*3. Convicted
[2014]
Dove si trovava?
Si guardò attorno, in cerca della risposta.
La stanza che lo circondava era buia, le pareti non erano visibili; c'erano solo pozzi infiniti, più neri del nero, come se i muri fossero stati ricoperti di catrame. C'era un'unica luce, posta sul soffitto davanti a lui. Era accecante e guardarla era come guardare il sole per troppi secondi: se non distoglieva l'attenzione abbastanza in fretta, gli occhi cominciavano a lacrimare e bruciare. Chiudere le palpebre era un sollievo solo parziale.
Aveva notato, una o due volte, la presenza di qualche soprammobile, quando il lampadario traballava.
Vicino a lui c'era la costante presenza di un carrellino di metallo da laboratorio e sopra di esso erano posti vari attrezzi. Non ci voleva un genio per capire che ognuno di essi aveva uno scopo ben preciso: infliggere dolore.
Per il resto non aveva notato alcun particolare nella stanza, niente che potesse fornire un indizio sul luogo in cui si trovava, niente che potesse aiutarlo a uscire.
Come ci era arrivato?
Non sapeva esattamente cosa fosse successo, ricordava solo il momento in cui aveva aperto gli occhi sotto a quella luce accecante.
Era vivo?
Sì, questo poteva determinarlo dal dolore che componeva il suo mondo, dall'agonia che incendiava i suoi arti a ogni fottuto respiro.
Era solo?
No. Più di una volta, quando si risvegliava dopo aver perso coscienza, trovava accanto a sé figure vestite con camici color verde acqua. Camici da medico. Ma lui non si trovava in ospedale, ne era sicuro.
Sentiva le loro voci ma gli sembrava parlassero una lingua sconosciuta. In realtà avrebbe facilmente potuto capirli, recepire i messaggi, gli orrori che pianificavano e il destino che gli sarebbe spettato, ma la sua mente adombrata dalle droghe non gli permetteva di pensare con lucidità.
Sentiva le loro mani premere la sua carne, le lame inciderla e tagliarla, i rumori della sega elettrica e le urla. Il dolore era insopportabile, se ne rendeva conto, ma era come se la sua mente cieca fluttuasse sopra al suo involucro mortale, sopra ai suoi aguzzini.
Si sentiva uno spettatore esterno, costretto a provare il dolore del protagonista di un'altra storia.
Conosceva i suoi aguzzini?
Non lo sapeva, poiché indossavano sempre delle maschere, e in ogni caso non riusciva mai a fissarli per troppo tempo a causa del lampadario. Le voci non le riconosceva.
Sospettava avessero sistemato di proposito quella lampadina, solo per rendergli impossibile vederli in viso.
Quanto tempo era passato?
A questa domanda, apparentemente, non esisteva risposta.
Sembravano secoli, chiuso in quella stanza, le mani legate alla catena che scendeva dal soffitto e le gambe intrappolate sul lettino.
Non c'erano finestre.
Non capiva più nulla.
Lo scorrere dei secondi, dei minuti e delle ore era estraneo per lui, ogni dieci secondi potevano essere due mesi. Non pensava sarebbe mai più uscito di lì.
Sperava di potersene andare?
No, la speranza era stata la prima ad abbandonarlo.
Che cosa gli stava succedendo?
Aprì piano gli occhi, cercando di mettere a fuoco quegli uomini mascherati e vestiti di verde. Non si sporcavano, il sangue che schizzava da lui sembrava incapace di macchiare le loro divise.
Si sentì afferrare, prima che loro sganciassero le catene e gli legassero il petto allo schienale del lettino. Solo una gamba era ancora attaccata al suo corpo, tranciata di netto dal ginocchio in giù.
«Questa seduta è l'ultima» sentì dire.
«Sì, ti liberiamo» aggiunse la voce di un altro.
Con il capo poggiato all'indietro, sentì d'un tratto un dolore lancinante attraversargli quel che restava della gamba destra. Ogni volta cicatrizzavano le ferite, quasi incapaci di lasciarlo morire.
E d'un tratto ogni cosa tornò vivida.
Un urlo gli proruppe di gola e chinò il capo in avanti prima di vomitare.
Abbassò lo sguardo sul suo corpo, attraversato dal terrore più puro. Le mani degli aguzzini erano strette attorno al suo moncherino, e tiravano. Tiravano. Tiravano. Tiravano. Mentre un altro segava i legamenti all'inguine. La gamba, con un ultimo colpo secco, si staccò, e cadde a terra con un tonfo flaccido, come un sacco di carne cruda.
«La fine è quasi arrivata, Jacob» lo rassicurò uno di loro.
Senza aggiungere altro, l'uomo – che teneva un machete sporco, gli afferrò il braccio destro, alzò l'arma e la calò con forza sulla spalla. Questa gli rimase in mano e lui la buttò a terra.
Jacob lanciò un urlo.
«Shh, il lavoro è quasi finito» l'uomo gli carezzò la guancia, prima di sorridergli. Ora che la sua stazza copriva la luce, Jacob poté vederlo in volto. Era vecchio, sui sessant'anni, ma aveva la forza bruta di un gigante.
«N-no, ti p-prego. Non...» cercò di biascicare, fallendo.
«Dobbiamo finire il lavoro» rispose l'altro, ancora sorridendo bonario.
«Perché? P-perché mi fate questo?» le lacrime bruciavano sul suo volto. Non sapeva più nemmeno come potesse ancora avere lacrime da piangere.
L'altro emise un «oh» gentile, prima di replicare: «Ma è chiaro, mia pecorella» fece una pausa, in cui strinse più forte la presa sul manico del machete, «devo salvare la tua anima dal peccato!» e detto questo, senza aggiungere altro, gli accostò la lama al collo. E colpì.
La testa si staccò di netto, rotolando giù fino al pavimento.
L'uomo la guardò soddisfatto e, senza dire nient'altro, alzò un piede e con la suola schiacciò quello che era stato il volto di Jacob.
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