𝟰𝟮. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖
Vivere fino al punto di non sentire più la vita.
𝐒𝐈𝐀 𝐁. 𝐓𝐎𝐖𝐄𝐑
Tua madre ha avuto un incidente.
Erano state le ultime parole di mio padre, subito dopo che il cellulare aveva finalmente preso campo, sommergendomi con una sfilza di messaggi che dicevano tutti la stessa cosa.
Tua madre ha avuto un incidente.
Il cielo era grigio, minacciava pioggia, riflettendo il mio stato d'animo. Mi stavo sgretolando, lo sentivo.
Le strade trafficate di Boston erano un labirinto, non vedevo nulla, non sentivo nulla. Camminavo - o volavo, mi era indifferente. Il tassista, un uomo anziano con un cappello sgualcito, mi osservava di tanto in tanto nello specchietto retrovisore, ma non disse una parola. Ogni semaforo rosso, ogni fermata, ogni frenata del veicolo mi strappava un grido soffocato.
Quando arrivai, il pronto soccorso pullulava di persone e medici che correvano. L'odore di disinfettante mi entrò nelle narici, ma non lo sentivo, non lo percepivo.
Mi feci strada tra la folla, il cuore in gola, gli occhi che cercavano disperatamente un volto familiare.
Lo trovai dopo aver corso attraverso un'infinità di corsie, tra letti vuoti e banconi affollati da infermieri che non mi guardavano. Il respiro mi uscii a fatica, come se l'adrenalina stessa mi avesse svuotato i polmoni.
Era seduto su una sedia nella sala d'attesa con le spalle curve, il volto spento, smettendo di respirare da un'eternità.
Le luci al neon, fredde e impietose, gli picchiavano dure sul viso, accentuando ogni ruga, ogni traccia di preoccupazione, ogni rimorso.
Un brivido mi attraversò mentre mi avvicinavo, ma appena mi vide, alzò la testa di scatto. Aveva gli occhi spenti, arrossati, opachi.
«Dov'è?» gli chiesi, la voce salda e timorosa, non preoccupandomi di chiedergli in primis come stesse, proprio come ci si aspetterebbe da un figlio ingrato come me.
Lo squadrai per bene, notando ogni dettaglio: le mani tremanti, i vestiti sgualciti e la leggera zoppia che tentava di nascondere. Mi accertai che neanche lui avesse delle cicatrici evidenti da non voler dichiarare.
Due cose definivano i Leblanc: il potere e l'orgoglio.
Anche se avesse avuto una costola rotta o stesse perdendo fiumi di sangue, avrebbe preferito morire piuttosto che piegarsi. Il suo sguardo, nonostante tutto, conservava ancora una scintilla di fierezza, mentre la mascella serrata tradiva l'indomita volontà di non cedere.
«È in sala operatoria» mormorò con un filo di voce.
«Da quanto?» incalzai, serrando i denti.
«Da due ore.»
Strinsi le mani in due pugni, sentendo le nocche diventare bianche per la forza con cui le stringevo.
«Siediti, per favore» disse, provando a mantenere una compostezza che non c'era. Ma non gli diedi corda.
«È stato un conducente ubriaco?» domandai, con tono austero, lo sguardo fisso su Markus. Mi guardò senza proferire parola, gli occhi gonfi di una tristezza che non gli avevo mai visto fino a quel momento. «Papà!»esclamai, con angoscia, la voce che tremava appena, nel parlare. Le due infermiere che stavano dietro il bancone rimasero in silenzio, lanciandosi un'occhiata apprensiva.
Markus si alzò in piedi, il movimento lento e deliberato. Si mise di fronte a me, ostruendo la prospettiva alle infermiere.
Appoggiò le mani sulle mie spalle, un tocco forte ma lieve, come a volermi trasmettere parte della sua pacatezza.
«Calmati» affermò a voce bassa, confortandomi. «Non voglio che ti agiti.»
Spingendo via le sue mani, avvertii il calore svanire sotto le dita. «Fanculo, dovevi ricordartelo anche quando ci picchiavi!» sbottai, sentendo la rabbia fremere.
I suoi occhi, intrisi di pentimento, cercavano i miei, ma preferii rimanere in sordina, mordendo l'interno della guancia fino a gustare il sapore metallico del sangue.
«Ascoltami, figliolo, tua madre ha subito una disgrazia, ma è stata lei a procurarsela.»
Di colpo, sbiancai.
«Cosa hai detto?»
Lui annuii, semplicemente, il peso delle parole traspariva chiaramente sul suo volto sfigurato. «Tua madre era la conducente ubriaca. Ha perso il controllo del veicolo ed è andata a scontrarsi con un'altra auto. È morta una bambina di sei anni, mentre il suo fratellino di soli tre anni è in terapia intensiva. E la madre...» Fece una breve pausa durante la quale si sentii il suono dei nostri respiri stentati. «I medici pensano che non riuscirà a sopravvivere in giornata.»
Rimasi a fissare il vuoto, massaggiandomi la mascella con la stanza che girava vorticosamente.
«Lei aveva smesso.»
Markus si limitò ad annuire, il volto marcato dalla stanchezza. «Sono trascorsi un paio di mesi da quando ha ripreso a mescolare alcol e pillole.»
«Perché nessuno, di voi due, mi ha detto niente?»
«Perché sei solo un ragazzo, Adonis» fece lui, ritenendola come la giustificazione più ovvia del mondo.
«Dovevi starle accanto» lo rimbrottai con voce dura, il cuore stretto in un nodo doloroso.
«Credi che non ci abbia provato?» Markus, tuttavia, non era dello stesso parere. «Tua madre è una donna adulta, Adonis. E non posso aiutare qualcuno che non vuole farsi aiutare!» Sebbene la linea di voce fosse ferma, nei suoi occhi c'era una miscela di rammarico e rassegnazione. «Non sono io il cattivo di questa storia!»
«Ma sei il cattivo della mia» replicai bruscamente. «Mi hai detto la stessa cosa su Katarina, che non potevi salvarla!»
«Tua sorella era malata, Adonis!» ribatté, ad alta voce, passandosi una mano nei capelli. «Cosa volevi che facessi per lei? Ero da solo. Tu eri solo un bambino, travolto dal trauma peggiore che un ragazzino possa affrontare. Avevo fatto tutto ciò che potevo per tua sorella: i medici migliori, le cure più adeguate, ogni cosa che un genitore può fare per i propri figli. E ancora pensi che sia stata colpa mia? Che sono stato io a metterle la corda al collo?»
Lo fissai negli occhi, nella speranza che arrivasse a dire che la colpa, dopotutto, era sua. I miei sforzi oscillarono, divisi tra il desiderio di credergli da un lato e la paura di soccombere dall'altro. Ma non volevo cedere. Non volevo prestargli fede.
Mia sorella non era affatto malata e Markus restava semplicemente Markus.
༒
«Come sta tua madre?» La connessione era instabile, il suono che scompariva e riappariva distorto, mentre cercavo di non perdere la pazienza. Era da qualche giorno che mi trovavo a casa dei miei, e la sensazione di essere intrappolato, non faceva che accentuare il mio malessere. La casa di città, con i muri spessi e i moderni mobili spaiati, si stagliavano in una prigione fredda. Mi ero sistemato nella mia vecchia stanza, ancora gonfia di cianfrusaglie, finché mia madre non si fosse ripresa.
«Sta meglio» risposi distrattamente, raccogliendo una t-shirt da terra e lanciandola sul letto. Nella mano sinistra tenevo il cellulare, cercando inutilmente un punto in cui la ricezione fosse migliore.
Lei si trovava dall'altra parte dello schermo, inondata dalla luce artificiale della lampada, nella stanza. Dalla mia parte, la luce del sole trapelava timidamente dalle tende, ma sapevo che presto avrebbe piovuto. Ne sentivo l'odore nell'aria.
«Non sembri molto felice» osservò Ellen, parlando con un tono discreto e ironico. «Solitamente, se una persona a cui teniamo supera un brutto momento, dovremmo sentirci sollevati, o sbaglio?»
Le sue parole interruppero i miei movimenti. «Peccato sia stata mia madre a volere un brutto momento»replicai, con un tono di rabbia più che dispiacere. Il groviglio di sentimenti che da giorni si stava accumulando in me parve inghiottire tutto: la casa, le stanze vuote, il vuoto, il silenzio che non cessava di avvolgermi; rendendomi incapace di separarmi dalla frustrazione.
I tratti del viso di Ellen si irrigidirono nello schermo. La sua delusione era evidente, ma non tanto negli occhi, bensì nelle pieghe del volto. «È tua madre.»
La risposta mi colse più di quanto mi aspettassi, come un colpo di mano improvviso che spezzava il fiato. Restai in silenzio per un momento, non riuscendo a rispondere.
Era mia madre, come io ero suo figlio.
Eppure, mi chiedevo: non si rendeva conto di quante vite avesse distrutto? Non si rendeva conto di quanto fosse fragile il filo che ci teneva legati, pronto a spezzarsi ogni volta che l'egoismo prendeva il sopravvento?
La pioggia iniziò a battere contro i vetri della finestra, dando il via a una discussione che stava assumendo una piega che non volevo. Ellen mi guardò, ferma, cercando di comprendere qualcosa che non riuscivo a spiegarle.
Scossi la testa, sedendomi sul bordo del letto, il materasso che cigolava sotto il peso del mio corpo. Guardai la fotocamera del cellulare, sforzandomi di cambiare argomento.
«Come procedono le cose lì?» domandai, nella speranza di sviare il discorso dalla pressione creatasi.
«Miles è ancora in ospedale, ma stabile» spiegò. «Ho visto Oliver Wallace più di una volta negli ultimi giorni, a eccezione di sua sorella.»
«Heather è ancora in ospedale?»
Volevo sapere di più.
«È stata dimessa il giorno dopo. A quanto pare non ha riportato ferite ed è in piena salute» replicò, inclinando leggermente la testa.
«Strano» affermai, più a me stesso che a lei.
«Cosa?» chiese Ellen, il tono incuriosito.
Rimasi a fissare lo schermo, i pensieri che mi frullavano in testa. «Sei sicura che non abbia riportato danni?»
Ellen sospirò, come se stesse digerendo la domanda. «Sono entrata nel sito dell'archivio dell'ospedale e ho letto la sua cartella clinica, Adonis» rivelò. con una tranquillità di cui stavo ignorando l'importanza. «È sana come un pesce.»
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