𝟯𝟱. 𝗘𝗩𝗔

Se avessi dovuto descriverla, avrei detto che era un piccolo passerotto, dalle piume morbide e un canto contagioso.

Ma c'era qualcosa nei suoi occhi, una luce sfuggente, che tradiva il suo essere un passerotto.

Non erano solo occhi innocenti: c'era in loro un velo, portando con sé il peso della verità. Era leggera come il sussurro di una preghiera, ma ogni battito d'ali ne evocava la tristezza, i ricordi sepolti sotto la polvere del tempo. Era un messaggero tra i mondi, un fragile simbolo di speranza che danzava sulle linee sottili tra luce e tenebre.

Non avevamo nulla in comune.

Il corpo snodato, la sua eleganza fragile, erano l'esatto contrario della mia essenza. Gli occhi di un azzurro così intenso da sembrare irreale, mi scrutavano con una profondità ipnotica, mentre la sua bocca, piccola ma incredibilmente carnosa, emanava una dolcezza che non conoscevo. I capelli, sempre disordinati e selvaggi, erano di un biondo naturale che brillava sotto il sole, avvolta da una luce celeste.

Eppure, nonostante tutto questo, non avevamo nulla in comune.

Eravamo due poli opposti, destinate a incrociarci in un momento che non potevamo comprendere.

Lei era il sole che scaldava l'anima, io ero la luna che, nell'oscurità, cercava il suo riflesso.
Lei incarnava la luce, io camminavo nell'ombra.
Lei era la purezza, io la corruzione.

Ma, qualcosa ci legava in un modo che non riuscivo a spiegare. Un filo invisibile, sottile ma indistruttibile, ci teneva unite, intrecciando le nostre vite in un gioco di contrasti, in cui ogni opposto trovava il suo equilibrio.

Lei era la brezza estiva che accarezzava la pelle, io il vento gelido che scuoteva l'anima.
Lei era il canto degli uccelli, io il bubolare di un gufo.
Lei era il calore di un abbraccio, io il freddo di una solitudine cercata.

Il destino aveva deciso di fondere le nostre due essenze, creando un quadro vivente dove il sole e la luna, l'amore e l'odio, fossero parte di un'armonia perfetta.

Mi insegnava a vedere la bellezza nelle cose semplici, quelle che sfuggivano agli occhi di chi si perdeva troppo nei pensieri oscuri.

Io le mostravo la profondità delle ombre, quelle che si celavano dietro la luce, imparando a combatterle.

Insieme, eravamo un unico respiro, un unico battito, un equilibrio tra la luce che rischiarava e l'ombra che abbracciava.

Lose Control di Teddy Swims risuonava negli auricolari, avvolgendo i miei pensieri. Con un gesto meccanico, sistemai gli auricolari nelle orecchie, chiusi gli occhi e presi un respiro profondo.

Mi piegai in avanti, stendendo i muscoli indolenziti, la musica che guidava ogni battito. Allungai una gamba, poi l'altra.

Il cielo, appena sveglio, si tinse di arancio e azzurro.

Il sole stava per sorgere e il campus era immerso in un silenzio che rendeva tutto più vivido. Solo io e il mio passo.

Corri.

Iniziai a correre, un passo slanciato e deciso.

C'era una sola cosa che davvero ci univa, me e Heather: la corsa. La sua assenza era come una costante in sottofondo, il ritmo dei passi che si fondeva con il battito del cuore, ogni falcata un atto di liberazione. Il mondo esterno svaniva, ridotto a un punto; restavo solo io, il corpo in movimento e il battito della musica che mi spingeva a correre più forte, più veloce.

Il vento fresco della mattina mi accarezzava la pelle, mentre il cielo di un arancio morbido si tingeva sopra di me, come un quadro appena dipinto. Sentivo ogni muscolo lavorare, ogni respiro più profondo; potere e vulnerabilità si mescolavano in un unico, perfetto, movimento.

Corri.
Più forte.
Più veloce.

Il dolore nei muscoli delle gambe aumentò, ma non fermai il passo.

And the devil's knocking at my door.

Le parole della canzone si fecero più intense, una scossa che mi attraversava.

Outta my mind, how many times.





Salii i gradini dell'edificio, sistemando la tracolla della borsa sulla spalla con un gesto automatico. Sorrisi distrattamente a una ragazza del mio stesso corso, muovendomi in direzione delle doppie ante dell'ingresso della biblioteca. Il rumore dei miei passi si mescolava al brusio di studenti che percorrevano il campus, il sole alto nel cielo conferiva un'aria calda ma continuamente invernale.

Afferrai la maniglia della porta, ma una mano mi fermò, posandosi sulla mia con un'urgenza inaspettata.

Alzai gli occhi di scatto, incontrando lo sguardo intenso di Adonis, che mi fissava con una sorta di smarrimento che non riuscivo a decifrare. I suoi occhi erano cercatori, fuori posto.

«Adonis?»

Provai a seguire la traiettoria dei suoi occhi, ma oltre a noi, c'erano solo studenti seduti sull'erba, qualcuno che passeggiava distratto, e il campus che, come sempre, pullulava di gente.

«Devo parlarti» mormorò, con un tono di voce così basso che inizialmente pensai di essermelo immaginato. Il suo respiro, profondo e breve, iniziò a pesare persino a me. Non riuscii a staccare lo sguardo dalla sua mano, ancora appoggiata sulla mia.

Adonis, come se si fosse reso conto di quello che stava facendo, la ritirò con un movimento brusco. Troppo calda, troppo intima.

«Possiamo farlo più tardi?» chiesi, alzando un sopracciglio.

«No.» La sua risposta arrivò accompagnata da un sospiro profondo. «Mi hai ignorato dall'ultima volta che ci siamo visti. Adesso devi ascoltarmi.»

C'era un'intensità in lui che mi lasciava in bilico tra il voler fuggire e il voler capire.

Mi lasciai convincere, un po' perché non avevo altra scelta, un po' perché... non sopportavo l'idea di essere in debito con qualcuno.

Soprattutto con lui.


Gli esseri umani potevano non comprendere i segreti di mondi che esistevano da molto prima della nascita della Terra, ma un'intuizione sottile mi suggeriva che, seppur celate, le risposte si trovavano tra pagine, pagine e pagine di parole.

Adonis era uno di quegli esseri umani: curiosi, fin troppo; problematici, oltre ogni immaginazione; e dubbiosi - una caratteristica che odiavo più di ogni altra.

«Forse sarebbe meglio cominciare a spiegare tutto dall'inizio, no?» Non era una domanda, ma una costrizione: vuotare il sacco o restare a fissarci negli occhi fino a che la biblioteca non chiudesse.

Stremata da quella continua insistenza, appoggiai la borsa a terra e incrociai le braccia sul tavolo di legno.

«Che cosa vuoi sapere?» sospirai, un misto di frustrazione e rassegnazione.

Lui strinse gli occhi, lanciando un'occhiata rapida in giro per accertarsi che nessuno ci stesse ascoltando. Poi, con un movimento rapido, si sporse verso di me, il busto che quasi toccava il tavolo. «Lasciamo perdere le domande e parla. Raccontami tutto. Togliamoci questo dente.»

Stranamente, mi divertiva quell'atto di caparbietà da parte sua. Seguii il movimento, sporgendomi in avanti; il viso a pochi centimetri dal suo. «Vuoi davvero farlo?» chiesi, con un tono provocatorio.

«Non dobbiamo mica scopare» rispose indifferente, «su quello so essere ancora più deciso.» L'occhiata lunga parlava chiara.

«Potresti scappare via di qui, a gambe levate.»

«Mettimi alla prova.»

Rimasi a guardarlo, lo sguardo che scivolava lentamente lungo il suo braccio, notando come lo ritrasse di colpo per nasconderlo.

«Sei credente?»

«Cresciuto come cattolico. Ma non ho mai creduto a queste stronzate» afferma, con un tono che aveva del distacco.

Mi rabbuiai. «Non sono stronzate!» sbottai, cercando di controllarmi. Lanciai un'occhiata nervosa attorno, poi tornai a concentrarmi su di lui. «Va bene, ascolta, avrei dovuto immaginare che fossi così restio, ma se vuoi conoscere tutta la verità, devi iniziare a credermi» dissi, il tono impetuoso, con la speranza che facesse esattamente come gli stavo chiedendo. «Senza sé, senza ma.»

Adonis non cambiò espressione. Si limitò a un cenno di assenso, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che mi diceva che stava ponderando se aggiungere qualcosa. Attesi.

«Sono cresciuto in una famiglia cristiana. I miei genitori sono molto devoti. Mia sorella lo era anche di più; stava per prendere i voti per diventare suora.»

«Hai detto 'era'?»

Le sue palpebre tremarono, lo sguardo abbassato. Non rispose subito, si passò una mano sulla mascella. «Mia sorella si è suicidata. Non ha mai ottenuto i voti.»

Il cuore mi si fermò per un attimo. «Mi dispiace.»

Lui fece un movimento indifferente con le spalle, lo sguardo che si spostava distrattamente.

«Non sei stata tu ad ammazzarla. Non devi dispiacerti per me. Né per lei.» Si rilassò contro lo schienale della sedia, un'apparente calma che non riusciva a nascondere la distanza emotiva.

Non mi ero mai sentita così restia nel rivelare il mio ruolo, come in quel momento. Lui deglutii, gli occhi che si fissavano sulle mie mani intrecciate, cercando di leggere qualcosa nelle mie dita.

«Sai perché lo ha fatto?»

«No» rispose. «Avevo solo nove anni. Ricordo poco o niente. Ma non ha mai lasciato una lettera, nessuna spiegazione.»

Storsi le labbra in una smorfia dubbiosa, guardandolo. Ma lui non ricambiò lo sguardo.

«E pensi che la colpa sia di qualcuno?»

Le sue sopracciglia si alzarono improvvisamente. Ridacchiò, un suono secco, amaro.

«Sarebbe da codardi dare tutta la colpa ai miei genitori» disse, il tono sarcastico, ma con un'intensità che tradiva qualcosa di profondo. «Ma ho sempre avuto dei dubbi anche su Dio. Un Dio che se ne sta a guardare senza fare nulla... sarebbe stato più facile se avesse almeno provato a fermarla.»

Il suo sguardo si alzò finalmente, fissandomi dritto negli occhi. Si sporse in avanti, il busto piegato sopra il tavolo, le braccia incrociate.

«Sarò diffidente nei confronti delle cazzate della Chiesa» proruppe, la voce che vibrava di serietà, «ma ho letto ogni cosa che le riguarda. Ora dimmi la verità. Quella cosa che ci ha attaccati... non era umana, vero?» Il cuore mi salii in gola.

«Il modo in cui ci ha attaccato, e i suoi occhi...» Socchiuse i suoi, come se il ricordo gli bruciasse dentro. Lentamente, li riaprii. «"Il Diavolo è un essere spirituale invisibile; questo significa che non ha un corpo fisico", Efesini 6:11, 12.»

«Per uno che non ci crede, sembri piuttosto informato sui versetti della Bibbia.»

«Solo curiosità» rispose senza scomporsi.

Mi passai la lingua sulle labbra, cercando di calmarmi.

«Quella cosa che hai visto... era effettivamente una cosa. Un demone.»

Lui mi fissò dritto negli occhi, il sorriso che si allargava lentamente. Piegò il capo di lato.

«Quando mi sono svegliato e ti ho trovata lì, a giacere, non c'era più. I demoni scappano?»

Mi agitai nervosamente sulla sedia, le mani che si stringevano sui braccioli di legno. «Vuoi sapere troppo.»

«Abbiamo detto verità assoluta» mi ricordò, con un tono che non ammetteva obiezioni. «Da qui non me ne vado se non mi dici tutto.»

«I demoni non scappano, ma tu scapperesti a gambe levate se ti rivelassi chi sono.»

Adonis ridacchiò, il sorriso un misto di sfida e divertimento. «Oh, davvero?» Si avvicinò un po' di più, il corpo inclinato verso di me con un'aria che sembrava dire: vieni a prendermi.

«E che cosa saresti, allora? Un angelo? Un demone? Lilith

Al nome Lilith, i suoi occhi si dilatarono per un istante, quasi rapiti da un feticismo oscuro. La sua voce cambiò leggermente, come se avesse risvegliato qualcosa dentro di lui.

«Lilith...» sussurrò, un brivido strano nel tono. «Davvero?»

Lo fissai impassibile, gli occhi fermi nei suoi, come se niente al mondo potesse scuotermi.

«Eva» sussurrai, alzando leggermente il mento, un gesto che tradiva una sicurezza glaciale.

Sentii il suo alito caldo battere sulle labbra, un respiro che si faceva sempre più vicino. «Sono Eva.»

Lentamente, Adonis tornò a sistemarsi sulla sedia, mantenendo lo sguardo fisso nel mio, senza mai distogliere gli occhi.

«Non sono scappato» ammise.

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