𝟰𝟳. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖
«Perché non mi dici il motivo?»
«Guida e basta.»
«Dovrei perlomeno sapere in che direzione stiamo andando, no?»
Alzai gli occhi al cielo e lo guardai per un momento, prima di girare la testa verso di lui. «Non ti ho mica chiesto di accompagnarmi, quindi, è un no.»
Buster scosse la testa. «Sempre così misterioso»borbottò, preferendo non rispondere direttamente. Appoggiò un gomito sul margine della portiera, la mano sul volante che tamburellava ritmicamente.
Guardai fuori dal finestrino. Il buio della strada boscosa si estendeva ovunque e le ombre degli alberi dondolavano sotto i fari dell'auto.
Una volta giunti a destinazione, mi mossi sul sedile dal nervosismo. Con il cuore che batteva forte nel petto, le mani strette sul bordo stesso del sedile in cerca di un punto di appoggio.
«Parcheggia lì» suggerii, precisando il punto in cui poteva accostare lungo la strada.
Il crepuscolo era profondo, gli alberi si delineavano in controluce sulla terra. Buster assecondò le indicazioni che gli avevo dato e arrestò l'auto, spegnendo il motore. Sbirciò fuori dal finestrino, gli occhi fissi nell'oscurità. «Questo non è il posto dove hanno trovato Miles Campbell?»
Spalancai la portiera e scesi dall'auto. Il gelo della notte mi avviluppò all'istante come una supplica che mi sussurrava all'orecchio di tornare indietro.
«Adonis!»
Camminando davanti alla macchina, i fari che illuminavano il sentiero solcato, mi avvicinai al finestrino dove Buster mi guardava con aria severa.
«Tornatene alla festa, Buster.»
«Ti ho detto che ti avrei riportato indietro, indipendentemente dal motivo per cui ci troviamo qui!» sbuffò, la voce ferma e le mani che tenevano saldamente il volante. Ci guardammo, il silenzio che ci divideva, appesantito da qualcosa che non eravamo disposti a confessare, né io né lui. Digrignai i denti, il groviglio di nodi nello stomaco ronzò in avvertimento. Grugnii, girandomi di scatto e tuffandomi nell'oscuro sentiero che si perdeva tra gli alberi.
«Adonis» mi richiamò. Mi voltai esasperato.
Allargai le braccia, per chiedergli cos'altro volesse. «Che cosa vuoi?»
Buster si morsicò il labbro inferiore, un gesto che tradii la sua crescente irritazione. «Non fare cazzate.»
La riva del lago, il vento gelido che sferzava, affilato e tagliente. I rumori della notte, dapprima deboli, poi attutiti, alla stregua di un'intera selva che viveva e respirava con me. Il crepitio dei rami, il mormorio delle foglie, i canti degli uccelli della notte più buia di sempre.
Fissai l'acqua cupa e calma. Il riflesso della luna in superficie era una sorta di specchio nero, ma in quel manto lucido non vedevo alcunché.
Mi piegai leggermente, osservando l'acqua che scintillava appena sotto il cielo scuro. Ogni minimo spostamento d'acqua pareva intensificato, come se il lago stesso cercasse di attirarmi a sé. Una parte di me, tuttavia, sapeva che se mi fossi immerso completamente, non avrei potuto fare ritorno.
Eppure, ero pronto.
Tutto ciò che avevo vissuto mi aveva portato lì. Non c'erano risposte, né soluzioni, soltanto la paura incombente che mi spingeva in avanti, verso la fine. Sospirai.
Il freddo mi avvolse come una coltre invisibile, ma non era il freddo dell'acqua a farmi fremere. Fu la consapevolezza. Alzai un piede per muovere un primo passo in direzione dello specchio d'acqua. Ciascuna fibra del mio corpo si opponeva a tale decisione, ma nella mia mente le parole erano limpide: non c'è più niente per te. E forse era vero.
Continuai a camminare, il freddo si insinuava nelle gambe con l'acqua pronta a inghiottirmi. Ma, prima che raggiungessi il punto di non ritorno, qualcosa mi trattenne. Non si trattava di un pensiero lucido, né di un appello. Era solo un'idea diffusa, capace di introdursi come una mano fredda sul cuore.
Non dovevo farlo.
Smisi di camminare, il respiro affannato. L'acqua mi raggiunse all'altezza della vita, ma un profondo istinto mi costrinse a tornare indietro. Il brivido sulla mia pelle non era più legato al freddo. Stavo aggrappato a qualcosa che non sapevo neppure di volere.
Forse c'era ancora un motivo per fermarsi.
Il lago tacque, la luna continuò a proiettare sfumature intermittenti. Il vento sibilava tra gli alberi, ma stavolta non sentii più la nostalgia.
In quel contesto, tuttavia, qualcosa mi stava chiamando. Non il lago. Non la morte. Bensì un qualcosa come la verità.
Tornando indietro, non mi diressi verso la fine, ma al punto in cui avevo a disposizione la possibilità di scegliere.
Il sapore aspro del sangue mi dilaniò la gola come acido, e temevo che tutto fosse stato invano, che il ritorno non fosse più possibile.
La nausea colpì duramente, ma riuscì a tenerla a bada.
Il freddo dell'acqua risaliva fino alle caviglie.
In quel momento udii uno strano rumore: un lontano fruscio, un passo, un tremolio tra gli alberi. Era Buster? O forse la parte razionale di me che tentava di tornare indietro?
Non potevo più retrocedere. Ormai avevo oltrepassato il punto di non ritorno, sospeso tra l'incertezza e il coraggio.
L'acqua arrivò fino al petto e non mi arrestai, abbracciandomi totalmente non appena mi sommersi. Tutto in me gridava.
Non riuscivo a capire più se stessi soffocando, se fossi ancora vivo o morto. I pensieri si dissolsero man mano che l'acqua mi spingeva giù, sempre più a fondo.
Nessuna redenzione, nessuna salvezza.
Il tempo parve dilatarsi e le luci del mondo circostante sparirono.
Non vi era paura.
Solo il cambiamento.
Nel buio del fondale, qualcosa si mosse. Un movimento lieve, ma deciso.
Mi resi conto che non ero solo.
Qualcosa mi spingeva giù, sempre più giù.
All'improvviso, come se il mondo stesse compiendo un ultimo sforzo per me, l'oscurità divenne più fitta.
Il corpo non rispondeva più, mentre la mente dava i primi segni di risveglio.
Non era la fine. Almeno, non ancora.
Un'altra possibilità.
Stavo morendo.
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