2 - Tozzo di pane ♛
Una guardia cominciò a mettersi accanto alla mia cella, probabilmente volevano controllare che fossi in forze per poter tornare a fare lo zimbello di Corte. L'uomo, sempre lo stesso, mi raccontava di come i Silentowl si fossero insediati al posto dei Bloodwood, di come fossero dei tiranni che giravano sempre armati. I pochi che si erano ribellati erano stati uccisi sul colpo, mentre gli altri avevano dovuto fare giuramento di fedeltà. I servi che non avevano fatto del loro meglio erano stati fustigati pubblicamente.
Io lo ascoltavo senza rispondere, con lo sguardo nel vuoto, tanto che qualche volta la guardia era stata costretta ad avvicinarsi per essere sicura che respirassi.
«Il dominio dei Bloodwood era giusto ed imparziale. Purtroppo si apprezzano le cose solo quando le si perdono», aveva detto un volta, sperando forse in una risposta da parte mia, che ovviamente non arrivò. «Mi dispiace per tutto questo, mia signora, ma se non rispetto le regole la mia famiglia verrà trucidata».
Non sapevo quanti notti insonni fossero passati, ed aveva troppa paura per chiederlo. Lui non me lo disse, e gliene fui grata: dopotutto il dolore continuava ad essere vivido, quasi palpabile, nonostante il trascorrere del tempo.
Il vestito cominciava a starmi largo, dato che rifiutavo di mangiare, una triste metafora della vita: non avevo raggiunto appieno il mio sogno, non ero riuscita nel mio infantile intento di vivere per sempre felice con il mio amore. I miei polsi erano fragili, le palpebre sempre più pesanti, ma la mente continuava ad essere tartassata dai ricordi, fulminando a volte il cuore con fitte più profonde.
Uno di quei tanti giorni ormai uguali, degli uomini riempirono la cella di fronte alla mia. Incrociai solo una volta lo sguardo del nuovo carcerato, permettendo alla curiosità di prendere leggermente il posto del dolore. Oltre le sbarre, Wladimir mi restituì uno sguardo vuoto, e sospettai fosse lo specchio del mio.
Le guardie divennero due e cominciarono a parlare e fare amicizia, facendo leva sulla tipica solidarietà nei momenti di disgrazia. Solidarietà che non toccò né me né Wladimir. A differenza mia, lui mangiava i tozzi di pane che ci venivano portati.
Mildred scese con più costanza a fissare Wladimir, che continuava a lanciarle occhiate di fuoco.
«Dov'è Cordelia?», le chiese una volta con voce atona.
La donna aprì la bocca e gli indicò il mozzicone tra i denti, con occhi velati di furia.
Wladimir sbuffò. «Non me lo avresti detto neanche se la tua lingua fosse ancora lì, meretrice».
Dopo che Mildred se ne fu andata con un gesto di stizza, lui rivolse la mia attenzione a me.
«Mi dispiace per tutto questo, Victoria».
Dispiace anche a me, risposi con il pensiero. Non lo vedevo - ormai i miei occhi erano fissi nel vuoto - ma lo conoscevo abbastanza per sapere che aveva aggrottato le sopracciglia.
Quando ci porsero un tozzo di pane, la fame fu troppa, e lo accettai. Il ragazzo che mi aveva portato la cena mi diede anche un bicchiere d'acqua. Senza alcun tipo di energia, provai a mordere il pane, ma era troppo duro. Probabilmente avanzi.
Lo avvicinai al ragazzo, che attendeva che finissimo per andarsene. Le guardie erano anch'esse a cena, ma dubitavo mangiassero quello che rifilavano a noi.
Mi osservò come se fossi un'aliena. «Ti dispiace tagliarmelo?», chiesi, e mi spaventai della mia stessa voce. Era così... spenta.
Lui sbuffò, infastidito e mi guardò in cagnesco. «Vostra Altezza», mi schernì, «per una volta perché non fate da sola?», e mi lanciò il pugnale che teneva alla cinta. Cadde a terra, oltre le sbarre, e mi sporsi per prenderlo.
Incrociai gli occhi di Wladimir, che fissavano la lama come se fosse una salvezza. Ed all'improvviso mi venne un'idea. Dovette leggermela negli occhi, perché mi fulminò con lo sguardo e scosse la testa. Io gli rivolsi solo uno sguardo addolorato.
«Scusa», mimai con le labbra, mentre lui afferrava le sbarre e le scuoteva, continuando a farmi di no.
Impugnai bene l'elsa e lo affondai nell'incavo del gomito, mentre il dolore da psicologico diventava fisico. Soprattutto fisico.
La mano che teneva il pugnale cominciò a tremare, ma non mi importava. Stavo mettendo fine a tutto. Con le poche energie che mi restavano tirai forte il coltello, ancora nella carne, fino al polso. La ferita sull'avambraccio si aprì come un fuso tirato.
In quella che mi era parsa una vita precedente, ero la tipica ragazza asociale che preferiva libri e serie tv ad uscire la sera. Tra i tanti episodi visti e rivisti, mi ricordavo la prima stagione di American Horror Story, dove uno dei protagonisti, Tate, diceva che se volevi suicidarti dovevi tagliarti le vene verticalmente, seguendo la linea del braccio, perché così la ferita non si sarebbe mai rimarginata.
Il braccio offeso cominciò ad essere scosso da spasmi, mentre io cercavo maldestramente di cambiare mano e fare un taglio simile, quando Wladimir urlò: «Ragazzo!».
Questo alzò gli occhi, allarmato, mentre l'ex sovrano mi indicava frettolosamente. Quando si accorse di ciò che stavo facendo, infilò le mani tra le sbarre, cercando di riprendersi il pugnale.
«Usa le chiavi!», ringhiò Wladimir.
«Non ce l'ho, sono solo l'addetto a sfamarvi!», rispose lui.
Io mi buttai contro la parete di fondo, con ormai entrambi gli avambracci squarciati. Il dolore non lo sentivo più, perché ogni goccia di sangue che usciva, cadendo come pioggia sulla pomposa gonna bianca, portava con sé una brezza leggera di sollievo. Più quel liquido scarlatto usciva dal mio corpo, più il dolore diveniva solo una copia sbiadita di ciò che era stato.
Avida di quella sensazione, tentai di avvicinare la lama alla gola, ma le gambe cedettero. Sentivo in lontananza Wladimir urlare il mio nome, mentre il ragazzo probabilmente era scappato a chiamare aiuto.
Da una parte comprendevo Wladimir: forse ero tutto ciò che gli restava. Ma a me non era rimasto nulla, se non ricordi che sfumavano piano piano, rendendo la figura del mio Alexander un alone indistinto. Non mi ricordavo neppure più i suoi occhi, nonostante sapessi fossero neri. A che scopo continuare a vivere? A soffrire?
Le energie cominciarono ad abbandonarmi, e con esse il senso di vuoto nel petto. Paradossalmente, mi reputavo fortunata ad aver avuto quel pugnale fra le mani. Caddi al suolo, ma mi sentivo quasi libera dal corpo. Eterea.
Delle urla provennero dalla tromba delle scale, mentre delle voci lontane urlavano che gli Angeli avevano abbattuto le difese e che stavano invadendo il Palazzo.
Questo mi fece provare una perversa soddisfazione: il regno dei Silentowl era durato davvero poco, abbattuto dal nemico giurato dei Demoni. Ma tanto, sarei stata comunque una prigioniera, se non peggio. Per l'ultima volta, stavo decidendo per la mia vita; troppe volte le situazioni avevano costretto le mie scelte: la morte dei miei genitori, il morso prematuro di Alexander, le necessarie nozze con Wladimir ed il forzato divorzio.
La sbarre si aprirono, e delle figure entrarono, agitate. Erano solo macchie indistinte, perché i miei occhi si stavano annebbiando sempre di più. Wladimir li incitava a sbrigarsi come un forsennato.
Ma io diventavo sempre più leggera, ed alla fine chiusi semplicemente gli occhi, pronta per non riaprirli più.
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