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DEEP BREATHE
capitolo due;

"Ci sono profumi che non si dimenticano, come le persone a cui li associamo. Sono odori che profumano di ricordi."
-Anna Infante

Era passata ormai una settimana dal giorno del supermercato in cui la mia pelle aveva assaporato nuovamente la luce del sole, Jane non sembrava voler demordere tanto facilmente, le mie risposte mancate l'avevano accesa e avevano divampato la fiammella che aveva dentro fino a farla tramutare in un vero e proprio incendio. Mi aveva sommerso di messaggi in cui mi proponeva di uscire e mi chiedeva come stavo, ma soprattutto come stava mio fratello.

"Sta benissimo." Avevo risposto una volta al limite di una crisi di pianto lanciando il cellulare sul materasso e lasciandomici cadere sopra a peso morto.
Da quando io e l'innominabile ci eravamo schiantati contro un camion quella sera calda di inizio agosto non faceva altro che stressarmi, ora non aveva più un pretesto per frequentare Steph, e quello le lasciava un sapore amaro in bocca non indifferente.
Non sapevo come poter risolvere la mia situazione attuale a dir poco critica, mi ero spezzata, frantumata, e al posto di cercare di raccogliere i miei cocci sparsi tutti quanti sul pavimento e di rimetterli insieme, fingevo non fosse successo nulla di troppo sconvolgente e mi crogiolavo nella mia nullafacenza fingendo di non vedere.
La sua morte aveva azionato un'infinita serie domino che aveva travolto e distrutto tutte le tesserine della mia vita, radendo tutto al suolo e lasciando nient'altro che macerie che erano andate a ripercuotersi su tutti i miei rapporti con gli altri. Aveva minato la mia vita di depressioni; avrei dovuto camminare in modo molto cauto e attento per non cascarci, per sbaglio, dentro.

Nessuno sembrava essersi interessato al non così evidente motivo per cui non avessi ripreso la scuola; d'altronde le lezioni erano ormai riprese da una settimana, e ormai le voci su di me non smettevano di espandersi ed essere alimentate dalla insana curiosità collettiva. C'era chi diceva fossi morta, e chi invece supponeva avessi perso la parola o la ragione, chi invece non era proprio fuori strada e diceva che mi fossi trasferita in seguito alla vergogna e al terrore, almeno a proposito della vergogna ci avevano azzeccato. Qualche futuro psicologo elaborava informazioni dietro ai loschi pettegolezzi scolastici.

Sapevo che Steph avesse cercato in tutti i modi di mantenersi neutrale e non rivelare niente di troppo personale, e lo consideravo un enorme passo avanti nel nostro frastagliato rapporto. Sapevo di avergli fatto guadagnare un bel po' di notorietà a scuola, tanto che nell'ultimo periodo si era presentato a casa con un consistente bastimento di ragazze dalle più disparate età e personalità. D'altronde nonostante per lui non fosse tempo di carestia il motto: "ogni buco è galleria" non lo abbandonava mai.

"Capisco quanto tu stia soffrendo, ciò che è capitato a tua sorella dev'essere stato un duro colpo." Sussurrava una ragazza qualunque poggiandogli una mano sulla spalla con modi amorevoli.

Lui sospirava afflitto. "Sto cercando di essere forte per lei." Diceva con espressione contrita.

Un paio di occhiate e qualche parola più tardi si trovavano avvinghiati a condividere saliva e a palparsi sul letto della sua cameretta con ancora la folta collezione di copriletto degli Avenger che mille volte Steph aveva pregato nostra madre di sostituire.

"Mi hai fatto spendere una fortuna per quei copriletto con i supereroi, Stephen. Non te ne comprerò altri per un banale capriccio adolescenziale!" Santa donna, mia madre. Amavo quando si intestardiva contro mio fratello maggiore in quel modo.

"Ma mamma..." Piagnucolava lui mentre mio zio Finn lo beffeggiava con un occhiolino meschino.

E io? Io mi lasciavo volentieri ricoprire di giudizi e supposizioni da chiunque avesse bisogno di farne, evidentemente la loro vita non era abbastanza interessante per evitare di spettegolare a proposito di quella degli altri, così mi prestavo volentieri all'arduo compito.

Incassavo colpi degni di un pugile professionista e non mi piegavo, quella era la dimostrazione che mi serviva per dimostrare a me stessa di essere meno fragile di come mi ero sempre considerata; e mi piaceva, mi sentivo dannatamente sollevata.

Mio padre aveva già lanciato l'idea di farmi frequentare qualche lezione qua e là la settimana seguente, mamma si era schierata dalla sua parte e Finn, l'unico che a quanto pare aveva a cuore la mia salute psichica in quell'ultimo periodo, aveva grugnito in disaccordo facendo vagare la mano destra nella sua folta e soffice barba rossastra.

Bravo zio, fai valere i tuoi ideali!

Inoltre, tanto per cambiare, mio fratello aveva scodinzolato come un cagnolino dietro a mio padre, ripetendo quanto mi avrebbe fatto bene riprendere contatti con i miei vecchi amici.

"Posso aiutarla, lo sapete." Aveva giurato assumendo un'espressione compassionevole lanciandomi uno sguardo.
(Si, esatto. Io ero proprio accanto a loro.)
"Potrebbe pranzare al mio tavolo a mensa." Propose cauto masticando rumorosamente un pezzo di bistecca troppo cotta e infilzando subito dopo un fagiolino bollito; mia madre non aveva mai brillato in cucina.

A quel punto dire che il discorso che stava costruendo era ridicolo, poteva sembrarmi solo un eufemismo.

"E magari potresti fare un banchetto nell'atrio e vendere la mia testimonianza a due dollari, faresti un sacco di soldi!" Repressi un sorrisetto bevendo un sorso di Sprite stringendo le ginocchia, coperte da un paio di pantaloni da basket, al petto.

Tutti avevano taciuto.

Dopo quell'episodio i miei erano sempre più convinti che farmi uscire fosse un'ottima idea. Sempre più di frequente attingevo all'intelligenza tecnologica di Google per trovare scuse da propinare alle loro anime premurose.

Una volta finite le provviste di burro d'arachidi però ero stata costretta ad abbandonare la mia comfort zone per uscire in bicicletta e andare al supermercato accanto a casa a fare acquisti. Speravo silenziosamente di trovare ancora Scott alla cassa, ora che avevo scoperto com'era relazionarsi con qualcuno che ignorava totalmente ciò che mi era successo appena un mese fa era diventata una specie di medicina contro la depressione, che era sempre lì, dietro l'angolo.

Entrai nel negozio e presi un carrello, percorsi velocemente tutte le corsie schivando qualche cliente qua e là potendo finalmente sbirciare le casse, una volta terminate. Per mio puro disappunto vidi al posto del ragazzo una donna mora dalla pelle caffellatte e due fossette molto pronunciate.

Mi maledii per non essere abbastanza fortunata da trovarlo lì, sorridente, ad aspettarmi.

Improvvisamente mi sentii toccare gentilmente la spalla e una voce familiare deridermi dolcemente: "Che cosa cerchi?".

Mi voltai trovando dei bellissimi occhi verdi osservarmi con curiosità. Scesi con lo sguardo osservando ancora una volta il suo sorriso esuberante bambinesco e le sue rosee labbra sottili. Il mento era ricoperto da un leggero strato di barba scura, e questo mi fece ricredere sulla mia supposizione precedente; non poteva di certo essere paragonato ad un bambino, soprattutto per la sua altezza spropositata che non avevo notato in un primo incontro poiché seduto.

"Hey Scott" Gli rivolsi un sorriso grattandomi lievemente la testa imbarazzata.
Mi vergognai quasi di mostrarmi struccata e scomposta; ma non credo proprio pretendesse di vedermi in abito da sera, infondo calpestavamo il minimale pavimento piastrellato di un supermarket, non quello di un red carpet.

"Hey tu." Sorrise lanciandomi un'occhiata divertita e inclinando la testa da un lato con fare gentile. "Come va il braccio?" Lo indicò appena con un cenno premuroso del volto contornato da due ciocche castane che gli pendevano ai due lati del volto. Era bello, non faceva parte della categoria più popolata del "bello oggettivo", era una bellezza particolare e curiosa, la mascella squadrata e il naso all'in sù mi facevano venire voglia di sfiorarli con le dita ed assicurarmi che fossero veri.

"Bene, credo." Abbassai lo sguardo al pavimento osservando le mie converse rosse completamente lise sui lati invasa da una folata di rossore all'altezza degli zigomi.

Sospirò appena lasciando precipitare la conversazione in un silenzio imbarazzato seguito dalla bassa musichetta di sottofondo che usciva dagli altoparlanti posizionati sapientemente agli angoli del locale.

"Allora..." Parlai tornando a guardarlo negli occhi vergognandomi un po' della mia poca loquacità. Feci un cenno verso la cassa come a sottolineare il fatto che dovessi tornare alle mie... commissioni.
Il ragazzo si strofinò una mano sul petto proprio accanto alla targhetta con scritto il suo nome e una piccola sua foto ritagliata alla meglio è infilata nella piccola busta.

Stavo per girarmi e andarmene lievemente delusa, non avendo ottenuto alcuna risposta, quando lo sentii schiarirsi la voce nervosamente e prendermi tra le mani il polso sinistro.

"Posso sapere come ti chiami?" Mi bloccai immediatamente reprimendo un enorme sorriso che minacciava di stamparmisi in volto e non abbandonarmi più.

"Jocelyn." Risposi rimanendo voltata dandogli le spalle e mordicchiandomi nervosamente il pollice della mano non ingessata, che nel frattempo il ragazzo aveva lasciato.

"Jocelyn." Ripeté tra sé e sé assaporando lentamente le lettere come fossero una parola nuova e sconosciuta.

"Ci vediamo Scott!" Parlai più forte camminando spedita verso l'uscita senza acquisti prima che un sorriso che mi andava da orecchio a orecchio mi mettesse di nuovo in imbarazzo davanti a lui; più tardi a casa avrei fatto il mio classico balletto della vittoria.

"Ci vediamo!" Rise forte in risposta urlando.

E il burro d'arachidi non era con me, quando felicemente saltellai verso la bicicletta liberandola del lucchetto e dirigendomi, subito dopo, verso casa.

nota autrice:

Ecco il secondo capitolo, più corto del primo, ma sempre pieno di azione. Okay, beh... considerando che i primi capitoli mi serviranno per dare uno scenario alla storia che andrà a svolgersi e a spiegare cos'è accaduto a Jocelyn questo non dovrebbe entusiasmarvi; spero comunque vi incuriosisca!

Un bacio,
Carlotta

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