𝟴. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖

𝘔𝘪 𝘤𝘩𝘪𝘦𝘥𝘰𝘯𝘰 𝘴𝘦 𝘶𝘯 𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘰 𝘳𝘪𝘶𝘴𝘤𝘪𝘳𝘰̀ 𝘢 𝘳𝘢𝘨𝘨𝘪𝘶𝘯𝘨𝘦𝘳𝘵𝘪, 𝘮𝘢 𝘴𝘢𝘪 𝘣𝘦𝘯𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘶𝘯 𝘶𝘰𝘮𝘰 𝘥𝘪 𝘱𝘰𝘤𝘢 𝘧𝘦𝘥𝘦.
𝘔𝘢𝘨𝘢𝘳𝘪 𝘋𝘪𝘰 𝘩𝘢 𝘷𝘰𝘭𝘶𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘪𝘶𝘥𝘦𝘳𝘦 𝘶𝘯 𝘰𝘤𝘤𝘩𝘪𝘰 𝘴𝘶 𝘥𝘪 𝘵𝘦.
𝘔𝘢𝘨𝘢𝘳𝘪 𝘪𝘭 𝘵𝘶𝘰 𝘋𝘪𝘰 𝘦̀ 𝘣𝘶𝘰𝘯𝘰, 𝘢 𝘥𝘪𝘴𝘱𝘦𝘵𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘭 𝘮𝘪𝘰.
𝘔𝘢𝘨𝘢𝘳𝘪 𝘪𝘭 𝘵𝘶𝘰 𝘋𝘪𝘰 𝘵𝘪 𝘩𝘢 𝘱𝘦𝘳𝘥𝘰𝘯𝘢𝘵𝘢.
𝘔𝘦𝘳𝘪𝘵𝘢𝘷𝘪 𝘶𝘯𝘢 𝘧𝘢𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘢 𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰𝘳𝘦, 𝘶𝘯 𝘧𝘳𝘢𝘵𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰𝘳𝘦.
𝘐𝘰 𝘵𝘪 𝘩𝘰 𝘭𝘢𝘴𝘤𝘪𝘢𝘵𝘢 𝘮𝘰𝘳𝘪𝘳𝘦.
𝘌 𝘯𝘰𝘯 𝘩𝘰 𝘧𝘢𝘵𝘵𝘰 𝘯𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘴𝘢𝘭𝘷𝘢𝘳𝘵𝘪.

𝘌𝘳𝘰 𝘴𝘰𝘭𝘰 𝘶𝘯 𝘣𝘢𝘮𝘣𝘪𝘯𝘰 𝘦𝘨𝘰𝘪𝘴𝘵𝘢.

𝐒𝐈𝐀 𝐁. 𝐓𝐎𝐖𝐄𝐑


𝐿𝑎 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑣𝑜. La sentivo brulicare nelle giunture delle gambe, nelle braccia e nella testa. Rivedevo continuamente le immagini in pellicole sgranate; la mia vita si stava letteralmente sfaldando, aggrappata a una fune affilata da cui neanche Philippe Petit sarebbe uscito illeso. E gli occhi: un verde di apatite, particolarmente rarefatto e conturbante, sembravano come una pietra. Lo sforzo delle palpebre opprimeva il tentativo di aprire gli occhi, di focalizzare dove mi trovassi.

Ogni volta che cercavo di risalire a galla, qualcosa riusciva ad afferrarmi le caviglie, riconducendomi indietro, sotto il manto di nubi nere in cui ero immerso, trasportandomi giù, giù, ancora più giù.

Con discernimento, ascoltavo bisbigli, consapevole di ciò che mi stava accadendo; annegando nel mare di acqua gelida che mi otturava i polmoni.

«Giovane maschio, tra i venti e i venticinque anni. Ha subito un incidente d'auto.» La voce, priva di volto, doveva appartenere a uno dei paramedici intervenuti sul luogo. «Pressione ottanta, quaranta. Battito cardiaco a centoventi, respiro a trentacinque. Sintomi di ipotensione e iperventilazione.»

«Qualcun altro è rimasto coinvolto nell'incidente?»

«Il ragazzo viaggiava da solo. Il conducente del camion contro cui si è scontrato non si è fermato all'incrocio. È stato trasportato su un'altra ambulanza.»

«Avete trovato i suoi documenti o un recapito di emergenza nel cellulare?»

«La polizia è sul luogo dell'incidente, se ne sta occupando.»

Da quella scomoda passerella, il mio corpo fu trascinato sulla lastra ghiacciata dell'Antartide, ed emisi un mugugno di sofferenza mentre mi denudavano, tagliandomi i vestiti dalle caviglie fino alle braccia.

«Chiamate un anestesista!» ordinò uno dei membri del personale medico, e sentii dei piccoli passi sfrecciare fuori dalla stanza. Probabilmente qualcuno si era accorto che fossi sveglio.

Mani e utensili di acciaio cozzarono sulla mia pelle. Percepii strane sensazioni, un incessante formicolio che mi spingeva a fuggire a gambe levate.

«Ragazzo, sai dirmi il tuo nome?»

La gola mi bruciava. Doveva essere stato il fumo che avevo inalato quando l'auto era esplosa e io ero riuscito a uscirne prima che venissi carbonizzato.

Soffocai più volte, troppo faticoso riuscire ad articolare una sola sillaba.

«A... Ado... Adonis.» borbottai, sforzando le corde vocali infiammate; gli occhi bruciavano per la luce sfocata che mi colpiva sulla testa. Riuscivo a vedere i dottori, mascherati, muoversi preparati intorno a me.

«Ben fatto, Adonis. Sei stato davvero bravo.» Il dottore sorrise debolmente, introducendo l'ago di una siringa nel filo di un tubo. «Ora l'anestesista si occuperà di farti addormentare. Conta al rovescio.»

Delle mani passarono un filo dietro la mia nuca, sistemandomi la mascherina su metà del viso.

Dieci, nove, otto, sette, sei...

Qualcuno bussava alla porta.
Quattro colpi. Due campanelli.
Sbattei le palpebre, una goccia di sudore mi colò lungo la nuca.

Guardandomi intorno, notai di trovarmi in una casa abbandonata, con il soffitto sfondato e lo stormo di martin pescatori che sfrecciavano sulle assicelle consumate dalle intemperie. Alcuni mobili erano coperti da teli bianchi e un topo sbucò da sotto i piedi di un tavolo, rintanandosi in un buco del muro.

Quattro colpi. Due campanelli.

Con le gambe molli, mi avvicinai alla porta. Il bussare, instancabile e ritmato, non si era arrestato. I miei passi si infransero sul pavimento di assi danneggiate e sgretolate dal tempo. La perplessità si fece strada sul mio volto. Era il segnale. Il nostro segnale.

Scostai lo spino e mi avvicinai per guardare attraverso lo spioncino, martoriato e deformato.

La porta presentava graffi profondi, segni di animali selvatici che avevano provato a entrare.

Una nuca bionda comparve davanti alla mia visuale, girata di spalle, e, quando si voltò per ripetere i quattro colpi e due campanelli, il sangue riprese a scorrere velocemente nelle vene, facendo schizzare il cuore alle stelle.

«Adonis, ci sei?»

Aveva ripreso la sua carnagione chiara, non più quella di un cadavere; il sorriso sbarazzino e la medesima fragilità negli occhi topazio della Siberia.

Afferrai la maniglia e la abbassai, facendo cigolare la serratura e, spalancai la porta.

La presenza di Katarina non scomparve. Il subconscio mi gridava che non poteva essere reale, ma il cuore gli imponeva di tacere, perché lei era lì in carne e ossa. Nessun segno del cappio attorno al suo collo.

Papà mi stava cercando quel pomeriggio nella nostra nuova casa a Boston, trovandomi nella camera di Katarina, seduto a gambe incrociate sul pavimento, con il corpo penzolante che frusciava nell'aria gelida.

Papà mi chiese cosa ci facessi lì, pronto a punirmi se avessi osato fare il depravato con mia sorella. Con le bambine del quartiere era più che giusto; potevo essere me stesso, non mi avrebbe bastonato.

Papà seguì la traiettoria del mio dito, puntato su Katarina.

Colpevolezza o stupore?

L'aveva tirata giù, togliendole il cappio dal collo con una delicatezza che non gli avevo mai visto, nemmeno quando mi teneva per mano.

E i lividi... i lividi di segatura...

In quel momento vestiva i soliti abiti informali: pantaloncini corti e una maglietta indie di colore bianco con lacci sfrangiati.

«Perché ti ci è voluto così tanto? Non ricordavi più il nostro codice segreto?» Mostrava un volto imbronciato, ma la voce suonava rilassata.

Non era maturata.
Era giovane, diversa, viva.

Il groppo in gola divenne incontenibile, una sensazione brutale di nausea mi attanagliò lo stomaco. Portai una mano al viso, premendola contro per potermici affogare.

È un sogno? Sono morto?

Katarina reclinò la testa di lato. «Adonis.»

Piombai su di lei, circondandole il corpo con le mie braccia massicce. Era la più grande, ma io l'avevo superata in altezza e corporatura, diventando lei la più leggera fra noi due.

Così minuscola, così sensibile.

La strinsi forte al petto, garantendo a me stesso che nessun leggendario mostro, dai cui racconti notturni eravamo entrambi attratti, sarebbe riuscito a riprendersela.

«Adonis!» scoppiò a ridere fragorosamente.

Da quando in qua una semplice risata poteva essere la più bella melodia che avessi mai ascoltato?

«Per favore, solo... un secondo. Non staccarti.»

Le infilai le dita tra i capelli, che avevano il colore del grano appena raccolto, annusandole la pelle del collo e affondandoci il viso. Odorava sempre di fiori: gelsomino, papavero, ibisco.

«Sei cresciuto...»

Avevo sentito la sua mancanza come l'aria nei polmoni prima di affogare. Come la fine dell'estate. Come un bicchiere d'acqua nel deserto del Sahara.
Strinsi gli occhi: quanto tempo ci restava?

Katarina batté con delicatezza la mano sulla mia schiena. «Ti va di entrare?»

«Quante probabilità ci sono che tu possa scomparire?»

«Più o meno le stesse probabilità che io sia qui.»

Allentai la presa attorno al suo corpo per guardarla meglio. Katarina mi mostrò i denti, un sorrisetto impregnato d'affetto.

Stirai le labbra pigre in un sorriso tremante, scostandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Entriamo.»

Stringendola a me, la condussi all'interno della casa degradata. Perlustrando il posto, ci accomodammo nella zona che presumibilmente doveva essere il salotto. Sulla parete c'era un antico camino a muro, per cui cercai di raccogliere dei ramoscelli caduti da un vecchio albero che aveva sfondato il soffitto della casa.

Non avevo idea del perché mi disturbassi ad accendere il camino, quando avrei potuto semplicemente sedermi a parlare con lei.

Ma forse il mio era un tentativo di distrarmi, di non restare con le mani in mano; o, probabilmente, era solo il bizzarro sogno che stavo facendo.

Di tanto in tanto, mi accertavo che Katarina non scomparisse nel momento stesso in cui mi perdevo nel recupero della legna. Si guardava intorno, con le mani infilate nelle tasche posteriori dei pantaloncini e i pollici all'infuori.

«Questo posto è rimasto sempre lo stesso.» disse, scorrendo un dito sul ripiano, pulendolo dalla polvere.

«Sei già stata qui?»

Mi rivolse uno sguardo perplesso. «Davvero non te lo ricordi?»

Scrollai le spalle. Non ero mai stata una persona di molte parole. A lei risultava più facile aprire comizi e mostrarsi logorroica.

Katarina distolse lo sguardo. «Ti ricordi la baita in montagna, nel New Hampshire?»

Provai a schiarirmi le idee. «Intendi la baita che dava sulla valle? Quella baita?»

Lei ingrandì il sorriso, annuendo. «Esatto, proprio quella.» Dondolò sui talloni, ruotando poi su sé stessa. «Questa è la casa dismessa in cui venivamo spesso. Mamma e papà non volevano mai farci scendere giù dalla valle.»

Abbassai gli occhi. Sentivo il senso di colpa di aver rimosso uno di quei ricordi legati a mia sorella.

«Passavamo molto tempo qui dentro...»

«Mi dispiace.»

Smise di trotterellare, puntandomi gli occhi addosso. «Per cosa?»

Mi risollevai sulle ginocchia, abbandonando i rami sul pavimento. «Non conservo molti ricordi di... noi. Da bambini.» confessai, strofinandomi la nuca a disagio. «Eri molto più grande di me, all'epoca.»

«Vero, hai ragione.» Balzò sulla suddivisione in legno del pavimento, schivando l'altro. «Ma ora sembri tu il più grande... Quando ti sono cresciuti quei muscoli?»

Lanciò uno sguardo incuriosito alle mie braccia, mentre si bilanciava su un solo piede.

«Molto tempo fa, mi arrivavi qui.» mimò con la mano appiattita sotto lo stomaco. «La mamma era terrorizzata da questa situazione. Pensava che non stessi crescendo, perché tutti i tuoi amici diventavano sempre più grandi con il passare dei mesi... Saresti rimasto il piccolo di casa a tutti gli effetti.»

Un minuscolo sorriso mi nacque sulle labbra. «Sono cresciuto a sufficienza.» La osservai avanzare con il piede in bilico.

«Cavolo, Adonis, sei un gigante.» ridacchiò.

Le rivolsi uno sguardo silenzioso, mentre mi tastavo le tasche della felpa e dei pantaloni.

«Merda.»

«Che succede?» Tornò dritta, le braccia lungo i fianchi, fissandomi perplessa.

Sbuffai. «Abbiamo la legna, ma niente fuoco.»

Katarina sollevò un sopracciglio, severa. «Ora hai l'età per dire le parolacce?»

Strinsi le labbra in una linea dritta.

«Sto scherzando!» precisò con entusiasmo, raggiungendomi di soppiatto per rifilarmi un buffetto sul petto. «In questo posto puoi fare quello che vuoi. Non c'è bisogno di pensare. Ho imparato un trucchetto, vuoi vederlo?» chiese entusiasta, rivolgendomi uno sguardo complice.

Si inginocchiò accanto al caminetto, protendendo le mani verso la legna a occhi chiusi.

«Cosa stai facendo?» chiesi divertito, avvicinandomi.

«Shh! Devo concentrarmi.» Mi mollò un colpetto sulla spalla.

Girai lo sguardo sui ramoscelli secchi. Dal centro dei rametti un sottile vapore cominciò a fuoriuscire, trasformandosi rapidamente in una fiamma ardente.

«Come hai fatto?»

«Te l'ho detto: qui non c'è bisogno di pensare.»

Il fuoco si diffuse, corrodendo i ramoscelli in piccole bolle scoppiettanti.
Con un rametto più lungo spinsi il resto della legna verso la fiamma per mantenerla viva, e Katarina posò la testa sul mio braccio, stringendo le gambe al petto. Le fiammelle danzavano affamate nei suoi occhi tranquilli.

«Come sta la mamma?»

«Bene.» percepii il suo sorriso, anche se non potevo vederlo da quella prospettiva.

«E papà? Lui come sta?» Mi irrigidii.

«Bene.»

La sua mano corse a cercare la mia, intrecciando le dita alle sue. «E tu?»

Il crepitio del fuoco mi offrì un momento di tregua.

La nostra educazione si era sempre basata sull'essere cristiani praticanti. Da bambini, i miei genitori spesso ci portavano a messa. Katarina aveva una grande devozione; pregava spesso, persino prima di cominciare i pasti o di andare a letto. Nutriva una fede immensa, affermando che il Signore risiedesse nel suo equilibrio, avvolgendola di serenità e bontà.

A differenza sua, io non ci credevo. Non mi nutrivo di alcuna fede e non avevo intenzione di cercarla.

Eravamo totalmente agli antipodi: colei che esaudiva i desideri di nostro padre per scelta personale e non per imposizione, colei che si dilettava a studiare pianoforte insieme a nostra madre senza considerarlo una forzatura, colei che attribuiva al valore del nostro cognome un'importanza superiore senza che le risultasse un peso.

Katarina ammirava molto Nilde Jotti, Angela Merkel, Sanna Marin; donne di potere che avevano sconfitto il giudizio di un mondo patriarcale. Nella sua stanza aveva tappezzato le pareti con poster di donne al governo, finché nostro padre scoprì la cosa e la obbligò a rimuoverli. Fece ridipingere il muro della sua camera, intimandole che non avrebbe accettato una simile "subordinazione" in casa sua, e che avrebbe fatto meglio a concorrere per la carica di sindaco in una cittadina isolata.

Mio padre era petulante e dedito alla vita patriarcale.

Quando Katarina, decise di volersi dedicare a Dio, mio padre non la prese affatto bene. La sua scelta lo aveva imbarazzato più di quanto avesse fatto il suo depravato figlio, che si dilettava a terrorizzare le bambine.

«Sto bene.» risposi, appoggiando la guancia sulla sua testa.

«Quanto bene?» Tirò su le nostre dita intrecciate. «Venti sono a posto o dieci lo sono?»

Nel periodo di segregazione di mia madre, dovuto alla morte di mia sorella, non capivo quanto la scomparsa di un essere umano smembrasse la certezza della vita.

Secondo Bowlby, psicologo britannico, esistevano quattro fasi del lutto: la fase di stordimento, la fase di struggimento, la fase di disperazione e disorganizzazione e la fase di riorganizzazione.

Molti esperti avevano studiato come questo evento incidesse sulla vita quotidiana di una persona, osservando come la sua mente venisse fagocitata dal dolore. Tuttavia, dal punto di vista di Bowlby, mi ritenevo più vicino alla sua visione.

La fase di stordimento, in cui lo shock e l'incredulità per l'accaduto avevano la meglio, si alternavano a sensazioni di rabbia intensa e stati di afflizione profonda.

Zora aveva distrutto la collezione di piatti artistici sorrentini in ceramica, un regalo di nozze della mia bisnonna. Ma lei non si curò più né del valore né della quantità. Era devastata.

La fase dello struggimento, in cui si percepiva la concretezza del decesso in concomitanza con il funerale e la sua organizzazione, ossia la "morte pubblica". Generalmente si caratterizzava da una calma innaturale, interrotta da intensi scatti di dolore o di rabbia.

Zora aveva partecipato al funerale di mia sorella, ma i giornalisti volevano solo infastidirci con lo scoop dell'anno. Dopo lo sfogo contro i piatti in ceramica, nei giorni successivi, mostrò una calma apparente. Era il Valium.

La fase di disperazione e della disorganizzazione in cui si manifestava il travaglio emotivo del lutto, e si smetteva di chiedersi il perché fosse accaduto, arrivando ad ammettere la perdita, dove bisognava ristrutturare e riorganizzare la propria vita di conseguenza.

Zora all'epoca aveva tentato di suicidarsi nella vasca da bagno, tagliandosi le vene. Fu mio padre a trovarla.

Era andata troppo oltre.

Infine, l'ultima fase: la riorganizzazione. Quando la consapevolezza di ciò che era accaduto diventava definitiva, la persona cercava di comportarsi in modo diverso, tentando di acquisire nuove abilità e competenze, di assumere nuovi ruoli in alternativa a quelli perduti. Più questo accadeva, più la persona acquisiva fiducia in sé stessa e nelle proprie capacità, sebbene rimanesse un profondo senso di solitudine evidente soprattutto di notte. Molto spesso, anche a distanza di un anno dalla perdita di una persona cara, si continuava a pensare a lei e a volte si aveva la sensazione che fosse ancora presente.

«Dieci lo sono.» ammisi, mentre i pensieri mi sommergevano il cervello al solo ricordo del periodo più traumatico della mia vita.

Il venti sono a posto e dieci lo sono era un gioco che Katarina si inventò per via di nostro padre.

'Venti sono a posto': Markus ci era andato leggero. 'Dieci lo sono': poteva andarci peggio.

«Mi dispiace.» confessò lei, all'improvviso.

«Per cosa?»

«Di averti lasciato tutto solo.»

Quando una persona stava per morire, riviveva i momenti più belli della sua vita, ripensando ai suoi cari che, probabilmente, non avrebbe voluto abbandonare, arrivando a chiedersi se la propria morte avesse modificato le leggi dell'Universo.

«Non lo hai fatto. Ora sei qui.»

«Adonis.» Il timbro della sua voce divenne un grido d'allarme.

Girai la testa per guardarla. Un triste sorriso si allargò sulle sue labbra, resettando la mia salivazione.

«È l'ora, non è vero?» chiesi, con il panico nella voce e il rancore nel cuore.

Una lacrima le rigò la guancia. «Sì.»

Nessun trapasso. Nessuna corda di salvataggio mi avrebbe trattenuto lì ancora per molto.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma non possedevo la forza di farle uscire. Non ne avevo più da versare.

Era stata lei a portarle via, tempo fa.

«Ti voglio bene.»

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