1 - Paranoie e banalità
«Victoria, un attimo per favore», richiamò la mia attenzione mamma, mentre scendevo le scale e sistemavo meglio sulla spalla lo zaino pesante. Si stava tormentando le mani così tanto da creare delle zone pallide dove i pollici stritolavano la pelle. Mi guardava in maniera quasi inquietante, così intensamente da pensare subito che qualcosa non andasse. Sbuffò per la difficoltà di respirare così forte che riuscii a sentirla dall'entrata della cucina, facendo ondeggiare una ciocca che le era sfuggita dalla coda. Aveva due forti solchi sulla fronte dovuti alle ciglia aggrottate, ed era una cosa che non faceva mai perché sembrava che tutto fosse troppo superficiale per poterle generare delle rughe.
«Dimmi». In altre circostanze l'avrei lasciata perdere, vuoi perché aveva delle fisse assurde che mi infastidivano, vuoi perché non avevamo mai avuto quel rapporto madre-figlia che ci faceva preoccupare l'una dell'altra. Ma quel giorno era diverso, lo potevo percepire da come papà non stesse facendo colazione davanti alla televisione, con un sorriso a trentadue denti alle sette e mezza del mattino, da come i piatti della sera prima non fossero stati lavati e dalle sue occhiaie che lasciavano intendere una notte insonne.
«Oggi alla tua scuola ci sarà un nuovo studente». Sì, beh, in una cittadina così piccola come la nostra era una novità, ma non spiegava il turbamento di mamma. «Non ti avvicinare a lui, non guardarlo neanche se ti è possibile».
Fu il mio turno di aggrottare le sopracciglia. In che senso? «Okay, facciamo un passo indietro. Non ho capito praticamente nulla. Questo ragazzo è pericoloso?».
«Sì, tesoro, non sai quanto». Tesoro. Tesoro. Mi chiamava così quando aveva bisogno di sottolineare qualcosa, e sempre e solo in tono sarcastico. Ma non l'avevo mai vista seria come in quel momento.
«E tu come lo sai?».
Sospirò. «Diciamo che... beh... conosco i suoi genitori. Anche tuo padre li conosce e...», si morse il labbro inferiore, oscillando gli occhi da una mattonella all'altra della parete dietro di me. Non voleva dirmelo, chiaro.
«E sono pericolosi», conclusi per lei.
«È un eufemismo, come minimo», la sua risposta arrivò veloce, silenziosamente grata che l'avessi spogliata dal dover rispondere.
Ma la mia curiosità era più forte del leggero sollievo che aveva addolcito i tratti del suo viso. «Ho capito, ma', ma come li conosci tu questi genitori? Come fai a dire che sono pericolosi?».
Scosse la testa, muovendo la mano da destra a sinistra con il palmo verso il basso, come a fendere l'aria. Atmosfera ansiosa ufficialmente finita per lei, tornò al suo solito atteggiamento imperturbabile e si limitò a rispondere: «Tu fa' come ti dico e stagli lontana. I pochi che hanno osato avvicinarsi troppo hanno fatto una brutta fine». So che non era la situazione giusta, e che probabilmente avrei dovuto dare importanza a quel raro momento di mia madre che la rendeva quasi come tutti noi, ma l'unica immagine che mi veniva in mente era questo ragazzo con i serpenti al posto di capelli, che rendeva tutti statue al solo sguardo.
E forse sotto sotto sapeva che non mi stava allarmando, ma esattamente il contrario. «Va bene, come dici tu, sto facendo tardi però».
Senza alcun cenno o saluto mi diede le spalle e cominciò a mettere a posto il contenuto della sua borsa, fingendo che non fossi più lì. Wow, quanto era durato quel momento? Dieci minuti? Mia madre in dieci minuti era riuscita a mostrare dei sentimenti e, allo stesso tempo, per la prima volta in diciassette anni di vita si era calata nel ruolo di genitrice. Sarebbe dovuta diventare festa fissa per me e per papà.
Uscii di casa e mi incamminai verso scuola. Passo dopo passo cominciai ad analizzare quanto detto da mia madre. Se anche fosse stato così pericoloso come diceva, come poteva esserlo in una scuola piena di persone? E poi non mi tornava questa cosa che lei conoscesse i suoi genitori, era un tipo che non legava praticamente con nessuno, dunque loro erano un'eccezione? Mi ripromisi si chiedere a papà al mio ritorno per avere un quadro più chiaro.
A pochi metri dall'istituto dovetti cominciare a correre per entrare in aula dopo la campanella. La professoressa Domini, l'insegnante di spagnolo della prima ora, era molto severa e già non correva buon sangue tra di noi, meglio non peggiorare la situazione. Riuscii a prendere posto proprio qualche secondo prima che lei facesse la sua comparsa sulla soglia dell'aula, impedendomi di girarmi per salutare i miei amici nelle file posteriori.
I suoi capelli ricci e scuri erano sempre gli stessi, mai una ciocca acconciata in modo diverso, persino quando scuoteva la testa non si muovevano. I suoi vestiti avevano tutti lo stesso identico taglio, cambiavano solo i colori o gli orecchini, quasi come il personaggio di un videogioco. Aveva tra le mani un fascicolo molto spesso, che portava come si porta un trofeo del primo posto, e significava solo una cosa: compito in classe a sorpresa.
Molti studenti sbuffarono, altri si fecero prendere dall'ansia di non aver studiato la sua materia, uno addirittura prese il telefono per avvertire eventuali ritardatari di non entrare.
«Spero abbiate con voi i vostri dizionari», disse con tono piatto, ma i suoi occhi mostravano una sorta di sadico divertimento. Aveva appena finito di spiegare un argomento piuttosto complesso, sapeva che più della metà di noi non avrebbe passato quel test, e a lei stava bene così. Non so perché avesse quel modus operandi, forse perché si rendeva conto che la sua materia non era delle più quotate all'interno dell'istituto e pensava che una sfilza di voti negativi le avrebbe fatto guadagnare qualche ora di lezione in più il prossimo anno.
Senza neppure sfilarsi la borsa in prossimità della cattedra, cominciò a camminare tra i banchi per cambiare le disposizioni, isolare i secchioni e mettere i più furbetti più scoperti possibile.
«Augustine», sibilò posando gli occhi su di me. Quel suo modo di parlarmi e gli sguardi che mi lanciava attraverso la montatura pesante leggermente storta verso sinistra mi infastidiva ogni giorno di più. Con quella mascella che si chiudeva a punta sotto il mento e quel trucco così retrò che cercava di affinare le palpebre non mi sarei stupita a vederle spuntare una lingua biforcuta tra i denti. «Alla cattedra».
Cercando di non mostrare il mio disappunto per non generare altri scambi di parole con lei, presi lo zaino e mi diressi alla mia nuova postazione, conscia che i suoi occhi sarebbero stati ben fissi su di me per tutta la durata del compito. Era quasi da ammirare come ce l'avesse con me per qualsiasi cosa.
In fin dei conti il test non era neanche troppo difficile, se si erano seguite le sue lezioni – cosa che avevo fatto, perché ahimè la sua materia era la mia preferita, la adoravo così tanto da non lasciarmi scalfire da chi la insegnasse. Attesi il suono della campanella per consegnarglielo – anche se sarebbe più corretto dire che me lo strappò dalle mani – per evitare di lasciar intendere che potevo averlo copiato.
Appena fuori dall'aula si avvicinò Samantha. Era una ragazza davvero carina, con dei boccoli stretti e scuri che le arrivavano quasi fino alla vita, sfidando la forza di gravità. Si sistemò gli occhiali mentre guardava la professoressa dall'altra parte della porta, che stava mostrando un'espressione soddisfatta sul compito disastroso di chissà chi. «Ehi, Vic, secondo te la seconda domanda non era un po' illogica?».
Annuii, cominciando a camminare verso la nuova lezione. «Sì, l'ho notato anche io. Come se si fosse resa conto che l'unico modo per non farci rispondere sia quello di rendere tutto incomprensibile».
Samantha emise un sospiro di sollievo. «Menomale, pensavo di aver sbagliato! O meglio, sì, ho sbagliato, ma ho sbagliato giusto!».
Risi di quella frase, mentre dietro di noi una voce sbuffò: «Solo tu riesci a ridere sapendo di prendere un votaccio con la Domini».
Samantha si girò verso James, che mostrava una faccia scocciata, e gli disse che non ci si poteva fare nulla con la Domini, tanto valeva prenderla con leggerezza. Lui sbuffò, senza aggiungere nulla, e ci seguì alla prossima lezione.
«Oggi il professore di letteratura ci assegna il nuovo libro da leggere», ricordò Samantha.
Fu il mio turno di sbuffare. «Sì, le solite cose. Quante volte ci ha fatto leggere Moby Dick?».
«Ehi, di che ti lamenti, almeno puoi riciclare le recensioni degli scorsi semestri», disse James, prima di girarsi e salutare un amico. «A proposito di cose che non cambiano mai, avete sentito che c'è un nuovo dannato in questo girone dell'inferno?».
«Mmm sì, ho sentito», risposi incuriosita, senza dare troppi dettagli. «Ma non ho capito bene la situazione, sai come mai è qui?».
«Gira voce che i genitori si stiano separando e che il padre lo abbia mandato qui come sorta di diversivo-vacanza per non farglielo pesare», James si strinse le spalle. «Nessuno sa se sia un trasferimento permanente. A dire il vero, non l'ho neppure visto lungo i corridoi stamattina». In una cittadina così piccola era normale che tutti si conoscessero. Un volto nuovo attirava immediatamente l'attenzione e con sé il giro di chiacchiere.
«Perché, eri abbastanza sveglio da distinguere le facce stamattina?», lo prese in giro Tyler mentre si univa al nostro gruppetto. «Sai, a volte penso seriamente che ti droghi di prima mattina. Ti ho chiamato tre volte e sembrava fossi in trance».
James ridacchiò. «Scusa, fratello, ieri sera ho fatto un turno massacrante al pub. Passa stasera che ti offro una birra!».
«Ehi, a noi la birra non la offri?», finse fastidio Samantha, ma con quelle guance troppo rosse e i denti da coniglietto era impossibile prenderla sul serio. James arrossì, mentre balbettava qualcosa sul fatto che l'invito per lei era sempre valido, per poi correggersi ed estenderlo a tutti i presenti. Io e Tyler ci scambiammo uno sguardo complice, mentre i due non sapevano come continuare il discorso senza cadere ulteriormente nell'imbarazzo.
«È tardi», dissi, ricevendo due sguardi grati di aver cambiato argomento e uno scocciato che non aveva finito di gustarsi la scena. «Mi sento che il professore rispolvererà Dickens oggi».
«Va bene tutto, basta che non sia Shakespeare», si lamentò James, ma dai suoi occhi l'imbarazzo era ancora dietro l'angolo.
Quando entrammo l'aula era ancora semivuota; i banchi singoli erano stati disposti in maniera un po' diversa dal solito, accoppiati come a creare un banco per due persone. Il professore era già alla cattedra, smanettando sul cellulare che sembrava non voler recepire i suoi comandi manuali. A differenza della Domini, il professor Ross era cambiato molto nelle ultime settimane, una sorta di invecchiamento precoce che gli aveva fatto guadagnare un importante diradamento al centro della testa ed una barba più bianca che scura.
L'attenzione però si spostò immediatamente all'ultimo banco, dove un grappolo di studenti fissava affascinato qualcosa. Mi avvicinai abbastanza da scrutare tra le varie teste cosa ci fosse di così interessante e incrociai gli occhi con un ragazzo che non avevo mai visto. D'istinto scostai lo sguardo, per poi decidere di lasciarlo perdere. Forse era il caso di capirci qualcosa prima di decidere se parlargli o meno, e in ogni caso non avrei avuto le risposte che cercavo con tutte quelle persone intorno.
Scelsi un banco e cercai Samantha per sapere se mi avrebbe fatto compagnia, ma notai con piacere che stava parlando da sola con James, con le gote sempre più rosse, quindi lasciai perdere. Tyler era già stato preso da un suo amico, e stavano ridendo e scherzando con il nuovo arrivato, dunque presi posto senza preoccuparmi di cercare un compagno.
Il professore si schiarì la gola e tutti presero posto, lasciando la sedia alla mia destra vuota. Si alzò e tirò fuori dalla sua borsa un sacchetto. «Buongiorno ragazzi. Come avete notato, abbiamo un nuovo studente oggi. Lascio a voi le presentazioni, in quanto oggi voglio introdurre con voi un nuovo modo di leggere i libri e recensirli». Agitò il sacchetto, prima di cominciare a camminare tra i banchi. «Ma prima... Victoria, posso chiederti di sederti accanto al nostro nuovo arrivato?».
Mi girai verso l'ultimo banco e notai che anche lui era senza compagno. Annuii, presi lo zaino e mi andai a sedere vicino a lui. La prima cosa che notai fu il suo profumo pungente, che mi fece venire voglia di starnutire. Bleah. Lui dovette notare la mia espressione, perché mi squadrò dalla testa ai piedi con fare altezzoso. Scrollai le spalle senza preoccuparmene e mi concentrai sulla voce del professore.
«Ho pensato che invece di assegnare lo stesso titolo all'intera classe, fosse il caso di assegnarne uno a coppia. All'inizio volevo farne uno ciascuno, ma poiché tutti i titoli che estrarrete non vi sono mai stati assegnati, ho pensato che per un esame approfondito fosse necessario un lavoro di squadra».
Da lì dietro riuscii a vedere tutti gli sguardi confusi e scocciati dei miei compagni. Senza aggiungere altro e fingendo di non sentire le lamentele, il professore cominciò a sfilare per i banchi, permettendo ad ogni coppia di estrarre il proprio bigliettino. Mano a mano che le mani venivano infilate nel tessuto, si levavano sempre più voci polemiche. Arrivato a noi, il professore ci informò che c'erano solo due bigliettini. «Quello in più è della coppia di assenti».
Il nuovo studente non mi guardò neppure per sapere se volessi estrarre io, si drizzò sulla sedia e tirò fuori il pezzo di carta spiegazzato, per poi leggerlo e roteare gli occhi. Attesi qualche istante nella speranza che si girasse verso di me e mi rendesse partecipe del fato, ma così non fu.
«Scusami», dissi, anche un po' scocciata a dire il vero. «Posso leggerlo?», indicai il bigliettino ancora tra le sue mani.
«È Alice Nel Paese Delle Meraviglie», rispose atono. «Alquanto banale».
Non riuscii a reprimere di nuovo la smorfia iniziale, anche se questa volta era indirizzata al suo comportamento. «Quindi? Come ci organizziamo per analizzarlo?».
«L'ho già letto. Facciamo che io detto e tu trascrivi».
«Come scusa?».
«Sei sorda?», sbuffò.
La mia risposta venne interrotta dal professore che ci spiegava le modalità di svolgimento: stava indicando il sito da cui scaricare il fac-simile e stava cominciando già una ramanzina su cosa sarebbe accaduto se non si fosse rispettato il termine, finì con il sottolineare che tutti i libri che ci aveva assegnato erano ormai privi di diritti di copyright, quindi facilmente scaricabili online. «Potete cominciare adesso, fino alla fine dell'ora. Dopo di che dovrete sviluppare il lavoro a casa, perché durante le lezioni ci concentreremo su altro».
«Quindi dobbiamo organizzarci», esordì il nuovo ragazzo.
«Sì, esattamente quello che ho detto due minuti fa».
Mi guardò come si guarda un fastidioso alieno. «Sì, ma non vedo una penna tra le tue mani».
«Perché non ho intenzione di fare lo scriba. Dobbiamo analizzarlo insieme», ormai stava diventando una questione di principio, il suo atteggiamento mi dava alquanto sui nervi.
«Vuoi davvero perdere tempo su questa stupidaggine, quando con mezz'ora possiamo togliercelo dai piedi?». Alzò un sopracciglio, e rimasi un po' a studiarlo meditando la risposta. Aveva sia i capelli che gli occhi scuri ed appena sopra la fronte un ciuffo più lungo si stava timidamente arricciando. La mascella squadrata ed il naso dritto dava fin troppo l'idea di un volto simmetrico, interrotto solo da un piccolo neo appena sotto l'occhio sinistro.
«A me quello che sta perdendo tempo appresso ad una stupidaggine sembri tu».
A quanto pare il nostro piccolo battibecco era stato notato all'esterno, perché il professore si avvicinò e ci chiese come intendevamo organizzarci. «Non è possibile cambiare compagno?», chiese il ragazzo. «Ci sono due assenti, non possiamo essere assegnati ognuno ad un assente?». Quella proposta era alquanto sensata e io non vedevo l'ora di smettere di parlarci. Sul serio, aveva quel modo di porsi che detestavo così tanto da rimpiangere lo sguardo pietrificante.
«La ragione di questo piccolo progetto è proprio quella di collaborare, Alexander. Suggerisco di mantenere la coppia così e superare eventuali divergenze». Senza aggiungere altro si allontanò per sedare un altro litigio qualche banco più un là.
Ci lanciammo uno sguardo a metà tra il fastidio e la noia.
«Ma se lo fai tu e poi ci metto sopra anche il mio nome?».
«Sì, come no, ti piacerebbe», sbuffai.
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