12 - Vetri infranti e informazioni omesse
Guillerme bussò più volte prima di aprire a chiave la porta. La osservai aprirsi e lasciar entrare la luce dalla mia posizione a terra, dove avevo passato il resto della notte, o del giorno, o di entrambi. Mi ero allontanata da lì solo per avvicinarmi a tentoni il bagno, senza raggiungerlo – nonostante fosse possibile distinguere i contorni delle cose, gli occhi pieni di lacrime non aiutavano affatto – un paio di volte, nel timore di dover rimettere, per poi tornare allo stesso identico posto, che preservava un po' di calore.
Si avvicinò lentamente, con paura che potessi reagire in maniera inaspettata. «Buongiorno, Victoria».
Sospirai, senza rispondere. Non ero pronta a parlare con lui, a passare di nuovo per pazza o sentirmi dare dell'ingrata perché non osannavo il grande Imperatore. A dire il vero, dubitavo sarei mai stata incline ad ascoltarlo di nuovo. Era chiaro come ai suoi occhi apparissi.
«Ho parlato con Wladimir oggi e abbiamo deciso che sia il caso che tu ti incivilisc... ti abitui alle nostre tradizioni, sono molto importanti».
«Una volta a settimana ci prostriamo davanti al trono e sacrifichiamo il frutto della caccia a Wladimir?», sbuffai, allungando una gamba che formicolava.
Scosse la testa con disappunto. «Imparerai anche questo, ad essere rispettosa nei confronti di chi ci governa».
«Il mio rispetto si basa sulla maniera con cui chi è al governo sia capitato lì».
«Per il merito», si impettì, come se fosse stato insultato personalmente. «Merito così imponente da essere trasmesso di generazione in generazione».
Sospirai di nuovo e lasciai cadere l'argomento. Sembrava di parlare in un'altra lingua, e per quanto avessi passato tutta la notte a piangere e a sfogarmi, mi sentivo ancora il petto pesante. Litigare in quel momento non mi avrebbe giovato, e suppongo avrebbe aggravato solo la mia posizione.
«Victoria... capisco la tua situazione, ma così non andrai da nessuna parte».
«Voglio parlare con Wladimir».
Per un attimo sembrò avere difficoltà di respirazione. «Cosa?».
«Sì, voglio chiarire la questione senza intermediari. Posso andare io da lui, o può venire lui qui, non importa».
«Ma... ma... non si può!».
«Tu hai parlato con lui», stare nella posizione rannicchiata mentre lui era in piedi mi faceva sentire minuscola, perciò mi tirai su e mi stiracchiai, concentrandomi bene su quella grinta che sembrava percorrermi il corpo più veloce del sangue. «Ora è il mio turno».
«Con me è diverso, lui mi convoca».
«Allora io convoco lui», tirai su le spalle, come se fosse la cosa più logica del mondo.
«Non è un dannatissimo cane che puoi chiamarlo ai tuoi tempi».
«Quindi tu lo sei?».
La sua faccia divenne rosso peperone, girò i tacchi e se ne andò senza aggiungere altro, trafficando un po' con la serratura.
Mi guardai intorno studiando la stanza. Avevo bisogno di rinfrescarmi, ma anche di trovare qualcosa con cui passare il tempo e non impazzire. Dovevo scappare, assolutamente.
Saltai in piedi quasi come quel pensiero mi avesse dato forza e cominciai ad osservare la serratura, nella speranza fosse vecchia o manomessa per superarla. Ma dopo quella ci sarebbe stato quel dedalo di corridoi, era impossibile che non incontrassi qualcuno...
Feci dietrofront e notai una porta, di fronte al letto impolverato. Nella speranza fosse un bagno, così da avere una finestra più accessibile, la spalancai sentendo qualcosa dietro fare resistenza. Sconfortata fissai quello che in origine era stato un bagno, trasformato in magazzino.
Grazie alla luce del giorno che filtrava attraverso la finestra sporca riuscii a trovare la scatola dei fiammiferi. Ne scelsi uno da terra e lo sfregai, per poi avvicinarlo ad una candela quasi consumata, che mi aiutò a illuminare quel magazzino alla ricerca di qualcosa di utile. Nulla, non c'era neppure pezzi di metallo che avrei potuto usare come primitive chiavi per scassinare una porta. Che poi, come si scassinava una porta? Avrei dovuto far leva su qualche ingranaggio interno, forse quel pezzetto di legno caduto dal manico della scopa lì in fondo... no. Se si fosse rotto all'interno della serratura avrei anche dovuto dare spiegazioni, e magari sarei pure finita in una stanza sorvegliata...
L'unica era il buon vecchio metodo delle lenzuola dalla finestra. Dubbiosa, cercai di spingere ancora di più la finestra, ma la mano scivolò per la troppa polvere e il gomito cozzò con il vetro, frantumandolo. Osservai nel panico i pezzi che cadevano e poco dopo sentii un urlo. Tentai di sporgermi per assicurarmi di non aver fatto male a nessuno e vidi una donna con il volto coperto dalle mani, immobilizzata dalla paura. Lentamente guardò in alto e mi vide, allargando ancora di più gli occhi, che da spaventati divennero sospettosi.
Diamine.
Si riscosse e continuò il suo cammino, entrando nel castello da una porta esattamente sotto la finestra. Mi cominciarono a formicolare le mani e cercai con frenesia qualcosa per aprire la porta. Doveva esserci qualcosa!
Quella donna sarebbe salita, avrebbe appurato che quella era una stanza inutilizzata e avrebbe chiesto spiegazioni, gettandomi ancora di più nei guai. Non potevo continuare ad affacciarmi alla finestra, probabilmente qualcuno aveva sentito il rumore di vetri infrangersi e avrebbe curiosato.
Aprii il primo cassetto che vidi e cominciai a spostare le cose alla ricerca di un ferretto. Nulla, solo carta straccia e qualche candela rotta. Il secondo, uguale, e così il terzo, il quarto... quando tentai di aprire il quinto, il pomello mi rimase in mano. Attaccato ad esso, un chiodo molto fino minacciava da un momento all'altro di staccarsi. Provai a tirarlo con forza e mi rimase in mano.
«Sì!».
Corsi verso la porta per infilarlo nella serratura quando attraverso di essa vidi qualcuno con una lunga gonna nera avvicinarsi. Si mise davanti alla porta, coprendomi la visuale, e bussò vigorosamente facendomi squittire dalla sorpresa.
«Apri!», disse una voce femminile, in maniera così autoritaria che mi sentii una bambina disubbidiente.
Nascondermi lì non sarebbe servito, presto o tardi sarebbe arrivato qualcuno... fingere avrebbe solo peggiorato tutto.
«Non posso... è chiusa a chiave».
«Cosa?», sembrava quasi un ringhio.
«È chiusa a chiave», ripetei con voce più alta, con il timore di aggravare la situazione.
La vidi allontanarsi a lunghe falcate, come se fosse furiosa per poi tornare prima ancora che potessi andare nel panico e immaginare i possibili scenari – in nessuno di questi sarei finita bene, comunque.
La serratura si fece nera. Quando capii che stava girando la chiave era troppo tardi per tirarmi su e cercare di darmi un contegno: la donna mi trovò appollaiata davanti alla porta, a fissare la sua gonna.
Rossa dalla vergogna mi tirai lentamente su, con i suoi occhi che non la smettevano di analizzare ogni minimo movimento. «Che stavi facendo?».
«Io... ehm... stavo tentando di...». Continuava a fissarmi impassibile, in attesa. «Ecco... di uscire fuori da qui».
«Di scappare?».
«S-sì».
«Chi accidenti ti ha chiusa qui dentro?». Il suo sguardo vagò per la stanza, soffermandosi su cassetti rovesciati e la finestra aperta. «Ti ho fatto una domandaۛ», mi inchiodò con gli occhi dove mi trovavo, che si assottigliarono quando sentì il nome di mio zio. «Come ti chiami?».
«V-victoria...», prima ancora che decidessi quale cognome fosse quello giusto, se quello portato da una vita o quello che mi aveva attribuito Guillerme la notte prima, lei annuì e mi interruppe.
«Beh», sospirò, «suppongo che dovremo trovarti una sistemazione migliore». Mi allungò la mano, ma di riflesso feci un passo indietro. «Non si usa così da voi per presentarsi?», alzò le sopracciglia, in un misto di confusione e stupore.
«Ehm, sì, signora», risposi imbarazzata, allungandomi per stringerle la mano.
«Chiamami pure Cordelia».
Mi irrigidii pensando a tutto quello che mi era stato raccontato su di lei. Era dunque lei quella a cui mia madre aveva fatto un torto, per cui era stata costretta a fuggire?
Dovette accorgersi del mio cambio di postura perché accennò un sorriso e disse: «Non temere, tra me e la tua famiglia non scorre buon sangue, ma suppongo di non poter far pagare ai figli gli errori dei genitori». Le sue parole però non sortirono un buon effetto, perché si limitò ad invitarmi ad uscire dalla stanza.
«Mi dispiace per la finestra», sussurrai.
«Questa stanza è inutilizzata per un motivo, non è colpa tua», la tranquillità che trasmetteva dalla voce era contraddetta da una mano stretta a pugno. «Chiederò lumi al responsabile».
Quelle parole mi fecero rivoltare lo stomaco. Sì, forse era una reazione esagerata, ma da quello che mi aveva trasmesso papà nel non dire certe cose... Mi stavo facendo influenzare dalle paure dei miei genitori? Non erano tipo degli stereotipi? Non conoscevo quelle persone, eppure sembrava che Wladimir fosse il contatto di emergenza per il tribunale dei minori e Cordelia, che aveva avuto il motivo per odiarmi su un piatto d'argento, camminava disinvolta accanto a me e mi spiegava ogni corridoio dove portava, forse più per rompere il silenzio che per cortesia.
Forse sul serio la pazza ero io.
Dopo una lunga passeggiata per quel dedalo, Cordelia mi mostrò una porta. «Questa è la mia ala, da ora in poi sei mia ospite. Per qualsiasi cosa, chiedi ai soldati», indicò quelle che per tutto il tempo avevo creduto fossero armature in esposizione, «altrimenti accanto al letto trovi una corda, tirala e salirà qualche cameriera. La mia stanza è alla fine del corridoio, non ti fare remore a cercarmi se ne hai bisogno. Tornerò più tardi a sapere come va, nel frattempo serviti pure dei vestiti che trovi nell'armadio».
«Non so come ringraziarvi... Vostra Altezza?».
«Non serve», accennò un sorriso, «chiamami pure Cordelia».
Annuii, senza sapere cosa dire.
«Ah... Victoria, posso farti una domanda?». Senza attendere il mio assenso si avvicinò e mi strinse le mani nelle sue. I suoi occhi esprimevano una forte necessità. «Sai dov'è il mio Alexander?».
Il quel momento il mio cervello si ricordò della sua esistenza. Che avrei dovuto fare? Mentirle quando era stata così cortese con me, quando era evidente che le mancasse?
Ricordavo però anche l'esigenza di Alexander di fuggire, di mettersi alle spalle quella vita che mi stavano costringendo ad abbracciare. Così come avevo voluto io scappare, non potevo negare quella stessa possibilità a qualcun altro. E se poi fosse tornato, avrebbe saputo chi era ad aver fatto la spia, mentre potevo mentire a Cordelia e sperare che lui non facesse più ritorno.
Anche se... anche se un amico lì mi avrebbe fatto comodo. Ma non potevo tradirlo in quella maniera.
«No», sussurrai.
Lei sospirò profondamente. «Se dovesse venirti in mente qualcosa, me lo dirai?».
«Sì».
«Va bene», sciolse le nostre mani. «Anche sentirlo solo per sapere se sta bene...», non risposi, sembrava stesse parlando più con se stessa che con me. Senza aggiungere altro percorse a ritroso il nostro cammino e sparì dietro l'angolo, mentre io sentivo la necessità di nascondermi, di sparire.
Le avevo mentito dopo che era stata l'unica a mostrarmi gentilezza dopo la morte dei miei. Le avevo fatto un torto esattamente come mia madre...
Girai la maniglia, entrai nella stanza e chiusi a chiave la porta. Cominciai a studiare l'ambiente intorno a me per distrarmi dai singhiozzi.
Stupida, stupida, stupida.
Il letto era matrimoniale a baldacchino, con le lenzuola grigio fumo che sembravano appena uscite dalla lavatrice, mentre il letto della stanza di Guillerme era avvolto in uno spesso strato di polvere e capelli. Quella comparazione mi spinse a buttarmici sopra a peso morto, saggiando il morbido materasso e sentendo la rete sotto scricchiolare ai miei movimenti. Da sdraiata continuai ad osservare quello che sembrava un misto da un comò e una toeletta, con un gigantesco specchio che illudeva ci fosse molto più spazio, un armadio così alto da sfiorare il soffitto e una porta che cozzava un po' con lo stile antico del mobilio, che sicuramente faceva accedere al bagno.
Con il corpo pesante decisi di meritarmi un bagno caldo, in cui avrei potuto rimuginare esattamente come stavo già facendo, ma in ammollo. Superata la porta capii che quell'ambiente fosse stato aggiunto in un momento successivo, sia per la presenza di prese elettriche – che né nella stanza di Guillerme né in quella di Cordelia avevo trovato – sia per lo stile dei sanitari.
Al centro, probabilmente più per gusto personale che per razionale sfruttamento dello spazio, capeggiava una vasca ovale che dubitavo potesse contenermi se non rannicchiata. Ma non importava. Aprii l'acqua più calda possibile e in attesa che si riempisse afferrai al volo un pantalone e una maglietta, senza soffermarmi sui colori o modelli.
Durante quel bagno cercai di non pensare a nulla, ma fu impossibile. Demoni, antichi dissapori, io che mentivo a quella che sembrava l'acerrima nemica di mia madre... che poi, acerrima non sembrava. Non era ormai una parola usata solo nei film dei supereroi?
E soprattutto, io che ruolo avevo in tutto quello? Certo, da una parte non potevo addossarmi le colpe dei miei, ma allo stesso tempo sembrava che dovessi comunque portarne la croce, e le guardie fuori le mura lo avevano mostrato in maniera chiara.
Poi... avevo mentito a Cordelia. Se ne sarebbe accorta? Me l'avrebbe fatta pagare? O era solo un modo per mettermi alla prova, già sapendo dove si trovava Alexander?
Sperai che almeno lui fosse riuscito nell'intento di allontanarsi da quella che sembrava una storta rievocazione del medioevo.
Uscita dalla vasca mi soffermai un po' davanti allo specchio. Non somigliavo ad un Demone... ma a cosa somigliavano loro? Sembravo sempre la solita Victoria, forse con un accenno più pronunciato di occhiaie, ma nulla che non potessi sopportare. Le ipotesi di una candid camera erano svanite, e così la mia speranza di poter scappare.
Davvero ero nelle mani di Cordelia, a questo punto? Davvero ero nell'occhio del ciclone da cui i miei genitori avevano tentato di allontanarmi?
In fin dei conti, sembrava meglio Cordelia che Wladimir però, e la donna aveva mostrato affetto per mio padre, forse lei vedeva quello in me.
Fissai la mia sosia nello specchio e sussurrai, più come una preghiera che come una speranza: «Alexander, dannazione, resta nella tana che ti sei trovato».
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