𝟵. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖

Nei lenti battiti delle ciglia, mettere a fuoco la vista era uno degli aspetti più difficili da affrontare.
La luce artificiale della stanza mi stringeva l'iride, mentre il corpo era tutto dolorante.

Adagio, abbassai gli occhi sulle braccia che si allungavano, restando inerti accanto al mio corpo.

Nel braccio sinistro avevo un ago infilato sottopelle e un bastone di metallo accanto al letto per la somministrazione endovenosa, che proseguiva il ciclo del lavaggio.

Cambiando direzione, osservai il volto stressato di mia madre, che riposava sul bordo del letto con le braccia a sostegno della testa. Non sembrava stare bene; era visibilmente pallida e il rossore sotto gli occhi mi confermò che aveva pianto a dirotto, fino allo stremo delle forze.

Guardai verso la finestra, dove le prime luci dell'alba cominciavano a rischiarare l'ambiente.

Una poltrona si ergeva sotto la vetrata, con la traccia tiepida di un corpo umano che, pochi minuti prima del mio risveglio, si trovava ancora lì.

Tirando su il mignolo, feci scorrere la mano sulle lenzuola e raggiunsi la mano di mia madre. Le sfiorai delicatamente le dita.

Bastò poco affinché lei si muovesse, mettendomi a fuoco.

«Mamma...» mormorai a fatica, la gola graffiata e i polmoni incandescenti.

Mia madre strinse gli occhi, ancora annebbiati dal sonno. Poi li spalancò.

«Adonis!» esclamò, strappandomi il sorriso più stretto possibile, visto che non sapevo in che condizioni fossi.

Mia madre scoppiò in lacrime, stringendomi in un abbraccio.

Mi irrigidì, accusando dolore ovunque.

«Scusami, scusami.» disse, allontanandosi terrorizzata.

«Fai solo attenzione...» La tranquillizzai con voce rotta, lasciando che mi accarezzasse la mano.

La porta della camera si spalancò e comparve la figura di mio padre, che rimase attonito. Aveva gli occhi stralunati e una barba di tre giorni che gli graffiava le guance ruvide. «Adonis...»

«Markus, corri a chiamare il dottore!» gli intimò, senza distogliere lo sguardo da me, temendo che fossi solo un sogno.

Mio padre uscì di corsa dalla stanza. Il bicchiere del caffè gli sfuggì di mano, infrangendosi sul pavimento.

«Sei vivo...» Si preoccupò di accarezzarmi la parte del viso dove i segni dell'incidente non erano presenti. «Sei vivo.»

La luce della biro seguiva il tracciato dei miei occhi. Il medico che mi stava visitando mi esortava a seguire la mini-luce, inducendomi poi, a seguire il suo dito, accertandosi che oltre alla lacerazione di vari capillari, non avessi riportato altri traumi impercettibili.

«Bene, Adonis.» Le labbra gli si incresparono in un sorriso sincero, abbassando la penna a sfera.

Sbattei le palpebre più volte, scacciando via le macchie di luce.

«Non ha subito alcun trauma cranico, oltre a quelli evidenti.» Disse, rivolgendosi ai miei genitori.

Mia madre emise un sospiro di sollievo. «Quando potrà tornare a casa?»

Il dottore spostò lo sguardo su di me. «Presto, ma vorrei tenerlo sotto osservazione ancora per qualche giorno.» Si sollevò dalla sponda del letto e infilò la penna a sfera nel taschino del camice.

Alle spalle del dottore, notai l'infermiera annotare qualcosa sulla cartellina. Aveva i capelli tirati all'indietro in una coda di cavallo bassa e la punta del naso all'insù, macchiata da una spruzzata di lentiggini.

«È doveroso assicurarsi che le vittime di incidenti stradali non soffrano lo stress della guarigione.» spiegò ai miei genitori.

Gli occhi insanguinati corsero a fantasticare sulle curve della ragazza sotto l'uniforme da infermiera. Un'immagine erotica da farmi indurire il cazzo sotto il camice. Lei si accorse dell'insistenza con cui il mio sguardo correva su e giù per il suo corpo e si schiarì la gola, le guance colorate di un intenso rosso acceso.

«E il fumo che inalato?»

Schiacciai la punta della lingua contro la parete interna della guancia. La vidi mordicchiarsi il labbro inferiore nervosamente, lanciando occhiate furtive in giro, per non farsi scoprire dai presenti nella stanza.

«Adonis.» Fui richiamato sull'attenti.

«Sì?»

«Hai bruciore alla gola?»

Mi sfiorai il collo. «Sì.» Graffiai con la voce, costringendo le corde vocali a collaborare.

Il dottore annuii. «È naturale. Hai inalato una buona dose di gas nocivi. Sei stato fortunato a non aver riportato alcuna ustione respiratoria...» mi spiegò. «È stata una delle prime cose che abbiamo esaminato al suo arrivo in ospedale, insieme ai paramedici, per verificare se ci fosse un problema di questo tipo.» Fece ai miei genitori. «Ma si ristabilirà.»

«Dottore» ribatté Markus, «le dispiace se proseguiamo la nostra conversazione fuori? Lasciamo che Adonis riposi.»

«Certamente, lascio che sia l'infermiera a occuparsi momentaneamente di lui per alcuni accertamenti.»

Il medico si mise immediatamente a disposizione per accontentare mio padre. Quest'ultimo mi lanciò uno sguardo sospettoso, prima di rivolgerlo all'infermiera.

Appoggiò una mano sulla schiena di mia madre, conducendola fuori dalla stanza. Mi chiesi se il suo comportamento fosse dovuto a un senso di protezione, a un sentimento di colpa o se pensasse che la mia depravazione fosse tale da non farmi sentire tranquillo nemmeno in un letto d'ospedale.

Quando la porta si chiuse, i miei occhi si posarono sul viso dell'infermiera, che si avvicinò al mio letto per controllare il lavaggio.

«Devo andare al bagno.» parlai con un pizzico di alterigia e le corde vocali graffiate. L'infermiera mi guardò, dischiudendo le labbra.

Il sangue negli occhi non doveva rasserenarla; di solito mi dimostravo prepotente anche senza i capillari infranti.

«Me l'hanno tolto stamattina. Puoi accompagnarmi al bagno, ora?» Cercai di riformulare, facendo un gesto vago verso il mio corpo.

L'infermiera abbassò lo sguardo, constatando che non c'era alcun sacchetto di nylon con delle urine sul pavimento. Con un sospiro tremolante e appoggiando la cartellina sul comò accanto al letto, annuii. «Riesce ad alzarsi da solo?»

Un lieve accenno di sorriso mi arricciò le labbra. «Ultimamente faccio molte cose da solo, ma adesso mi servirebbe proprio un aiuto.»

All'infermiera non sfuggì il doppio senso, poiché il suo viso si colorò improvvisamente.

Che sporcacciona.

Schiarendosi la gola, scostò le coperte dalle mie gambe. «Provi a sollevarsi.»

Potevo tirarmi su, stare in piedi e, certamente, anche pisciare da solo. Ma nessuno mi vietava di divertirmi un po'.

Sostenuto dall'infermiera che mi appoggiò una mano dietro la schiena, mi alzai, facendomi guidare verso la stanza da bagno. «Aspetterò qui fuori. Faccia con calma.»

Umettandomi le labbra davanti ai suoi occhi abbassati, la sorpassai e lasciai la porta spalancata. Il camice ospedaliero, essendo piuttosto corto, sarebbe bastato un attimo per permetterle di vedere qualcosa su cui fantasticare la sera.

«Lascia la porta aperta.» dissi, rivolgendole uno sguardo deciso. La mia affermazione le provocò un lieve contraccolpo.

«Che... cosa?» farfugliò, stringendo la cartellina al petto.

Sollevai il camice e, con le spalle rivolte verso di lei, sorrisi divertito.

«Non vuoi davvero che mi faccia male solo perché non hai voluto guardarmi pisciare?»

Rovesciai la testa all'indietro. Con l'uccello in mano e la giovane infermiera alle spalle, fissai il soffitto bianco, punteggiato da minuscoli puntini neri.

«Come ti chiami?» Riabbassai il camice, tirando poi lo scarico.

«Sydney.» Mormorò schiva, evitando il mio sguardo mentre gli occhi le correvano per la stanza.

Voltai la testa verso di lei, scrutandola. «Non hai l'aria da Sydney» ribattei, aprendo la manovella del lavello per sciacquarmi le mani.

«Beh, è il mio nome di battesimo!» sbottò, spazientita.

Strabuzzò gli occhi quando si accorse del tono alterato che aveva usato.

Glielo lessi negli occhi: il lamento per il superamento dei propri limiti, lo stesso senso di colpa che avevo provato con una sola persona in tutta la mia vita. Dubitavo di essere il peggior paziente con cui avesse mai avuto a che fare: le persone affette da demenza medica erano le peggiori.

Dallo specchio, alzai lo sguardo, notando l'orrore che c'era nei miei occhi: chiazze di sangue imbrattavano ogni parte candida del bulbo oculare. La tonalità ambrata dei miei occhi si mostrava chiaramente, mentre il sangue ne attraversava i bordi.

«Hai il ragazzo, Sydney?» Rievocai il suo nome, gustandomelo sulla punta della lingua, scrutandola dal riflesso dello specchio.

«No» confessò a voce bassa, sorprendendomi a fissarla senza battere ciglio.

Andò in fibrillazione, squadrandomi con gli occhi di una bambolina di pezza, ma era il riflesso di me stesso a ripugnarmi. Oltre al sangue, i tagli scavati sul viso avrebbero lasciato cicatrici, ricordandomi ogni giorno quanto avessi rischiato.

Sembravo un reduce dall'Inferno, che stava disseppellendo le ferite della propria sopravvivenza, scavandone i chiocchi.

Se solo riuscissi a vedermi davvero, sapresti quanto sono marcio.

Quando un demone debole si specchiava, togliendosi di dosso la pelle di una battaglia, bisognava restare in silenzio e attendere che ne ricrescesse un'altra.

«Sydney» sibilai con la lingua che bruciava e le corde vocali che non volevano collaborare. Anche il tono della mia voce aveva un aspetto diabolico.

«Sì?»

«Chiudi la porta.»

La ragazza mi fissò, stranita. Girai bruscamente la testa e allargai le narici. «Esci da qui e chiudi quella cazzo di porta!»

Sydney sussultò, arretrando e chiudendo la porta come richiesto. Inghiottii a fatica, socchiudendo gli occhi per il rogo. Inspirai profondamente.

La luce al neon tintinnò, accecato dalla corrente che stava per spegnersi. Poggiai le mani sul bordo del lavandino e incurvai le spalle. Rispecchiandomi, comparve il riflesso di una donna. Trasalii, scattando all'indietro.

Quegli occhi di un colore soprannaturale e verdognolo, che nessun essere umano possedeva, mi osservavano cauti. La traiettoria del suo sguardo si spostò sulla stanza, scrutandola. Un gelido freddo si appesantì sulle mie spalle.

«Chi sei?» chiesi, ricevendo da parte sua un sottile e muto rimbrotto. Stropicciai gli occhi, sperando che fosse un'allucinazione.

«Chi cazzo sei?» sbottai, rovesciando un pugno contro il lavello. Il cuore pulsava furiosamente nella cassa toracica e, il terrore, si diffuse come un virus letale nelle vene.

Aggraziata come una piuma, appoggiò la mano sul vetro dello specchio. Nei suoi occhi brillò una strana consapevolezza, quasi apparente; qualunque cosa fosse, per qualunque motivo fosse lì, sembrava più reale di quanto lo fossi io.

«A tempo debito.» Si dissolse in una nuvola di fumo.

L'impronta delle sue dita screziava lo specchio in quel punto, lasciando un segno indelebile. Cadde il silenzio, spezzato solo dal suono incessante del mio battito cardiaco che, mi perforò le orecchie, a ritmo di un rituale proibito.

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