proteggermi da sola...
Dopo aver pagato con la carta che mi aveva lasciato papà mi avviai verso l'hotel, decisa a chiamarlo e a pretendere la verità. La mia fiducia aveva un limite e lo stavano sfiorando da troppo tempo, mandandomi via senza spiegazioni, dandomi poi spiegazioni irrazionali e infinite dicendomi di restare lì buona come un soprammobile mentre loro chissà che facevano.
Superata l'ultima porta prima della mia illuminai meglio lo schermo del telefono e feci partire la chiamata. Mentre il telefono squillava infilai la mano in tasca per prendere la chiave e girarla nella serratura.
«Pronto, tutto bene?». il tono di papà era preoccupato.
Ma non ottenne risposta perché io ero rimasta impalata sulla porta, a metà tra l'impaurito e lo sconcertato perché sul letto era seduto Alexander, di spalle, con la sola testa voltata verso di me.
«Insomma, Vic, ti avevo detto di non chiamarmi se non per emergenze!».
Non sapevo se attaccare e affrontare Alexander oppure dirlo a mio padre e intanto scappare da lì. Il dito scattò chiudendo la telefonata e alla fine ancora oggi penso sia stata la scelta migliore e non per gli sviluppi successivi, ma perché avevo deciso di mettere da parte le paure dei miei genitori per affrontare le mie. Loro stavano giocando in memoria dei vecchi tempi con Wladimir e Cordelia, ma io e Alexander eravamo estranei a tutto quello e forse quello che aveva da dirmi poteva risollevarmi un po'.
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