22 - Un'opportunità

«Mi sa che dovremo posticipare il matrimonio», dissi. Era l'indomani mattina, e Alexander era sdraiato accanto a me, in pigiama.

Annuì. «Papà l'ha fatta grossa: nonna, zia e zio sono furiosi con lui, e mamma continua a guardarlo come se potesse dargli fuoco con il pensiero».

«Ma che ha combinato?», chiesi, girandomi verso di lui.

«Non lo so, ma a quanto pare è stata nonna Josefine a dire a nonna Ludovice della separazione dei miei, e poi papà se ne è uscito con un altro segreto della NASA», si strinse nelle spalle e tornò a chiudere gli occhi.

Gli posai un leggero bacio sulla fronte e mi alzai.

«Dove vai?».

«A trovare Ludovice», risposi, entrando in bagno e preparandomi. Quando uscii, si era riaddormentato, e mi scappò un sorriso a vederlo tra le coperte, tranquillo.

Mentre attraversavo il corridoio, però, mi accorsi di essere di fronte alla porta di Wladimir, e senza pensarci troppo bussai.

L'uomo che mi aprì era una versione piuttosto scadente dell'ex Imperatore: barba di qualche giorno, occhi assonnati, in pantaloncini e canottiera grigie. L'immagine del relax, o dell'autocommiserazione. «Se sei venuta qui per farmi una ramanzina, ci hanno già pensato due generazioni di Bloodwood».

«Ma buongiorno anche a te. Non sono in veste di nuora, oggi, ma di alleata».

Alzò un sopracciglio, in attesa.

«So dove si trova Josefine», rivelai, senza spiegare come lo sapessi. Lui mi guardò per qualche secondo, immobile, per poi dire in modo frettoloso: «Dammi due minuti», e chiudermi la porta in faccia.

In realtà ne passarono undici quando si fece vedere. Aveva indossato dei pantaloni ed una camicia puliti, si era pettinato i capelli e lavato la faccia, ma la barba restava lì. Lo rendeva diverso, e con quello sguardo spento - molto lontano da quello criptico o divertito - stentavo anche io a riconoscerlo.

«Quanto ci vuole a strangolare una persona?», chiese, facendomi segno di seguirlo lungo il corridoio.

«Cinque minuti al massimo», risposi sovrappensiero. Poi capii dove voleva arrivare, e mi bloccai a metà strada per l'uscita dal Palazzo. «Non dirai sul serio».

«Non guardarmi così. Ha distrutto la mia vita ed il tuo matrimonio. Stiamo forse andando a ringraziarla?».

«No, ma neanche ad ucciderla», puntualizzai. Un confronto di parole, magari. Qualche minaccia di morte per farlo sfogare, ma non un omicidio.

«Ci penso io, non ti dovrai sporcare le mani», disse.

«Non è quello. Primo, credo che nessuno abbia il diritto di togliere la vita ad un alto. Secondo, vogliamo davvero fare un matrimonio ed un funerale nello stesso periodo?».

«Primo, non mi pare tu ti sia fatta scrupoli con Gwendolin. Secondo, basta nascondere il corpo da qualche parte».

Girai i tacchi e tornai dentro. Ma che mi ero aspettata? Tale e quale al figlio. Se prima c'era stata una minima possibilità che lo aiutassi, adesso era proprio sfumata.

Lo sentii afferrarmi il braccio, ma lo scrollai e continuai per la mia stanza.

«Mi dispiace», sentii dire, ed il suo tono era addolorato. Mi voltai, più per curiosità di vedere fin dove si sarebbe spinto pur di uccidere Josefine, ma il suo sguardo era davvero amareggiato. «Non sono nella condizione di poter giudicare».

Incrociai le braccia, in attesa di una spiegazione. Lui si guardò intorno, come se non volesse avere spettatori. «Ti spiegherò tutto strada facendo. Se poi non vorrai più aiutarmi, lo capirò. Ma dammi un'opportunità». Sembrava davvero bisognoso di un'ancora di salvezza.

Scossi la testa, dandomi della pazza, e gli feci segno di seguirmi. «Tu comincia a parlare», lo incalzai, mentre entravamo in una limousine. Dissi all'autista il nome del motel, ma se Wladimir non avesse rispettato l'accordo o se avessi cambiato idea, avrei potuto dire che era solo un punto di riferimento e non la nostra destinazione.

Lui sussurrò, ben attento a non farsi sentire dall'uomo alla guida. «Sapevo che a mia madre si sarebbe spezzato il cuore se avesse saputo della mia separazione con Cordelia, e perciò quelle poche volte che ci veniva a trovare, fingevamo per amor suo. Ma quando Josefine le ha rivelato tutto prima di sparire da Palazzo, beh, ho trovato il coraggio di dirle il mio peggior segreto. Dopotutto il danno era già fatto, io ho solo peggiorato una situazione già pessima di suo». Si immobilizzò per un minuto buono, ma io non fiatai. Sembrava davvero provato da quella confessione, e non volevo farlo sentire colpevole, non con tutta la sua famiglia contro.

Molleggiò la testa, guardando nel vuoto, e continuò. «Sai, Victoria, io non ero l'erede al trono. Quando divenni Principe ereditario, ero giovane ed inesperto. Tutti amano il potere, ma pochi hanno la forza per sopportarlo. Io sono riuscito a mantenere il controllo solo vent'anni, e mi stupisco di mio padre, che ha superato i milleduecento senza ricadute sulla sua salute mentale». Mi lanciò una breve occhiata. «Essere al vertice di tutto provoca un bel po' di vertigini».

«Ma se non eri l'erede...», cominciai, cercando di riprendere il filo del discorso.

Lui alzò la mano. «Ti ho parlato delle guerre con gli Angeli, a suo tempo. Mio fratello era il capo dell'esercito, nonostante mia madre temesse per lui. Era audace, coraggioso, cordiale: tutto il popolo non vedeva l'ora di averlo sul trono».

La macchina sbandò, e la voce dell'autista di riempì di mille scuse, dicendo che un gatto gli aveva tagliato la strada. Non ci degnammo di rispondergli, troppo presi da quella confessione.

«Dei Demoni civili francesi erano stati presi in ostaggio, e mio fratello, da bravo filantropo, voleva salvarli. Per quanto gli Umani dicano che gli Angeli sono l'espressione della bontà, quelle creature sono ben lontane dall'essere i servitori di Dio. Questi nostri nomi, Demoni ed Angeli, esistevano ancora prima che l'ebraismo cominciasse a diffondersi. Vedendoci pallidi e bruni, ci affibbiarono l'idea del diavolo, mentre a loro venne assegnato il ruolo di somma grazia, o quello che è. Ma qui di religioso non c'è proprio nulla». Sospirò, mettendosi una mano sul volto. «Comunque, mio fratello Edmund si era deciso a salvarli. Io intanto stavo cercando di mediare una tregua con il generale degli Angeli, rivedendo i punti da concordare. Il generale era piuttosto giovane, anche per i canoni di noi eterni, ma sapeva il fatto suo. Ci incontrammo più volte di nascosto per cercare di creare stabilità là dove i nostri fratelli vedevano solo morte. Alla fine, trovammo un punto d'incontro: lui mi avrebbe lasciato vincere la guerra, facendomi tornare vittorioso a Corte; io, invece, avrei dovuto rivelargli tutti i dettagli della missione che Edmund si accingeva a fare».

«Ma la prima guerra è stata vinta da noi...», sussurrai, aggrottando le sopracciglia. Trattenni il fiato quando arrivai alla conclusione.

«Sì», confermò lui, guardando la mia espressione. «Sono il diretto responsabile della morte di Edmund».

«Ma cosa ti era saltato in testa?», lo rimproverai, alzando la voce.

«Fa' silenzio», pregò lui. «Se questa faccenda venisse fuori, la nostra famiglia potrebbe essere spodestata. Nel migliore dei casi Gideon salirebbe al potere, accusandomi di tradimento. Almeno la separazione da Cordelia è servita a qualcosa: non verrà macchiata dal mio disonore».

«Non lo sapeva?», chiesi, sperando di non essere troppo invadente. Ma dovevo capire, e lui si era aperto così tanto con me...

«È il motivo per cui frequentavo Mildred, all'inizio. Come uno stupido, avevo bevuto troppo ed alla fine le avevo raccontato questa storia. Al tempo amavo Cordelia più dell'ossigeno nei polmoni, e non sopportavo che lei potesse essere accusata insieme a me. Quella puttana aveva cominciato a ricattarmi, e quando Cordelia scoprì il tradimento, la lasciai stare. Si era allontanata da me, e dal rischio della caduta. Non l'avrei di nuovo rovinata, e perciò decisi di non insistere troppo, nonostante fosse decisamente doloroso. Credo che avrei accettato di buon grado anche un suo compagno, se l'avesse resa più felice di me e più al sicuro. Alla fine Mildred divenne tutto ciò che avevo, e si instaurò una sorta di rapporto basato sulla necessità. Ma poi tu mi hai disintossicato abbastanza da capire dove sbagliavo». Aveva il volto scuro, come se l'oscurità di quelle parole si riflettesse sui suoi lineamenti.

«Io?», chiesi stupita.

«Rinfacciavi a Mildred quel suo essere falsa ed approfittatrice così tanto spesso, senza preoccuparti di nasconderti da me, che alla fine ho capito il mio errore. Mi hai fatto comprendere che un rapporto così malsano non mi avrebbe portato a nulla».

La limousine si fermò, ed oltre il finestrino comparve il motel. Wladimir mi lanciò un'occhiata interrogativa, senza esprimere a parole la domanda.

«Terza porta a destra. Ti concedo venti minuti», gli dissi. «Ma non ne so nulla. Potresti parlarle, come abbracciarla, come ucc... salutarla per l'ultima volta».

Annuì e si fiondò fuori, dentro l'edificio.


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