18 - Fare la brava ♛
Aprii gli occhi che era mattino inoltrato. Ero ancora con la faccia poggiata sul tavolo, così come Taddeus. Francis uscì da una porta, e quando mi vide sbadigliò. Aveva ancora lo sguardo un po' vago, ma pareva più lucido del giorno prima. «Bevi quintali di acqua e poi fatti una doccia fredda», suggerì, fiondandosi verso il frigorifero ed afferrando una bottiglia, scolandosela come il giorno prima aveva fatto con lo sciroppo.
Lo sciroppo. Giurai a me stessa di non nominarlo mai più, maledetto Taddeus. Francis mi porse la bottiglia, mezza vuota, e la buttai giù tutta d'un fiato.
«Il bagno è di là», mi anticipò. «Qui viviamo io, Tad e Gew quindi posso darti solo pantaloncini ed una felpa».
Ringraziai con tono strascicato, mentre nella testa sembrava si stesse svolgendo una riproduzione in miniatura di una bomba, ma con gli stessi effetti devastanti di una a grandezza normale.
Aprii la porta del bagno e mi sciacquai il viso, guardandomi allo specchio: ero uno zombie. Occhiaie, occhi annacquati, capelli arruffati. Francis mi portò il cambio ed io mi buttai sotto il getto d'acqua ghiacciata. All'inizio fu difficile e dovetti resistere all'impulso di aprire il rubinetto caldo, ma dopo qualche secondo la mente si schiarì e la pelle si abituò alla temperatura bassa.
Usai il bagnoschiuma che trovai sulla mensolina, mettendomelo anche tra i capelli, che fui costretta a pettinare con le sole dita. Uscii con la mente un po' più sgombra, anche se le tempie pulsavano ognuna al proprio ritmo, disorientandomi. Mi avvolsi in un asciugamano e tamponai i capelli con un altro, per poi asciugarli con un piccolo phon che trovai sulla lavatrice.
Quando indossai quello che mi aveva portato Francis – una felpa anonima e dei pantaloncini che a stento mi arrivavano al ginocchio, pensai di rimettermi i miei vestiti, ma dopo un attento esame li scoprii sporchi di vomito. Storsi il naso e li infilai nella lavatrice.
Uscii, notando che Taddeus e Francis erano scomparsi. Un russare piuttosto insistente oltre una seconda porta mi fece supporre che fossero andati a dormire su qualcosa di più comodo che un tavolo. Guardai l'orologio: mezzogiorno meno dieci. Cavolo se avevo dormito.
Mi scolai almeno due litri di acqua, e quando mi accorsi che avevo praticamente finito quella in frigo, mi venne l'impulso di uscire ed andarla a ricomprare, ma con quali soldi? E poi non potevo andare fuori vestita così.
Sbuffai e feci per sdraiarmi sul divano quando sentii qualcuno bussare. A quanto pare non c'era il campanello, ed oltre la porta la persona pareva insistente.
Senza spioncino, spalancai la porta, mentre nella testa rimbombavano i colpi secchi delle nocche sull'uscio. «Vicky», mi rimproverò George, entrando e guardandosi intorno.
«Ciao», sbuffai, chiudendo la porta.
Il ragazzo entrò nella camera da letto, esclamando: «Ma dove diavolo è Tad?».
Sbattei le palpebre, confusa, mentre il russare si interrompeva di botto e un Francis assonnato rispondeva: «Era sul tavolo». Sembrava stesse parlando di una scodella.
«Beh, sapientone, sul tavolo non c'è». Tornò in salotto ed uscì, avvisandomi che sarebbe andato a cercarlo.
Dieci secondi ed un altro bussare mi fece quasi infastidire. Aprii di getto, sbuffando: «Sì, lo so, non devo aprire a nessuno, nessuno deve sapere che siamo qui, devo aspettare che torni e bla bla bla». Chiusi gli occhi quando dei puntini cominciarono a comparire nella mia visuae, ed aspettai una risposta che non arrivò.
A stento mi imposi di spalancare le palpebre. Alexander mi fissava furioso, e quando il suo sguardo si posò su ciò che indossavo strinse i denti.
«Che ci fai qui?», chiesi io, rendendomi conto del pietoso stato in cui ero.
«Potrei farti la stessa domanda», rimbeccò lui. «Ma credo di conoscere la risposta». Seguii il suo sguardo, fino ad una sedia dove il giacchetto di jeans di Francis era appeso.
«Non è come sembra», cercai di spiegare, pregando tutte le divinità possibili ed immaginabili affinché il mal di testa passasse.
«Spiegami, allora. Perché a me sembra esattamente così. Ti ho chiamata appena sono atterrato e mi risponde Andrew, che non sapevo neanche fosse tornato dalla Spagna, visto che avevo concesso alla sua ragazza di raggiungerlo, e mi dice che un certo George ti ha portato a casa sua e ci hai passato la notte», disse, trattenendosi a stento dall'urlare. «E come ciliegina sulla torta, indossi dei vestiti maschili e hai addosso l'odore di un bagnoschiuma da uomo. Ti prego, illuminami».
Feci per parlare, ma da un momento all'altro la nausea mi colse e mi chinai fuori dalla soglia per vomitare.
«E sei pure incinta», ringhiò lui. Mi afferrò per le spalle. «E TI SEI FATTA UN DANNATISSIMO TATUAGGIO».
«Non è vero», ansimai. Quella conversazione mi stava togliendo tutte le energie riacquistate con la doccia. Mi sentivo un protagonista di Una Notte Da Leoni.
«Eccolo qu...», esclamò Alexander, scoprendomi la clavicola sinistra, ma si bloccò. Dalla camera da letto era appena uscito Francis, i capelli scompigliati e una smorfia assonnata, in soli boxer. Come se non ci avesse visto, aprì il frigo e si infilò un ghiacciolo fra i denti, rabbrividendo.
Alzò gli occhi e ci notò. «Altezza, scusate se non vi faccio un inchino ma ho bevuto troppo e credo che i postumi non mi aiutino». Barcollò un po', e notai la tensione nelle spalle del Principe, che lo fissava maligno.
«Che diavolo avete combinato?», ringhiò.
«Io e Tad abbiamo fatto ubriacare Vicky e George ci ha portati a casa», spiegò lui con passo strascicato, tornando in camera senza salutare, come se fosse la cosa più ovvia di sempre.
«Questo non spiega perché non hai indosso i tuoi vestiti», disse gelido, lanciandomi un'occhiata che era rabbia pura.
«Ci ho vomitato sopra, almeno credo. Ehi, ma di che ti lamenti? Questi sono larghi e non scollati, accontentati», sciorinai, mettendo le mani a coprirmi le tempie. Quello sciroppo doveva avermi sciolto la lingua, ma il mal di testa era davvero troppo forte per poterne essere felice. «E se non ci credi, la lavatrice è di là, controlla pure».
Un sospiro e non sentii più la terra sotto i piedi. Pensando che fosse l'ennesimo effetto dei postumi, gemetti, ma poco dopo sentii qualcosa toccarmi la schiena. Aprii gli occhi, confusa, e mi ritrovai in una limousine con accanto Alexander. Posai la testa sulla sua spalla, mentre lui sbuffava: «Dopo questa non ti faccio uscire per almeno cinque decadi».
«Basta che non parti più», gracchiai, accoccolandomi di più a lui.
«La prossima volta verrai con me, anche se ti dovessi rinchiudere nella valigia, visto quello che combini quando ti perdo di vista».
In pochi minuti arrivammo al Palazzo e lui mi prese in braccio, portandomi nella sua camera e facendomi sdraiare.
«Com'è andato il viaggio?», sussurrai, mentre affondavo la testa fra i cuscini e cercavo di distrarmi dal mal di testa.
«La Scandinavia è interessante: sembra di essere tornati ai tempi dei Vichinghi», rispose, ma non capii se era effettivamente lontano da me o se fosse solo un prodotto della mia mente. «Hai bevuto tanta acqua, vero?».
«Mmm mmm», risposi.
«Tra un po' ti passa», mi rassicurò. «Devo andare da mamma, non so che deve dirmi. Chiudo la porta a chiave o fai la brava?».
«Io sono brava», mi lamentai, notando che non avesse avuto reazioni al fatto che riuscissi a parlare fluentemente.
«Non credo proprio, femmina», sbuffò lui, uscendo. Serrai gli occhi senza sapere se effettivamente chiuse la porta.
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