𝗣𝗥𝗢𝗟𝗢𝗚𝗢
𝐒𝐄𝐂𝐎𝐍𝐃𝐎 𝐀𝐓𝐓𝐎
Mi avevano sempre detto che sott'acqua non si riusciva respirare, solo trattenendo il fiato; il cuore che batteva a tremila, le particelle di plankton si appiccicavano alla pelle.
Gli occhi appesantiti, sigillati dalla colla, una sostanza che, non era effettivamente colla, e il panico...
Di non vedere più nulla.
In quell'orbita terracquea c'era una pace angosciante sotto la superficie gelida, una frenesia lontana che aveva smesso di sussistere.
Il silenzio mi avvolgeva in un abbraccio.
Ogni suono, ogni respiro mancato si fondevano in un'unica, interminabile, consapevolezza: essere morti.
Volevo riemergere, ripossedere l'aria e la vita.
Ma ero morto.
Non avevo la forza di risalire.
Non volevo nessuna forza di venire a galla.
Se si toccava il fondo per una seconda volta, ogni tentativo meccanico verso l'alto non avrebbe rappresentato più l'unico gesto che conoscevo.
Anzi, cresceva la speranza che il corpo diventasse talmente pesante da sperare di rimanere sul fondale.
Lontano dal peso.
Lontano dal mondo che conoscevo.
Lontano da me.
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