La vita su un taccuino e Tu sei nel cuore

AUTRICEknuttie

Il pavimento era freddo contro le mie gambe e dei brividi percorrevano ad intervalli regolari la mia schiena appoggiata ad un muro altrettanto gelido.

"Siamo in un ospedale, Thea, non puoi sederti per terra..."

"Cosa c'è di più pulito del pavimento di un ospedale, Nick? Lasciami in pace." Gli risposi io l'ennesima volta che ascoltai quella frase guardandolo in quegli occhi chiari e così simili ai miei, che sembravano essere un marchio di famiglia.

"Almeno vieni a sederti nella sala d'attesa, così non intralci il passaggio dei medici e degli infermieri..." scossi la testa non degnando mio fratello neanche di una risposta: in quel momento non sarei mai riuscita ad essere gentile. Nick alzò le mani in segno di resa e si allontanò a passo lento trascinandosi verso la poltroncina nella sala affianco.

Volevo rimanere fuori dalla sua stanza, non mi interessava se avessi intralciato i medici o se avessi causato la caduta di qualche infermiere: sarei rimasta fino a quando avrei potuto lì, in quel corridoio, seduta su quel pavimento in resina grigia con le gambe distese e la schiena dolorante contro il muro.

Ero stata in ospedale soltanto un paio di volte in vita mia, per una gamba o un braccio ingessato data la mia infanzia spericolata, mai per qualcosa di serio. Ad ogni occasione mi promettevo che non vi avrei più messo piede.

Non ero molto brava a mantenere le promesse, però, dato che ormai stazionavo in quel corridoio da ore e ore.

Non mi erano mai piaciuti gli ospedali, ma a chi sarebbero piaciuti?

Mi infastidiva quell'odore di disinfettante che si percepiva all'entrata e che rimaneva fermo nelle narici per il resto della giornata. Per questo avevo vicino a me un mazzo di fiori, che avrebbe profumato l'intera stanza non appena lo avrei messo sul comodino, un mazzo di gerbere, le sue preferite.

Non mi piacevano le occhiate di compassione che la gente mi rivolgeva, né le infermiere affabili che mi chiedevano se avrei gradito un tè caldo: era estate, nessuna persona sana di mente avrebbe voluto un tè caldo mentre fuori c'erano ventisei gradi. Non mi piaceva l'empatia in generale, il dolore era il mio e non lo volevo condividere con nessuno, né con mio fratello, né con i miei familiari, né tantomeno con degli estranei.

All'improvviso sentii una porta aprirsi lentamente e mi affrettai ad alzarmi: sistemai i pantaloncini di jeans che indossavo e che erano saliti troppo sui fianchi, sistemai la coda alta che raccoglieva i miei lunghi capelli castani e mi preparai mentalmente ad entrare in quella stanza.

Mia madre uscì asciugandosi le guance con un fazzoletto di carta mentre mio padre la spingeva a camminare con un braccio sulle spalle a confortarla.

"Chiede di te, Thea. Puoi entrare, solo...solo non affaticarlo, ok?" La voce tremolante della donna che avevo davanti mi costrinse ad asserire la sua richiesta.

Recuperai il mazzo di fiori dal pavimento e lo guardai bene per vedere se si fosse rovinato. Rimasi per qualche secondo ferma sull'uscio ed entrai solo quando mio padre mi fece un cenno con la testa incoraggiandomi.

"Ehi..." esordii mentre chiudevo la porta dietro di me. Non ricevetti una risposta, continuavo a sentire soltanto il rumore dei macchinari che cercavano di tenerlo in vita mentre mi avvicinavo lentamente al suo letto.

"Ho portato dei fiori, i tuoi preferiti...profumeranno e rallegreranno la stanza!" ebbi finalmente il coraggio di guardarlo. Il colore della sua pelle quasi si confondeva con il bianco delle lenzuola nelle quali era avvolto, le braccia esili erano collegate a una macchina tramite dei tubicini trasparenti, i suoi occhi erano chiusi. Sul viso non vi era un'espressione di dolore, i lineamenti spigolosi, che avevo ereditato io stessa insieme ai suoi occhi, sembravano essere rilassati.

"Cosa ci fai qui, bocciolo?" la voce era sempre profonda.

"Sono qui per te, nonno." Riuscii a mormorare mentre poggiavo cautamente una mano sulla sua. Era freddo, freddo come tutto il resto di quell'ospedale.

"Non dovresti essere qui, Anthea."

Sorrisi nel sentire il mio nome per intero, nessuno mi chiamava così. Per la mia famiglia e per gli amici ero solo Thea, ma per lui, per nonno Frank, ero sempre stata Anthea.

"Non chiamarmi con il mio nome intero, nonno."

"Perché non dovrei? L'ho scelto io, ne ho la facoltà." Disse fievole mentre un sorriso mi comparve sulle labbra: era vero, lo aveva scelto lui.

Mio nonno non aveva potuto studiare, la sua istruzione si fermava a un semplice diploma di scuola elementare, 'c'era la guerra al tempo' mi diceva ogni volta che mi raccontava della sua vita, di quando era ragazzo, prima che arrivassero la nonna, la mamma e i nipoti.

Durante il periodo della guerra, aveva scovato una libreria ancora in funzione a Bristol: in quei tempi scarseggiavano le persone che volevano comprare dei libri, le preoccupazioni erano ben altre e i pochi soldi che c'erano non venivano utilizzati per pagare quei beni. Ma per lui, un ragazzo di quattordici anni, che viveva in un paesino desolato del Somerset e lavorava in una fattoria, leggere era l'unico modo per evadere dalla realtà che viveva. Allora pagava i libri con favori, servizi e del pane fatto in casa e al proprietario della libreria andava bene così.

Il primo libro che lesse fu una traduzione dell'Iliade e da quel momento il suo amore per la civiltà, la letteratura greca e la mitologia crebbe a dismisura, così tanto che pregò i miei genitori di chiamare almeno la seconda figlia con un nome di origine greca. Decise di chiamarmi Anthea, in greco 'fiore', trasmettendo persino a me il suo amore per l'Ellade man mano che crescevo.

Quando ero piccola, durante le nostre lunghe passeggiate per Bristol, mi leggeva di eroi, dei miti sulla creazione dell'universo, dell'Odissea e dell'Iliade. Non mi ero mai lamentata: quando i miei compagni di classe dicevano di aver letto Cenerentola, La Sirenetta e Winnie The Pooh prima di andare a dormire, io mi ritenevo fortunata ad aver letto di Achille, di Era e di Ulisse. Le storie che mi raccontava il nonno erano le mie fiabe della buonanotte.

Ed io le trascrivevo quelle storie, così come lui me le raccontava, non perdevo una parola, gli chiedevo di ripetere ogni frase fino a quando non le avevo scritte tutte, nero su bianco, sui miei diari. E quando ritornavo a casa, nella mia cameretta, le rileggevo ad alta voce e la notte sognavo quel mondo.

"Hai ragione, nonno. Tu puoi chiamarmi come vuoi." Gli dissi prima di stampargli un bacio sulla fronte ormai rugosa. Lui, a quel contatto, aprì gli occhi non con poca fatica.

"Perché sei qui, Anthea? Dovevi prendere l'aereo, oggi."

"Non potevo lasciarti qui, nonno. Non potevo partire, se tu eri qui."

Sospirò e mi lanciò uno sguardo di rimprovero, lo conoscevo fin troppo bene quello sguardo e sorrisi al fatto che, nonostante la sua condizione, sprecasse ancora le sue forze per riprendermi anche se avevo diciotto anni.

"Hai lavorato tanto per entrare alla Brown, Anthea. Non puoi sprecare questa occasione."

"Lo so, nonno. Abbiamo lavorato tanto. Partirò tra due settimane, non ti preoccupare."

"Promettimi solo che lo farai. Questo posto non fa per te...devi andare via e realizzare tutti i tuoi sogni, ok?" fece per mettersi seduto su quel letto ma crollò subito sotto i suoi sforzi.

"Non ti agitare, nonno. Stai buono, così." Gli rimboccai il lenzuolo bianco stando attenta a non toccare qualche tubicino e a non fargli male, poi racchiusi la sua mano nella mia. "Partirò, non ti preoccupare. Alla Brown c'è già una stanza con il mio nome che mi aspetta."

Non importava se fosse in un letto d'ospedale, nonno Frank si sarebbe sempre inalberato se non avessi portato a termine qualcosa che mi ero prefissata di fare. La Brown era il mio, il nostro sogno da quando ero una bambina: Bristol mi era sempre andata stretta, volevo andare via, partire, studiare realtà che non appartenevano a quella cittadina. E nonno lo aveva sempre capito, mi aveva sempre capita.

Ogni estate, fino a qualche anno prima, portava me e Nick in giro per il resto dell'Inghilterra e l'Europa ed io custodivo il ricordo di ogni viaggio gelosamente in ogni foto, in tutti gli scontrini e biglietti aerei, ma soprattutto nella mia mente e nel mio cuore.

Avevo provato a viaggiare da sola, negli ultimi anni, quando la malattia di Frank non gli aveva più permesso di fare lunghi viaggi, ma viaggiare con lui era tutta un'altra storia.

I suoi occhi si fecero lucidi quando glielo confessai la prima volta, al ritorno di una vacanza a Parigi con i miei amici. "Ricorda ogni singola cosa che vedi, ogni sensazione che vivi, poi trascrivila su un taccuino, Anthea. Al tuo ritorno, io leggerò tutto ed è come se fossi stato al tuo fianco per tutto il viaggio" mi disse di rimando.

La stretta di mio nonno intorno alla mia mano aumentò e mi fece ritornare alla realtà di quella camera d'ospedale. "Sono molto stanco, Anthea...vorrei riposare un po'. Ma prima, vorrei parlare anche con Nick."

"Va bene, nonno. Te lo vado a chiamare." E quando feci per andarmene la sua voce flebile mi fermò.

"Aspetta, vieni qui." Lo raggiunsi incerta mentre lui trovava la forza di stringermi la mano ancora una volta. "Buon viaggio, piccolo bocciolo, ricordati di scrivere tutto nei taccuini, va bene?"

"Nonno, partirò tra due settimane...mi augurerai buon viaggio più in là, ok?" ribattei abbozzando un sorriso.

"Non importa, Anthea, voglio farlo ora. Buon viaggio, bambina mia." mi disse specchiando i suoi occhi cerulei nei miei. "Sii sempre coraggiosa come lo sei ora, viaggia, ama e non dubitare mai di te stessa, va bene?" fece una pausa.

Delle lacrime incontrollate scesero sulle mie guance mentre lo sentivo pronunciare quelle parole che tanto sapevano di un addio. "Non piangere, Anthea. Gli occhi non ti sono stati dati per piangere, ma per vedere l'universo e l'universo è stato fatto solo per essere visto dai tuoi occhi."

Mi strinse un'ultima volta la mano, poi poggiò la testa sul cuscino lentamente e seppi che il mio tempo con lui si fosse concluso. Un 'ti voglio bene, nonno' fece curvare le sue labbra sottili in un sorriso e quello fu il mio congedo.

Uscii da quella stanza a passi veloci senza badare a quello che incontravo sul mio cammino, ignorai le voci dei miei genitori che cercavano di fermarmi, ignorai i volti e le espressioni mortificate delle persone presenti su quel piano e andai disperatamente alla ricerca delle scale di quel dannato ospedale.

Una volta che le ebbi trovate, salii i gradini a due a due, inciampando nei miei stessi piedi svariate volte, per sentirmi sollevata quando arrivai in cima e, aprendo l'ultima porta anti-panico, l'aria fresca della sera mi investì. Respirai a pieni polmoni quell'aria che non sapeva di disinfettante, né di gerbere, né di mio nonno: avevo bisogno di aria, un'aria che non fosse legata a me in qualche modo.

Qualche ora dopo, le braccia di mio fratello mi trovarono e cinsero il mio corpo. Un 'mi dispiace' mormorato tra i capelli mi fece intendere che una delle persone più importanti della mia vita se ne era appena andata via.

Rinnegai tutto quello che avevo sempre pensato sull'empatia, non ebbi vergogna di piangere, scelsi di condividere parte del mio dolore e di prenderne un po' del suo, la mia guancia umida a contatto con la sua, i nostri cuori sofferenti vicini, le nostre iridi chiare e bagnate dalle lacrime.

Due settimane dopo, come avevo promesso a Frank, mi ritrovai a sorridere a quello che sarebbe stato il mio vicino per dieci ore di volo verso Providence. Le mie mani stringevano un taccuino di pelle nera nel quale avrei annotato tutto quello che avrei voluto dire al nonno e che lui avrebbe voluto ascoltare: lo avrei portato sempre con me, in quelle pagine e nel mio cuore.

E, guardando fuori dall'oblò quell'enorme distesa di nuvole, stelle e cielo che stavamo attraversando, non potei non ripensare a ciò che mi aveva detto Frank prima di andarsene: l'universo era stato creato soltanto per essere visto dai miei occhi.

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