4 - Alleati e mea culpa
Non mi quadrava. Era impossibile che papà avesse cambiato idea in così poco tempo, doveva essere successo qualcosa che lo aveva portato a rivedere il piano ma senza includermi.
«E...?».
Mi guardò, non capendo a cosa mi riferissi.
«Non me la bevo».
Si accese un'altra sigaretta in silenzio.
«Davvero vuoi rimanere senza alleati, con la posta così alta?», sbottai quando non riuscii più a tollerare quel suo fingere disinteresse. «Giocarsi tutto per un po' di orgoglio?».
Espirò con prepotenza e mi porse il suo telefono, dopo esserselo sfilato dal taschino. «Quando eravamo a pranzo ho ricevuto una chiamata, ma non le ho dato peso perché era di un numero sconosciuto. Poco dopo, dallo stesso numero ricevo un messaggio: era Cordelia, la madre di Alexander».
«Questo cambia tutto», concessi, sedendomi sul divano accanto a lui. «Cosa voleva?».
«Oh no, piccola», sorrise bonariamente, «ho bisogno di un'alleata, non di una confidente», fece due tiri e riprese: «Io e Cordelia avevamo un bellissimo rapporto, in principio era promessa in sposa a me. Ma Wladimir... Wladimir ha sempre avuto le stelle dalla sua parte», il suo tono si fece nostalgico, con una punta di amaro. «Lei non mi ha mai davvero perdonato per aver sposato tua madre... Forse voleva solo sapere come stavo, dopo tutti questi anni».
«E tu hai pensato di cogliere la palla al balzo».
«In realtà è stata Cordelia a propormi una cena, anche se io ho esteso l'invito al resto di entrambe le famiglie». Anche la seconda sigaretta fu spenta nel bicchiere sbeccato. «Wladimir è cosciente del nostro passato insieme, non voglio buttare via questa possibilità alimentando voci su un vecchio ritorno di fiamma. Voglio ancora bene a Cordelia, intendiamoci, ma voglio ancora più bene a te, e desidero portarti nella mia città natale al più presto».
La porta d'ingresso si aprì e mia madre sbucò nel soggiorno come se non fosse successo nulla poco prima. «Sarà il caso di rassettare casa, con ospiti così importanti». Camminando sui cocci fingendo la loro assenza, entrò in cucina e cominciò a fare una lista di cosa le serviva da mangiare.
Feci per alzarmi e darle una mano, quando mio padre mi fece notare che aveva bisogno di stare da sola. Ripiegai allora sulla ricerca del libro per il progetto, in modo tale da portarmi avanti con il lavoro.
Con il passare del tempo, fu chiaro che mia madre era troppo presa dalla scelta del menù per il giorno dopo, per poter preparare la cena. Verso le otto scesi le scale per proporre di ordinare una pizza, ma papà era uscito e mamma sembrava non sentirmi. Perciò sbuffai, infilai il giaccone e decisi di andare a prenderne una solo per me.
L'aria era pungente e sembrava stessero già allestendo le decorazioni stradali per il periodo natalizio. Decisi di comprarla in un piccolo locale poco frequentato, così da potermi sedere e mangiare ai tavolini disposti lungo il marciapiede.
Proprio mentre aprivo la porta di vetro e respiravo avidamente l'odore di pizza, quasi inciampai addosso alla persona che stava ordinando.
«Ops, chiedo scus...».
(S)fortuna volle che quella persona fosse il mio nuovo punto di interesse, nonché compagno di progetto. «Non è un po' presto per cadermi ai piedi? Faccio un effetto così forte?», mi prese in giro Alexander, prima di girarsi e pagare la sua pizza.
Gli lanciai un'occhiataccia e ordinai la mia cena. Al momento di pagare la sua mano entrò nella mia visuale e depositò una banconota sul banco. «Lascia, faccio io».
Provai ad insistere ma fu più tenace di me. Accettai con l'idea che fosse un modo per scusarsi di come mi aveva risposto durante l'ora di letteratura.
«Hai da fare?», indicai con il cartone caldo della pizza un tavolino lì fuori.
«No, sediamoci, così mi spieghi perché mi segui», ridacchiò, ma prima di accomodarsi portò indietro la mia sedia e mi fece prendere posto. Forse Samantha aveva ragione, forse si era trattato solo di un momento no per lui quella mattina. Ma ricordavo anche le parole della mia amica mentre mi raccontava del suo interesse verso di me e capii che non dovevo lasciar intendere nulla.
«Com'è andata la fine della giornata?», la presi molto alla larga, lo ammetto, ma non sapevo cosa dire.
«La professoressa di matematica è una pazza ed è mancato tanto così che qualcuno venisse portato in infermeria dopo gli esercizi di ginnastica sulla trave».
Addentai il mio trancio di pizza. «Normale amministrazione, quindi».
Fece un mezzo sorriso con la bocca piena, e per la prima volta notai un paio di fossette sulle guance.
«Tu, invece? Tutto bene con tuo padre?». Fu più diretto di quanto pensassi, non si sprecò neppure a fingere che non sapessi delle domande che aveva fatto su di me.
Molleggiai la testa, dedicandomi ad un altro morso.
«Ti ha detto di starmi lontano?», rise, ma fu più così veloce da cogliere la mia espressione prima che potessi nasconderla. «Bingo». Il suo tono era amaro, come un "te l'avevo detto" uscito controvoglia.
«Cosa te lo fa pensare?», non avevo immaginato di dovermi trovare sulla difensiva.
«Mia madre mi ha detto la stessa cosa», fece per aggiungere qualcosa ma poi decise di finire il suo trancio di pizza.
Passò un momento di silenzio, in cui ognuno di noi concluse quella cena frettolosa. Sapevo che chiedere qualcosa in più sarebbe stato giocare d'azzardo, avevo già raccolto delle piccole informazioni. E poi, avevo il giorno dopo a scuola e la sera a casa mia per spillare nuovi dettagli.
Fu lui a rompere il silenzio, proprio mentre cercavo un modo per congedarmi. L'aria fredda della sera non era nulla in confronto a quello che si era creato tra di noi, secondo dopo secondo. «Senti, so che sembrerà strano, chissà che ti avranno detto i tuoi genitori al nostro riguardo... ma è la prima volta che metto il naso fuori di casa e mi piacerebbe godermela, prima di tornare indietro».
«Significa che starete qui solo per poco?».
«Sì, mio padre aveva degli affari in città e ci ha trascinati con lui», fece la stessa espressione di poco prima: si stava trattenendo dal dirmi altro. Quindi non erano qui per via di una separazione, come si andava vociferando... a quanto pare papà aveva ragione, un piccolo tassello si stava coordinando con il resto, ma sembrava ancora insufficiente.
«Proverò a non farmi influenzare da loro». D'istinto ero portata a dire che non avrei fatto caso alle loro parole, ma lasciare un piccolo spiraglio poteva far comodo.
Il suo cellulare cominciò a squillare. Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans nero dopo essersi pulito le mani unte e si limitò ad abbandonarlo vicino al cartone quando vide il numero. «Per oggi ho chiuso», sibilò, dimentico che fossi davanti a lui. Finsi di non aver assistito a quella piccola scena concentrandomi sulla piccola insegna della pizzeria, dove una delle due Z si era fulminata.
Quando tornai a guardarlo mi fulminò con lo sguardo e sbottò: «Che hai da guardare?». Quei cambi repentini di comportamento mi infastidivano. Era comprensibile che fosse infastidito dalla telefonata, ma io che c'entravo?
Finita la mia pizza in silenzio, senza dargli ulteriore attenzione, mi alzai e andai a buttare il cartone. «Beh, buona serata». Ero sicura di sbagliare ad abbassarmi al suo stesso livello, ma in quel momento non mi sentivo di dargli confidenza... nonostante tutto quello che era stato detto in neanche ventiquattro ore, restava un estraneo per me.
Fece finta di nulla e rimase seduto al tavolino, mentre io mi stringevo un po' di più nel giacchetto e mi avviavo verso casa. Dopo qualche minuto incontrai un gruppetto di persone che occupavano l'intero marciapiede. Era impossibile continuare a camminare tra di loro, sembrava che volessero stare tutti il più vicino possibile, dunque mi arresi a fare un pezzo di ritorno direttamente sulla strada illuminata.
Quando tornai a casa sembrava che l'uragano mamma non fosse mai passato. Non un singolo pezzo di vetro o porcellana era a terra, sul tappeto o sul divano. Rimaneva solo un lieve odore di sigaretta a ricordare la scena di poche ore prima. Le luci erano tutte spente, segno che i miei genitori dormivano. Chissà se avevano entrambi finto che non fosse successo niente.
Mi accomodai sul divano ed accesi la televisione senza davvero voglia di concentrarmi su un programma. Dopo un po' di zapping uno sbadiglio uscì prima che potessi trattenerlo.
«Ah, sei tornata», il tono di mia madre era sollevato, stranamente. Da quando mi aspettava sveglia quando uscivo? «Svelta, prendi una borsa capiente».
La osservai interrogativa mentre finiva la rampa di scale e si sistemava il nodo della cintura che le cingeva i fianchi e le faceva aderire la vestaglia al corpo. «Su, non farmi fare tutto da sola, svelta!».
Mi tirai su chiedendomi che cosa le passasse per la testa in quel momento, mentre lei apriva lo scomparto sotto la vetrina del soggiorno e cominciava a tirare fuori le cose che per anni erano rimaste ammassate lì. In realtà non ci avevo mai fatto troppo caso a quella parte del mobile, visto che la vetrina attirava tutta l'attenzione su di sé, mostrando un servizio che mamma si era sempre rifiutata di utilizzare, gelosa che qualcosa potesse anche solo rovinarsi. «Mi venne regalato insieme al corredo nuziale», si ostinava a ripetere quando qualcuno le faceva notare che era inutile tenere tutti quegli oggetti se non avevano uno scopo.
Dopo aver sfilato qualche rivista e qualche busta, un borsone fece capolino. Era il classico borsone che un ladro appoggiava sul bancone della gioielleria che stava derubando, nero, di pelle e con i manici rinforzati.
«Forza, vai in camera tua a prendere qualche cambio e mettilo qui dentro». Mentre si girava verso di me notai che aveva la testa più gonfia del solito. Ogni ciocca era stretta intorno ad un bigodino giallo, non un singolo capello era libero da quel disegno intricato.
«Che intendi fare?».
«Mandarti via», lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Grazie a tuo padre domani sera i miei più grandi nemici saranno nel mio soggiorno».
«Ma'...».
Sospirò senza darmi retta e si infilò in cucina alla ricerca di qualcosa da darmi per poter fare colazione il giorno dopo fuori casa. «Farti andare a dormire da qualche amica potrebbe essere sospetto, mi inventerò io qualcosa, tu intanto resterai nell'hotel della città qui a fianco. Mandarti in quello locale sarebbe troppo scontato».
«Mamma...».
Aprì un pensile e tirò fuori due barattoli di marmellata. Li soppesò prima di scuotere la testa e rimetterli dove si trovavano, per concentrarsi su un pacco di biscotti prossimi alla scadenza. «Potrei dire loro che hai la febbre... ma se poi insistono a volerti conoscere? No, ci vuole qualcosa di più brusco».
«Mamma».
«Oh, cielo, che c'è?».
«Tutto questo per chi lo stai facendo? Per me o per te?». Lo sguardo che mi lanciò fu più significativo del suo silenzio. Avevo ragione, alla fine. Lei non era preoccupata per me, della mia ignoranza su di loro e innocenza del potermi approcciare a qualcosa di dannoso. No, le interessava solo se stessa, come era sempre stato. Mi stava allontanando perché avrei potuto creare problemi non conoscendo chi avessi davanti, non voleva punti deboli e pensare ad un'altra persona per lei lo era.
«Non essere sciocca». Prese la prima cosa che si trovò davanti senza neanche guardarla e la infilò nel borsone. «Sono pericolosi ed è giusto che tu stia lontana».
Ero combattuta. Da una parte volevo conoscere i genitori di Alexander, ne sentivo parlare da poco tempo ma in termini così insoliti che stuzzicavano la mia curiosità; dall'altra la mia assenza avrebbe aiutato sia papà a raggiungere il suo intento, sia mamma a non essere influenzata da me.
«Papà che ne pensa?».
Non rispose, continuando a riempire il mio bagaglio di cose improponibili. Ogni tanto le mani correvano alla testa per controllare che fosse tutto in ordine.
Incrociai le braccia e la fissai. Si accorse della mia postura e roteò gli occhi. «A tuo padre penserò io quando sarai già andata».
«E chi mi accompagna in un'altra città?».
«Sì, Gertrude, chi lo fa?», fece eco mio padre dal salotto. Sia io che mamma saltammo dalla sorpresa e ci girammo verso di lui, che aveva le braccia conserte come le mie e fissava la moglie con divertimento.
«Oh, non cominciare», sbuffò lei, chiudendo con difficoltà la zip del borsone e togliendolo dal tavolo. «Sono anni che ne parliamo».
«Diciassette, per l'esattezza», papà era irremovibile. Piantò i piedi al centro dell'uscio, così da impedire a mamma di poter uscire.
Mi sentii piccola e insignificante. Stavano litigando di nuovo per la famiglia di Alexander, e questo non aiutava a scegliere a chi dei due dare ragione, entrambi i loro punti di vista erano comprensibili.
«Non lascerò che i loro occhi si posino su di lei. Ricordati perché abbiamo deciso di scappare da loro e dalla loro malavita», mamma si mise esattamente di fronte a papà, intenzionata ad uscire ad ogni costo, come se quel gesto bastasse a dichiarare conclusa la discussione a suo favore. Lì, di fronte l'uno all'altra, sembravano di due mondi differenti. Avevano entrambi i capelli e gli occhi scuri, la stessa altezza che io non avevo ereditato. Samantha, dopo averli conosciuti, aveva riso del fatto che se mia madre si fosse messa i tacchi, allora mio padre avrebbe dovuto prendere le scarpe rialzate o non sarebbe mai arrivato a guardarla negli occhi. Ai tempi mi aveva fatto intristire, perché mamma e papà non avevano mai avuto una serata per loro, non si erano mai messi in ghingheri per qualcosa. L'occasione più elegante a cui avevano partecipato era stata una cena tra i colleghi di papà.
Ma ciononostante, in quel momento sembravano come il giorno e la notte. Nessuno dei due era disposto a cedere.
«Oh, ma certo che mi ricordo cosa hai fatto, che ci ha costretti a scappare», le parole di mio padre erano sempre più pungenti. «Quindi ora cosa pensi di fare? Continuare a rinnegare le tue origini pur di non accettare un mea culpa?».
Mia madre cercò di fare un passo in avanti ma la sua spalla cozzò con quella di papà. Gli lanciò il borsone, che venne afferrato senza perdere terreno.
«Scappare ancora e ancora. Prima o poi i posti a questo mondo finiranno, dove ti rintanerai?».
La mano di mamma tentò di strappare il borsone a papà, ma l'unica cosa che ottenne fu scucire la tasca esterna laterale. Il tessuto piano piano cedette, mentre loro continuavano come bambini a strattonarla avanti e indietro, finché il suo contenuto non si riversò sul pavimento della cucina. Mamma fu più veloce a chinarsi e agguantare quello che riuscii a distinguere come un piccolo oggetto lucente – un anello o un orecchino – e un pezzo di carta. Rimase a fissarli per un tempo indefinito, per poi pronunciare le parole con un veleno che destabilizzò anche me. «A quanto pare devo scappare anche da mio marito».
Papà si girò verso di me e con un tono piatto mi disse di prepararmi. «Tra mezz'ora ci vediamo alla macchina». Aveva cambiato idea e sotto sotto sembravo sapere perché.
Mia madre cominciò a singhiozzare senza aggiungere nulla. Prima di lasciare la cucina sotto gli occhi severi di papà, vidi che il pezzo di carta che le mani di mamma stavano per tenendo tremanti era una lettera e le prime righe erano scritte con una grafia che conoscevo bene. "Mia dolcissima Cordelia", cominciava, ma non riuscii a leggere altro perché mio padre mi intimò di sbrigarmi. Il rumore di carta strappata mi accompagnò fino all'ultimo gradino della scala.
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