𝟯𝟬. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖

Trentaquattro ore.

Trentaquattro ore che si erano trasformate in un giorno e mezzo di attesa senza fine.

Trentaquattro ore in cui non avevo mai abbandonato la sedia della sala d'attesa, diventata una prigione di plastica e metallo che mi aveva lentamente prosciugato.

Trentaquattro ore vestito con un camice d'ospedale.

Trentaquattro ore senza cibo, senza acqua.

L'essere umano era composto in media dal sessanta percento di acqua. Mi venne in mente la statistica, mentre la bocca mi bruciava di sete e il corpo iniziava a tremare in segno di disperata richiesta.

Solo tre giorni senza acqua e avrei ceduto.

Non avevo mai disprezzato il mio corpo come ora, costretto a ricordarmi la mia vulnerabilità.

La signora Wallace apparve da dietro l'angolo del corridoio. I suoi occhi, così simili a quelli di sua figlia, erano gonfi e arrossati, circondati da cerchi neri di stanchezza e dolore.

L'intero peso della tragedia si era abbattuta su di lei in un solo istante.

«Sei tu Adonis?» mi domandò all'improvviso.

Mi alzai di scatto, come se la sedia fosse diventata improvvisamente incandescente.

«Ci sono notizie su Heather?» chiesi d'un fiato, le parole che uscirono in fretta, a soffocarmi.

Lei curvò le labbra sottili in un sorriso triste, uno di quelli che non raggiunse mai gli occhi, sedendosi accanto a me, senza dire una parola.

Abbassai lo sguardo, incapace di incontrare i suoi occhi, e mi lasciai ricadere sulla sedia; l'unica cosa che riuscisse a sorreggermi. Lei sospirò, lisciandosi distrattamente i palmi delle mani sui jeans sbiaditi. Le sue mani, forti ma trascurate, raccontavano una vita di lavoro duro e di contatto quotidiano con la terra.

«Ti sono grata per averla portata in ospedale. Di averla salvata.» Il tono della sua voce era roco, per la mancanza di sonno.

«Ho fatto quello che dovevo» risposi, senza sapere bene come comportarmi. «Non mi piacciono gli ospedali.»

Lei annuii lentamente, gli occhi persi nel vuoto, poi disse, con una sincerità che mi colpì: «A nessuno piacciono gli ospedali. Neanche a me.»

Mi morsi il labbro inferiore con forza, sentendo il metallo del dolore risalire da dentro. «Mi dispiace.» fu tutto ciò che uscii dalla mia bocca.

«Non devi» disse con un sorriso che svanì rapidamente, trasformato in una maschera per non cedere al dolore. «Anche tu hai rischiato, Adonis.»

«Io sono qui, però» mi costrinsi a dire. «Sveglio, con trenta punti all'addome e diciotto al braccio.» Un lungo sospiro mi uscii dalle labbra, portando con sé un pezzo di stanchezza.

Lei scosse la testa, il labbro inferiore che le tremò. Gli occhi si sollevarono verso di me, lucidi di lacrime.

«Ma l'hai salvata. Non puoi immaginare quanto significhi per me, come madre.» E la voce si incrinò su quell'ultima parola.

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