11 - Birra
La casa era rimasta così, uno scheletro annerito che spuntava dal terreno come un dente malato. La carcassa dell'auto era scomparsa, e questo non faceva che peggiorare l'atmosfera di smarrimento di tutta quella zona. Ci avevo messo almeno mezz'ora solo a girare l'angolo, cercando di frenare la voglia di piangere.
La sua scomparsa faceva ancora male.
Spesso mi ero domandata cosa ne avrebbe pensato della piega presa dalla mia vita, ma continuavo ad accantonare quei pensieri. Sapevo bene che mi avrebbe sostenuta anche se avessi deciso di diventare l'amante dell'Imperatore - Wladimir o Alexander che fosse.
E questo rendeva tutto ancora più dannatamente difficile.
La paura di dimenticare il suo sorriso, le sue parole dolci, il tono perentorio che usava raramente, quando mia madre aveva le sue stupide crisi, era insopportabile.
L'interno era esattamente come lo ricordavo: nessuno si era preso il disturbo di entrare lì, dopotutto cosa avrebbero rubato? Cenere? Neanche le foto erano sopravvissute, e questo non fece che terrorizzarmi. Poteva essere un incubo con lui che scacciava le tenebre, poteva passare per una fantasia quando era la realtà. E volevo che fosse realtà. Perché lui non era stato solo la mia ancora, il mio rifugio sicuro. Lui era - è tuttora - una parte di me stessa, la migliore. E perdere lui avrebbe sfumato ciò che ero diventata grazie a lui.
Una lacrima silenziosa mi solcò la guancia. Mi ero decisa a non piangere, ma quell'onda anomala di ricordi mi aveva scaraventato più lontano di quanto pensassi. Mi spiace, papà.
Non riuscii ad asciugarmi il volto ormai completamente bagnato, perché qualcun altro se ne occupò. Alzai lo sguardo, ed Alexander mi rivolse uno sguardo di incoraggiamento. Mi abbracciò forte, senza dire nulla. Perché non c'era nulla da dire, in effetti. Cercai di darmi un contegno, ma alla fine scoppiare a piangere contro la sua camicia azzurra fu quasi una liberazione.
Lui continuava a sussurrarmi che non mi avrebbe lasciata sola, che mi avrebbe aiutato in qualsiasi occasione, che mio padre sarebbe stato fiero di me per ciò che ero diventata e tante altre cose che si sfumarono nelle mie orecchie, ovattate dai miei singhiozzi.
Rimanemmo così finché la vista di tutto ciò che avevo perso non diventò semplicemente troppo.
Mi accompagnò fuori, tenendo stretta la mia mano nella sua, come a sincerarsi che non sarei caduta a pezzi. Ed effettivamente era così che mi sentivo.
Non disse nulla, quasi non volesse essere troppo invadente. Ogni tanto gli lanciavo uno sorriso di ringraziamento, e nei suoi occhi non vedevo né fastidio né noia. Fu disponibile, ed ancora una volta mi stupii di questa nuova parte di Alexander, che non veniva fuori spesso.
Forse, se l'avesse tirata fuori prima... no, non sarebbe cambiato nulla.
«Dovresti mangiare qualcosa», sussurrò dopo quella che parve un'eternità.
Scossi la testa, non ancora in vena di parlare. Avevo lo stomaco contratto, e non credo riuscisse a sopportare del cibo.
All'incrocio che ci avrebbe riportato al motel, mi tirò nella direzione opposta, indicando un ristorante. Io, invece, tirai dall'altra parte, facendolo sbandare un poco.
«Femmina, devi mangiare», disse autoritario, strappandomi un sorriso sincero.
Osservai l'insegna di fronte a noi. L'Ostrica Vivace, faceva bella mostra di sé, illuminatissima e molto elegante. Probabilmente aveva le posate d'argento ed i bavagli di seta. No, non era il caso, soprattutto perché mi sarei sentita a disagio tra persone decisamente snob. Ero sicuramente impresentabile, dopo tutte quelle lacrime.
«Almeno fai scegliere me», contrattai.
Lui sbuffò, alzando gli occhi al cielo, ed io lo presi come un sì. Mi affrettai verso un locale che conoscevo bene. «Victoria!», mi salutò il ragazzo che si occupava dei tavoli. Aveva gli occhi a mandorla, ed un sorriso furbo che non lo abbandonava mai.
«Ehilà, Ling, come va?», chiesi, sorridendogli a mia volta. Non si poteva non voler bene a quel ragazzone cinese.
«Tavolo per due?», chiese, guardando Alexander per poi rivolgermi un occhiolino complice.
Annuii, tirando il ragazzo accanto a me, che pareva di pietra. Quando Ling ci ebbe indicato un tavolo piuttosto isolato, non senza lanciarmi sorrisetti furbi, Alexander mi guardò storto. «Stai scherzando, spero».
«Per niente», risposi angelica, sedendomi.
Lui mi fissò per qualche secondo, per poi sbuffare. «Sei davvero strana».
«Ma non noiosa», rimbeccai, tornando a fargli una linguaccia.
«Questo te lo concedo», rispose, guardandosi intorno. Quando i suoi occhi caddero sul menù, gli lanciò un'occhiata accigliata.
«Rilassati», gli dissi, segretamente divertita nel vederlo a disagio.
Sbuffò ancora, guardandomi male. Quando Ling arrivò per le ordinazioni, lui si limitò a dire: «Per me sceglie lei», evitando accuratamente di leggere le voci del menù.
Il cinese annuì, girandosi verso di me con un sorriso complice. «Il solito, Vic?», chiese, ed Alexander mi fissò contrariato, per poi fulminare Ling con uno sguardo di... gelosia? Possibile?
Scossi la testa, rispondendo a quel sorriso contagioso. Già che avevo la possibilità di fargli mangiare quello che volevo, l'avrei sfruttata.
Indicai le voci sul menù, senza dirle ad alta voce, e quando il cameriere fu via, lo sguardo di Alexander si fece ancora più di fuoco. Un'altra linguaccia, e lui sbuffò.
All'arrivo della prima portata, mi lanciò uno sguardo a metà tra lo scioccato e il miscredente. «Come diavolo mangiamo senza forchette?»
«Con queste», risposi enigmatica, tirando fuori dal tovagliolo due bacchette di bambù.
Lui mi fissò come se lo stessi prendendo in giro, ed allora mi destreggiai a tagliare un raviolo e mangiarlo. Prese le sue bacchette e cominciò a provarci anche lui, per poi imprecare e chiamare Ling per farsi portare posate occidentali. Io, intanto, stavo ridendo sotto i baffi.
Dopo ravioli, involtini, gamberetti, soia e quant'altro, avevo la pancia piena, checché ne pensassi poche ore prima.
«Credo di sapere dov'è l'inferno, ora», disse lui, finendo il suo gelato fritto. «Nella mia bocca. Possibile che mettano il peperoncino su tutto?».
Risi, finendo la mia birra cinese.
«Da quando ti piace la birra?», mi chiese, probabilmente memore di quando ero andata a casa sua la prima volta. Mi aveva offerto una bottiglietta di birra, mentre mangiavamo la pizza da asporto, ma io gli avevo chiesto l'acqua.
«Bevo solo quella cinese», risposi, pulendomi con il fazzoletto. Amavo quel tipo di cucina etnica, e mi era mancata davvero la salsa di soia.
Mentre ci alzavamo e ci avvicinavamo alla cassa, dove la madre di Ling mi rivolse un sorriso amichevole, stavo insistendo per pagare io. Lui mi guardò e disse: «Non se ne parla», per poi porgere alla donna una carta di credito senza neanche sapere il costo della nostra cena.
Uscimmo, rabbrividendo per l'aria che si era fatta più pungente. Sempre per mano, mi accompagnò fino al motel. Era un po' strano, ma lui non volle sentire scuse, e per di più mi trasmetteva calore - anche se credo fosse più una mia reazione al suo contatto che vero e proprio caldo.
Di fronte alla porta della mia stanza, mi sorrise. Stava per andarsene, dopo un "Buonanotte" piuttosto imbarazzato, quando i due ubriachi di due giorni prima fecero il loro ingresso nel corridoio. Mi salutarono come se fossi una vecchia amica, invitandomi ad unirmi a loro con proposte indecenti, e lui non ebbe bisogno di fare domande: la mia smorfia infastidita parlò per me.
Sghignazzò. «Ho appena trovato il modo di smaltire tutta quell'anatra laccata», annunciò, scroccandosi le nocche. Mi diede un bacio sulla fronte e poi fu lui stesso a chiudere la porta, spingendomi dentro. Il suo sguardo divertito non prometteva nulla di buono.
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