3 - Pappa e ciccia

«Sul serio, non serve tutto questo», indicai con il dito l'ambiente intorno a noi. La tavola calda sulla strada principale di Deadwood non era cambiata dall'ultima volta che ci eravamo stati – e anche in quell'occasione, mi ci aveva portato per addolcirmi perché gli serviva qualcosa che non poteva dire a mamma.

Papà si allentò la cravatta, per poi decidere di sfilarsela del tutto. «Diciamo che sto per chiederti una cosa che non ti ho mai chiesto, perciò devo comprarti per bene», la sua risposta fece ridere entrambi.

«Ha a che fare con lo stare lontana dal nuovo studente?», lo punzecchiai, visto che aveva deciso di concentrarsi sul menù che conosceva a memoria piuttosto che continuare la conversazione.

«Ah, hai parlato con tua madre...», si grattò compulsivamente l'orecchio destro: era un gesto che faceva quando voleva dire qualcosa di negativo su mamma ma non poteva perché ero sua figlia.

«Sì, dovevi vederla. Sembrava quasi spaventata. Sai che ha delle rughe pure lei?», finii di parlare senza guardarlo per attirare l'attenzione della cameriera.

«A dire il vero, ha anche dei capelli bianchi», rispose cercando di alleggerire l'atmosfera.

Seguì una piccola pausa in cui ordinammo un primo e un secondo ciascuno, fino a che la ragazza in grembiule a scacchi non ci chiese se volessimo anche un dolce. «Ma sì», concesse papà, «per quello che ti sto per chiedere, ci vuole». La ragazza non capì di cosa stesse parlando, si limitò a sorridere, trascrivere il mio ordine sul suo libretto sgualcito e ad allontanarsi.

«Deve essere qualcosa di enorme», lo incalzai.

La sua giacca era abbandonata su una sedia vuota accanto al tavolo, e la notai solo quando il suo telefono cominciò a squillare. Si allungò per estrarlo dal taschino interno e sbuffò quando vide chi stava chiamando, mettendo il silenzioso ed abbandonandolo accanto al bicchiere. «Diciamo che il mio è un contr'ordine».

«Nel senso che non devo stare lontano dal nuovo studente?».

Lui mi riservò un sorriso tirato, che gli fece increspare le guance e deformare gli accenni di barba. «No, piccola, tu devi essere pappa e ciccia con quello».

«Pappa e ciccia?».

Annuì, mentre si sistemava il tovagliolo di stoffa all'interno del colletto della camicia bianca e ringraziava la cameriera per averci portato i piatti. «Sì, esatto. Che ti ha detto tua madre su di lui?».

«Che devo stare attenta, che non devo neppure guardarlo e che voi conoscevate i suoi genitori», molleggiai la forchetta prima di infilzare i miei rigatoni, come a rimarcare la sterilità delle parole di mamma.

«E le voci di corridoio a scuola?», rimbeccò, sorridendo come un angioletto quando capì che quella era una cosa che volevo omettere fin dall'inizio. «Sono stato adolescente anche io», si scusò.

«A quanto pare i genitori si stanno separando e l'hanno mandato qui per fargli cambiare aria».

Scosse la testa e dovetti attendere che mandasse giù il boccone per capire perché fosse così poco convinto. «I suoi genitori non si separerebbero mai.  Se anche non andassero più d'accordo hanno quel tipo di mentalità che impone loro il rispetto di alcuni principi antidiluviani, il massimo che è loro concesso è di non condividere lo stesso letto... No, deve esserci dell'altro», continuò a scuotere la testa per altri due o tre bocconi, finché non sentii la necessità di riprendere subito il discorso.

«Secondo te è una coincidenza che lo abbiano mandato proprio qui?».

«No, non lo è. Sono convinto che sia qui proprio perché ci siamo noi. Sai, tua madre non si è comportata molto bene con loro... ma d'altronde, con chi si comporta bene lei...», bevve un avido sorso di acqua, «ma questa è l'occasione che aspetto da una vita, l'occasione di potermi di nuovo trasferire nella mia città natale entrando di nuovo nelle loro grazie, e non me la farò sfuggire solo perché l'orgoglio di tua madre è più forte del suo buonsenso».

«Spiegati». Forse qualche tassello in più mi stava aiutando a capire la situazione, ma sapevo che anche papà era intenzionato ad omettere parti della storia e se voleva che facessi come diceva lui, rischiando di beccarmi le ire di mamma (dettaglio assolutamente da non sottovalutare) doveva essere chiaro.

«Quando scoprimmo che tua madre era in dolce attesa, fummo quasi costretti a partire. Il nuovo studente, Alexander, viene da una famiglia assai influente dalle nostre parti e fare uno smacco a loro equivale ad un suicidio sociale. Per la tua incolumità era necessario allontanarsi, purtroppo però uscire da quel circuito ha più svantaggi che vantaggi».

«Sì, questa parte me l'hai già raccontata. Ma che smacco ha fatto mamma?». Mi aveva già spiegato come loro venissero da una sorta di città diversa, dove c'era tutto un altro tipo di cultura e che avevano deciso di allontanarsi per farmi vivere un'esistenza tranquilla. Nessuno dei due era mai andato oltre quei dettagli, e le mie continue domande sembravano renderli sordi alla mia voce, quindi avevo lasciato perdere. Alla fine mi trovavo bene lì a Deadwood, non serviva andare a cercare dettagli del passato che non mi avrebbero cambiato il presente. Ma questo ragionamento valeva fino a quel momento, in cui si presentava un nuovo personaggio in città con legami così stretti con i miei genitori, e dunque con me.

Sapevo già che quella domanda non avrebbe ricevuto risposta, infatti papà si pulì la bocca con il tovagliolo e porse alla cameriera i nostri piatti. «Non serve tutto questo», ripetei.

«Allora cosa vuoi, tesoro?».

«La verità».

Mi fissò per pochi secondi, ma che sembrarono molti di più. Per un attimo vidi i suoi occhi vacillare, per poi fare un lento assenso con la testa. «Va bene. Ti prometto di raccontarti tutto, ma a tempo debito. Per ora ho bisogno di una talpa che sappia poche informazioni».

«Perché?».

«Perché sono convinto che Alexander non è stato mandato qui per sbaglio: vuole raccogliere qualche informazione, e tu sei quella tra noi che può dargliele con maggiore facilità. Non prendertela, lo so che non lo faresti di tua spontanea volontà, ma anche dai piccoli dettagli si può ricostruire il quadro generale e non voglio lasciar trapelare nulla».

Sbuffai, era una mezza vittoria ma non mi bastava. Aveva promesso, e sapevo che avrebbe rispettato quelle parole, ma d'altra parte la mia curiosità era davvero difficile da tenere a bada. L'unica via che mi stava lasciando era quella di avvicinarmi ad Alexander e capire cosa stava succedendo.

E di nuovo, mia madre si configurava come l'esagerata della situazione. Possibile che mi avesse vietato di conoscere una persona quando mio padre riteneva il caso di entrarci in contatto?

«Se può aiutare, facciamo insieme un progetto».

Rimase stupito da quell'informazione. «Bene, davvero molto bene. Invitalo a casa se vi serve un posto tranquillo dove studiare, a tua madre ci penso io».

«Perché non invitarlo subito, con i genitori?».

Si strozzò con un boccone di patate e dovetti riempirgli il bicchiere più volte prima di poterlo considerare vivo.

«Tesoro, forse è affrettato».

«Appunto. Stupirli subito ed impedire loro di organizzare una tattica», inoltre quella storia che avrei dovuto fare tutto io alle spalle di mamma non mi piaceva, preferivo avere papà scoperto nella sua posizione e lasciare la missione Pappa e Ciccia come piano B.

«Sì... potrebbe funzionare... ma come la mettiamo con tua madre? Wladimir e Cordelia in un colpo solo, ci lascerà le penne...». Non capii ciò che volesse dire – forse si stava riferendo ai genitori di Alexander – ma mi sentii sollevata dal vederlo concordare.

«Mamma stamattina ha mostrato di avere paura di loro. Forse, se facessimo leva su questo e sul fatto che se agiamo subito possiamo farceli di nuovo amici, potrebbe cedere».

Bevve un lungo sorso e propose di attaccare su più fronti. «Se io le dicessi che è meglio sembrare ospitali e fingere cortesia, e tu le parlassi di come Alexander si comporti bene nei tuoi confronti...».

Con l'arrivo del dolce cominciammo ad organizzare le cose da dirle e in che momento farlo, come ad emulare una sorta di lavaggio del cervello. Se lo raccontassi a qualcuno che non conosce mia madre, sembrerebbe qualcosa di macchinoso e gonfiato su una realtà molto più semplice, ma così non era, purtroppo. Bisognava saperla prendere, e questo necessitava pause di riflessione talvolta anche lunghe.

Alla fine del pranzo sembravamo d'accordo quasi su tutto, quindi dirottammo la conversazione su altro. Papà doveva tornare al lavoro, ma prima di salire in macchina si raccomandò di tornare ad un orario consono a casa, così da non destare sospetti.

Decisi quindi di fare una passeggiata verso la biblioteca, così da prendere in prestito il libro per il progetto di letteratura e cominciare a lavoraci su. In realtà, anche io lo avevo già letto, ma mi era piaciuto davvero tanto e non mi dispiaceva rispolverarlo. Purtroppo però l'unica copia era già stata presa in prestito, perciò avrei dovuto scaricarlo da internet quella sera.

Proprio mentre mi avvicinavo al mio quartiere per tornare a casa mi arrivò un messaggio da Samantha. Devo raccontarti TUTTO di oggi! Quando esco dalla lezione ti chiamo!

Senza risponderle continuai il mio tragitto fino a casa, dove mia madre fece finta di non aver avuto nessuna conversazione quella mattina. Stava ricamando una sciarpa sul divano e l'unica cosa che mi disse fu: «È una fortuna che non si sia messo a piovere, con quelle scarpe lì». Anche lei non ricevette risposta.

Salii le scale e quasi mi fiondai all'interno della mia camera, sfilandomi le scarpe per buttarmi a peso morto sul letto. Mi sentivo davvero stanca dopo quella mezza giornata, troppe informazioni e troppa curiosità. Dopo qualche minuto passato a rigirarmi nel letto, decisi di scrivere alla mia amica per sapere come era andata quel giorno con James, e per avere qualche dettaglio su come si fosse comportato Alexander. Lei mi chiamò subito dopo aver ricevuto il messaggio, e dalla sua voce era davvero palese che quel pranzo fosse andato bene. Quando provai a chiedere qualcosa sul nuovo studente, lei cominciò a fare la vocina che utilizzava sempre per schernirmi.

«Sapevo che ti piaceva! Te lo avevo detto!», continuava a ripetermi, senza lasciarmi possibilità di spiegare. E dunque la possibilità di ricavare qualcosa da Samantha era andata. Mi ripromisi di non parlarle più di lui, onde evitare di fomentare quella fantasia, ma lei non demorse. «Dai, ti prego! Perché non fare un'uscita a quattro?».

«Perché sarebbe imbarazzante e perché Alexander non mi interessa in quel senso».

«Allora in quale senso ti interessa?», il suo tono era scettico, e immaginai stesse arricciando il labbro inferiore.

«Niente, sono solo curiosa di questo nuovo studente, non capitano mai novità qui». Una mezza bugia, così da non sentirmi troppo in colpa.

Lei sbuffò, continuando ad essere scettica. «Che strano, anche lui ha chiesto di te oggi».

«EH?!».

«Ma non te lo dirò, visto che non sei interessata in quel senso».

Con la mano libera stavo stritolando il cuscino, ma me ne accorsi solo quando le dita cominciarono a farmi male. «Daaaaaai!».

«Ma scusa, hai detto tu che...».

«Dio quanto ti odio. E va bene! Faremo questa cavolo di uscita a quattro. Ma adesso sputa il rospo!». Da una parte ero lieta che Samantha mi conoscesse così tanto da giocare con il mio punto debole, dall'altra era in grado di piegarmi sempre al suo volere, perché sapeva che nulla mi intrigava di più di dettagli e pettegolezzi.

Lei ridacchiò e cominciò a sciorinare: «Mi ha chiesto dove fossi, è stato davvero carino, si ricordava il mio nome e non penso di averglielo mai detto. Le ho spiegato che eri a pranzo con tuo padre e lui con un sorriso ha detto "Speriamo non sia nulla di grave". Non lo trovi premuoroso?».

Au contraire, dovevo ammettere che ci sapeva fare. Samantha aveva interpretato il suo sorriso in quel modo, ma dubitavo che fosse davvero in pensiero per me, ci conoscevamo appena e il nostro primo incontro non era stato dei migliori. No, doveva essere come aveva detto papà: anche lui era alla ricerca di informazioni, e aveva sfruttato la mia assenza per tastare il terreno. «È una domanda come le altre, per fare conversazione».

«Certo che sei incredibile!».

«Che c'è?».

«Perché non vuoi ammettere che ti piace?».

«Mmm, vediamo. Perché non mi piace come si atteggia, che ha un profumo da voltastomaco, che pare non scorra buon sangue tra i miei genitori e i suoi, che sia c...», non finii di parlare che la sua voce sovrastò la mia.

«Ma è ancora meglio di quanto pensassi! Romeo e Giulietta!».

«Senti, Sam, ora ho da fare...».

«Ma non ho ancora finito di dirti! Facciamo che te lo racconto domani a lezione, ho scoperto che Alexander segue i nostri stessi corsi». Pro: maggiori momenti in cui potevo fare domande senza sembrare scortese in un ambiente affollato; contro: Samantha a studiare ogni mio singolo comportamento e travisarlo a suo favore.

«Yay», sbuffai senza convinzione, per poi salutarla frettolosamente e chiudere la telefonata.

Rimasi ancora un po' sul letto, cercando di decidere cosa fare, ma la mia mente era del tutto vuota. Cosa dovevo fare il giorno dopo? Sicuramente fingere di non sapere quello che mi aveva raccontato Samantha, ma poi? Forse era il caso di chiedere a papà.

Neanche il tempo di tirarmi su e scendere le scale, che sentii il primo piatto volare ed infrangersi a terra. Eccola lì, la fine di un piano mal riuscito: mamma che distruggeva la cucina. A quanto pare il nostro piano di attacco si era mostrato fallimentare e papà non era riuscito a parlarle dei genitori di Alexander e di una eventuale cena.

Il secondo piatto seguì il primo, e andò avanti così per un po', fin quando non persi il conto e decisi di andare ad aiutare papà con il suo destino coniugale.

«Tutti li frantumo!», stava urlando mamma, in maniera isterica. «Tutti! Così vedrai come potrai servire e riverire quelle due serpi!». Dopo i piatti fu il turno dei bicchieri.

Mio padre era seduto sul divano e si stava accendendo una sigaretta, con una calma innaturale. «Suvvia, Gertrude, che potranno mai essere quattro ore intorno allo stesso tavolo...».

«Con un ricevimento più breve, sono rimasta incastrata in un matrimonio con te!». L'ennesima stoviglia andò quasi a segno, colpendo il polso di papà. Come se non avesse sentito il colpo, tamburellò la sigaretta su un bicchiere sbeccato, che si era salvato dall'ira di mamma perché atterrato sul tappeto, e fece cadere la cenere.

«Inutile disperarsi, les jeux son fait. Mi preoccuperei piuttosto di ripulire tutto questo casino, non vorrai che qualche pezzo di ceramica possa tagliarli».

Mamma si scaraventò dalla cucina al soggiorno, dove si trovava papà, e rovesciò il piccolo tavolo che si trovava al centro della stanza, portando giù anche le cornici d'oro con le foto di famiglia. «Come hai potuto! Come!».

«Il massimo che potrà succedere sarà qualche battuta di cattivo gusto, ma chère».

«Come diavolo fai a dirlo? COME?!».

Papà accennò un sorriso, un sorriso che non gli avevo mai visto sul viso. «Secondo te se ti avessero voluta morta, saresti qui ora? L'unica cosa che impedisce loro di torcerti un capello sono io, Gertrude. Pensi che Cordelia ti avrebbe mai perdonato? No, ma ha lasciato la questione in sospeso perché io sono tuo marito. Quindi sarebbe il caso di non farmele girare, che dici? Non vorrei dovermi stancare e chiedere il divorzio», aspirò la sigaretta con nonchalance, espirando lentamente una nuvoletta bianca.

Mia madre non disse nulla, afferrò la borsa ed uscì di casa. Dopo qualche secondo di esitazione decisi di scendere gli ultimi gradini della scala e farmi notare. Ero alquanto turbata, non avevo mai sentito i miei parlare di quelle cose e quasi mi spaventava come mio padre non avesse reagito. Sapevo però che prima o poi mi avrebbe raccontato tutto, quindi non potevo far altro che mordermi la lingua e continuare a tener fede al patto.

«Che succede?».

«Li ho invitati domani sera a cena qui».

«Che ne era del nostro piano?».

Inspirò la sigaretta prima di rispondere. «Ci ho pensato ed avevi ragione: coglierli di sorpresa è la migliore tattica. Ora bisogna vedere come giocarcela sul momento».

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top