𝟯𝟲. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖
L'Eva che conoscevo, quella che mia madre sperava che Katarina non diventasse mai, era seduta di fronte a me.
L'avevo immaginata diversa: bruna, con gli occhi scuri, avvolta da un incanto di bellezza che lasciava tutti senza fiato. Ma questa Eva, quella che avevo davanti, non era come l'avevo pensata.
E, allora, perché Eva aveva una famiglia?
La luce fioca della finestra filtrava attraverso le grandi fine ad arco. Le sue dita sfogliavano le pagine di un libro con una calma inquietante, come se il mondo intero potesse ruotare senza che lei ne fosse scalfita.
Mi aveva detto che erano gli umani a chiamarla Eva, ma preferiva che mi rivolgessi a lei come: Evangeline. Era una sua ostinazione, come un ordine che avevo accettato senza battere ciglio. E non mi dispiaceva.
Le raccontai delle ultime ventiquattrore. Lei mi aveva chiesto di Michael.
Feci una pausa, ricordando la notte che avevo passato a cercare risposte. Quando avevo scoperto chi fosse, avevo preso un'altra strada, finendo in un motel. In realtà, ancora ci soggiornavo. Non volevo alloggiare in alberghi troppo eleganti, dove il lusso mi esponeva a domande troppo complesse.
Domande che non volevo rispondere a Markus.
«Michael è Lucifero» disse, la voce calma, gli occhi fissi sulle pagine del libro. «Se avesse voluto farti del male, lo avrebbe già fatto.»
«Il Diavolo porta pazienza.»
Lei alzò lentamente gli occhi dalle pagine, fissandomi con uno sguardo che non lasciava spazio a fraintendimenti.
«No» disse. «Semplicemente perché il Diavolo non può mentire. E non si nasconde.»
Il mal di testa si fece strada tra i pensieri, un martello che batteva incessante al ritmo delle rivelazioni confuse che avevo ascoltato. Troppa storia, troppi miti intrecciati in maniera così casuale da sembrare quasi un insulto all'intelligenza.
Forse avrei dovuto dirle di tacere.
«Lui ha mentito, invece. Non mi ha mai detto chi fosse, ha scelto di mostrarsi solo come un essere umano sotto mille spoglie.»
«Si è presentato come un essere umano e tu gli hai creduto» rispose, alzando le spalle con indifferenza. «E poi, voi umani, siete così creduloni.»
«Voi umani?» ripetei, quasi sorpreso, alzando gli occhi verso di lei. «Anche tu lo sei.»
Lei si fermò un istante, la pagina che teneva tra le dita era diventata improvvisamente troppo sottile per il peso dei suoi pensieri. Fissò il vuoto, come se cercasse di afferrare un ricordo lontano. «Lo ero...» sussurrò, con una fragile rivelazione che non riuscii a trattenere.
«Verità assoluta, ricordi?»
Con un gesto deciso, chiuse il libro, il suono secco della copertina che sbatteva contro le pagine, riecheggiò nella stanza, squarciando il silenzio che lentamente stava calando. La biblioteca, ormai quasi vuota, si svuotava di presenze umane, mentre gli studenti si dileguavano come ombre al calar del sole. La luce calante filtrava tra le vetrate, lasciando dietro di sé solo il respiro sordo del luogo e la promessa di una serata che si sarebbe consumata tra il riposo o il lavoro solitario nei dormitori.
Strinsi gli occhi in una smorfia, inclinando la testa di lato.
«Perché sei qui?»
Lei scosse lentamente la testa, gli occhi persi su un punto lontano, riflettendo su una domanda che non sapeva rispondere. «Non lo so... Probabilmente non gli servivo più.»
«Se non sei più un essere umano, che cosa sei?»
Evangeline sollevò lentamente lo sguardo, i suoi occhi che sembravano cercare una risposta tra gli scaffali. «Probabilmente mi darai una colpa...» Stava pesando le parole, mentre la consapevolezza scivolava sulla sua espressione.
«Colpa del perché ci hai reso tutti mortali? Può essere.»
Evangeline non sorrise. Il suo volto si fece serio, gli occhi si abbassarono di nuovo sulle pagine del libro che aveva chiuso. Il silenzio tra noi si fece denso, come se avesse bisogno di tempo per raccogliere il coraggio di svelare ciò che portava dentro.
«Credevo che fossi stata perdonata dopo Caino e Abele» disse, la voce tremante di dolore. «Ma dopo la morte di Abele, Dio mi ha messo davanti a un'ultima scelta.»
Si fermò, le parole che bruciavano ancora, e i suoi occhi, fissi nel vuoto, non sembravano vedere più nulla. «Abele non sarebbe mai ritornato e io non l'avrei mai più rivisto. Caino neanche. E Seth...» Un lungo respiro. «Alla fine, sono diventata colei che mette fine alla vita.»
Evangeline non sembrava più una persona, ma un concetto. La Morte stessa, incarnata in una donna che non aveva mai chiesto di esserlo. «Sono la fine di tutto. La quiete che segue il caos. L'inevitabile.»
«La morte» conclusi per lei, la voce che uscii come un sussurro.
Lei non rispose.
Mi alzai dalla sedia con un movimento lento, come se il peso di tutto ciò che stavo vivendo mi gravasse sulle spalle. Le mani entrarono in tasca quasi per abitudine, sfilando il pacchetto di sigarette, il rumore di plastica che si udii troppo forte.
Evangeline, senza alzare lo sguardo, riprese a sfogliare il libro. «Hai fame?»
La domanda uscii così spontanea che, nel momento stesso in cui la pronunciai, mi accorsi di quanto fosse fuori luogo. Evangeline, che fino a quel momento sembrava essere un'entità distante, un concetto astratto, qualcosa di molto più grande e incomprensibile della carne che la componeva, mi guardò con un'espressione di incredulità.
«La biblioteca sta per chiudere... e io ho fame» mi giustificai, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non stessi parlando con la Morte stessa, con colei che aveva il potere di fermare il respiro degli esseri viventi.
Mi venne da sorridere amaramente all'idea che una banalità come la fame potesse sembrare più rilevante di qualsiasi altra cosa in quel momento.
Era strano come la mente, in un solo istante, potesse mescolare realtà e assurdità. Il cervello umano non era fatto per elaborare troppe informazioni in una volta sola.
Così, mentre Evangeline mi fissava, cercando di comprendere se avessi davvero appena detto quello che avevo detto, mi continuavo a ripetere che avrei potuto darle una colpa; quella della morte di mia sorella.
Ma qualcosa mi fermava.
Forse la consapevolezza che, se avessi davvero cercato la verità, avrei dovuto affrontare molto di più di quanto fossi pronto a gestire.
Forse lei, era l'unica entità che non mi disgustava.
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