𝟮𝟳. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖
Erano passati diversi giorni dall'ultima volta che avevo parlato con Heather, giorni che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Le sue parole risuonavano ancora nella mia mente, quella sicurezza sfrontata: «Mi credi?» come se fossi l'unico a poter giustificare la sua innocenza. Una domanda che mi aveva messo in crisi, come se la verità fosse qualcosa di fluido e mutevole, a cui ognuno di noi poteva dare la propria forma.
Scendendo i gradini della biblioteca, il rumore dei miei passi era l'unico suono che spezzava il silenzio. Avevo un'ora di buca prima di dover attraversare il campus per una lezione che mi annoiava già. Controllai l'orologio, tenendo i libri stretti sotto il braccio. Il campus mi era estraneo, dove le cose si muovevano in un ritmo che non riuscivo più a seguire.
Da un edificio vicino, riconobbi una figura che avrei riconosciuto a occhi chiusi: il profumo del suo dopobarba arrivava anche a distanza.
Markus.
Stava stringendo la mano al rettore White con un sorriso compiaciuto, mentre accoglieva con altrettanta cordialità quella del signor Parker.
Markus aveva sempre cercato di modellarmi a sua immagine: calcolatore, astuto, spietato. Mi spingeva a diventare ciò che temevo di essere, a cercare nella corruzione una sorta di potere oscuro. Se riusciva a farmi credere che il vuoto fosse la via per la superiorità, che l'inganno fosse il solo mezzo per il controllo, allora avrebbe vinto. Eppure, ogni volta che mi guardavo allo specchio, non vedevo che una marionetta nelle mani di un burattinaio senza scrupoli.
Il suo veleno, dolce e avvolgente, si era insinuato in me troppo a lungo. La mia anima, mai stata pura, si era macchiata con le sue mani, ma dentro di me, tra le rovine del mio spirito, ardeva ancora una scintilla di ribellione. Non ero pronto a cedere, non completamente, al buio che Markus aveva scelto per me. C'era ancora una parte di me che anelava alla luce, alla redenzione, che sperava in un'uscita da questo labirinto di malvagità.
Non volevo incontrarlo. Non volevo salutarlo.
Ma quando girai il piede, la sua voce giunse come un colpo secco, forte e inequivocabile: «Figliolo! Adonis, vieni qui!» Socchiusi gli occhi, cercando di ignorare la sensazione che mi stringeva il petto, e respirai lentamente, tentando di mantenere la calma.
Mi avvicinai con passi lenti.
Il rettore White mi fece un sorriso che non raggiunse mai gli occhi e, il signor Parker, lo imitò con una cortesia quasi forzata.
«Buongiorno» dissi, in tono misurato.
«Sai cosa mi ha detto il tuo insegnante?» proruppe Markus, lanciando uno sguardo brillante al signor Parker prima di riportare l'attenzione su di me. Si avvicinò e posò una mano sulla mia spalla, un gesto che mi fece irrigidire subito.
«Che vorrebbe farti ottenere un colloquio per uno stage in uno dei migliori studi legali di Boston.»
Guardai il signor Parker con uno sguardo inespressivo, senza sapere se quello che mi stava dicendo fosse una buona o cattiva notizia. Mio padre, però, non perse un colpo. Mi strinse la spalla con un'ulteriore pressione, come a farmi capire che dovevo dire qualcosa, che tutto era sotto controllo.
«Grazie» risposi, senza dare peso alla sua osservazione.
Il signor Parker sorrise. «Sei uno dei miei migliori studenti. Te lo meriti» commentò, prima di guardare l'orologio con una smorfia. «Signori, devo andare. La mia prossima lezione è dall'altra parte del campus.»
«Vada pure, signor Parker» annuii Markus senza esserne contrariato. «Non vogliamo certo che i suoi studenti la aspettino.»
Il rettore White rise.
«Grazie mille, signor Leblanc.» Gli strinse la mano. «Ciao Adonis.»
«Signor Parker» ricambiai il saluto, mantenendo un tono formale.
Markus rivolse un cenno al rettore. «Grazie per l'invito, rettore White.»
«È sempre un piacere averla qui, signor Leblanc»ribatté, la cortesia quasi smorzata dalla fretta.
Non appena ci voltammo per allontanarci, Markus mormorò, la voce intrisa di irritazione: «Andiamo» e lanciò un'ultima occhiata al rettore prima di avviarci.
«Che ci fai qui?» gli chiesi, secco, fermandoci sotto le colonne della biblioteca.
«Avevo un incontro con il rettore. Hai sentito?» rispose, sbrigativo, lanciando uno sguardo ai libri che tenevo sottobraccio, giudicandomi senza nemmeno parlare. E aggiunse, senza perdere il suo tono di indifferenza: «Stavi andando a lezione?»
«Dovevi chiamarmi» ignorai deliberatamente il suo tentativo di fare conversazione. Il mio tono era tagliente, come il fruscio di foglie secche calpestate.
«L'ho fatto. Molte volte, aggiungerei» replicò, quasi offeso, sollevando un sopracciglio. «Ma sembra che tu avessi impegni più urgenti.»
«Dovevi comunque chiamarmi!» insistetti. «Non puoi piombare qui senza preavviso.»
Un'espressione di esasperazione attraversò il suo volto. «Continuo a finanziare i tuoi studi, Adonis. Credo che sia il minimo che tu possa fare» disse, il tono intriso di impazienza malcelata. «Sono tuo padre. Voglio rispetto da parte tua.»
Un sorriso amaro si disegnò sulle mie labbra. Quel discorso era solo una misera ripetizione. «Parli proprio tu di rispetto?» Il suo sguardo si indurii. «Hai mai pensato a cosa significa, per me, essere tuo figlio? A come riesci sempre a ottenere tutto ciò che vuoi, anche quando si tratta dei miei studi, senza nemmeno consultarmi?»
Da bambino, la sua presenza mi paralizzava. Il terrore mi assaliva persino quando, irrompendo nel suo ufficio senza bussare, cercavo disperatamente di dimostrargli che avevo imparato una nuova parola complessa.
Ripensando a quei momenti, non potevo fare a meno di rendermi conto di quanto fossi ingenuo.
Non era la mia abilità che lui bramava, quella per cui ero stato benedetto; voleva solo sopraffarmi, abbattermi con la stessa ferocia con cui un cacciatore si avventava sulla sua preda. Ogni gesto, ogni parola, era un attacco travestito da interesse. Un gioco crudele di potere e dominazione.
Markus non cercava di insegnarmi, ma di piegarmi, di ridurmi alla sua immagine, come una scultura malformata. Voleva che diventassi la sua eco.
Non ero più il bambino spaventato che cercava la sua approvazione. No, ero qualcun altro. E avrei guardato quegli occhi feroci, sfidandoli di venirmi a prendere.
«Adonis» disse. «L'ho fatto per te. Per il tuo futuro...»
Scossi la testa, una risata nervosa mi sfuggii. «Tutto quello che fai, lo fai sempre e solo per te! Non ti interessa un cazzo del mio futuro! Tu vuoi solo che io vinca!»
Scossi la testa, scrollandomi di dosso qualche sua giustificazione pronta. Feci un passo indietro, distanziandomi da lui e mantenni lo sguardo fermo, senza rimorso. «Tornatene a casa. Non voglio più vederti qui.»
Nessuna esitazione.
Nessun pentimento.
Proprio come mi hai insegnato tu, papà.
༒
Qual è la differenza tra Halloween e Miles Campbell?
Che uno ti spaventava e ti faceva correre via, l'altro era quello che tutti aspettavano con ansia e, alla fine, ti lasciava sempre senza fiato.
Lascio a voi la libera interpretazione.
I suoi occhi scuri, fotografati e fissi sul volantino, penetranti come il cioccolato fondente, non smettevano di fissarmi. Il sorriso che mi rivolgeva era amichevole, ma la divisa da giocatore di football lo rendeva ancora più imponente; in questo posto lui era il padrone.
Risposi al suo sguardo con un sorriso scintillante, ma non senza un filo di diffidenza. Sapevo che, prima o poi, sarebbe ritornato nella vita di tutti, e non ero affatto pronto per un'altra sorpresa.
Anche il Tunnel, quel posto che avevo frequentato tante volte, era il testimone chiave del mio processo, sulla mia capacità di diventare invisibile.
Avrei voluto strappare quei fottuti volantini.
«Ti porto qualcos'altro?» La voce della barista attraversò il rimbombo della musica, ma non riuscii a sovrastare quello dei pensieri.
«No.»
«Fai in fretta e libera il bancone che ho gente da servire.» aggiunse, con una bottiglia di vodka in mano per riempire un bicchierino fino all'orlo.
Non mi aspettavo altro, ma quando sollevò la bottiglia, sentii un'improvvisa ondata di fastidio. Mi misi a giocare con il bicchiere di acqua e limone. Scossi la testa, come per mandare via un pensiero che non volevo ascoltare, ma la stronza continuava a lanciarmi occhiatacce e, sporgendomi, le strappai la bottiglia con forza dalle mani.
La barista mi guardò, sorpresa, mentre le voltai le spalle senza proferire parola.
«Coglione! Quella devi pagarla!» Il grido tagliò l'aria, e il gesto che seguii fu istintivo: sfilai una manciata di banconote dalla tasca dei jeans, senza preoccuparmi di quanto fossero.
Gliele lanciai con disinvoltura; mi allontanai con la bottiglia stretta tra le mani, senza neanche guardarla.
«Capitano!» La voce di John, il difensore, ruppe la distrazione del tavolo, ormai un campo di battaglia fatto di bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. «Fatti un giro con noi!» implorò, agitando una bottiglia come uno stendardo davanti ai miei occhi.
Alzai la mia di bottiglia per mostrargliela, più che carico. John mi sorrise e tornò a parlare con gli altri ragazzi.
Mi lasciai cadere su uno dei divanetti, il corpo troppo pesante per restare in piedi e osservai la folla. La pista era un insieme di corpi in movimento, un fiume impetuoso di braccia e gambe. C'era chi si appartava e chi non si preoccupava di nascondersi.
Le vertigini mi assalirono all'improvviso. Portai la bottiglia alle labbra e bevvi un sorso, tentando di contrastare la sensazione di nausea che mi stava invadendo. Ma non bastò. Bevvi di nuovo, più a fondo, come se cercassi di inghiottire l'inquietudine insieme al liquido bruciante.
Pressai le dita sul ponte del naso, cercando di fermare il carosello di sensazioni che mi stava travolgendo.
«Vacci piano!» fece qualcuno.
Chiusi gli occhi, ma il mondo continuava a girare in modo incontrollabile. Mi sembrava di vedere un caleidoscopio di bianco e nero, cieli che cambiavano colore, laghi più scuri della notte che mi inghiottivano.
Mi passai una mano sul viso, tentando di cancellare la stanchezza, la rabbia; come se fosse semplice. Ma non funzionava. Non poteva funzionare.
A un certo punto, qualcosa si animò; un contrappunto di alcol e musica che permeava l'aria. Odiavo quella sensazione. Non riuscivo a farla mia. Era come se qualcosa si stesse sgretolando dentro di me con il mondo che continuava a girare.
Il centro della pista vibrava di vita. L'animo vibrante era quello di Heather che era al centro di tutto, il corpo che si muoveva in un ritmo incantevole, quasi ipnotico.
Si intrecciava e si separava a un altro corpo femminile che non conoscevo. Rideva, la testa gettata all'indietro; abbracciava con slancio, si sfidavano a vicenda su chi potesse fare il miglior casquè, ma c'era qualcosa che non andava.
E parlo di me.
Non riuscivo a non guardarla senza sentire le mani formicolarmi. Anche nel gesto più innocente, quando Heather ondeggiò con il bacino e buttò indietro la testa, quel turbine di capelli che, ormai ondulati per il caldo e il sudore, mi fece inghiottire a vuoto; un blocco che non riusciva a restare dentro e dovevo insistere.
Un malessere che non riuscivo a spiegare.
Mi alzai, senza pensarci.
Neanche ascoltai le domande curiose dei miei compagni su dove stessi andando. Non c'era nulla che volessi di più. Strisciai tra la folla che ballava come se non ci fosse altro, come se il mondo dovesse terminare l'indomani.
La bottiglia di vodka scintillava sotto i riflettori colorati.
Mi attaccai alla bottiglia, confortandomi nel liquido che prometteva riparazione: la freddezza, il suo sapore tagliente, il calore.
Dammi il sollievo che cerco.
Come se avesse avvertito un pericolo alle spalle, si voltò di scatto con agilità; i suoi occhi azzurri, chiari e penetranti, si incrociarono con i miei.
Un brivido mi percorse.
Che aspetto avevo? Che cosa stava leggendo nei miei occhi, sul mio viso, nella mia anima?
Lei non sembrò affatto scossa e, con un sorriso che aveva più a che fare con la divertita osservazione che con il timore, incrociò le braccia, guardandomi taccare un'altra dose dalla bottiglia.
«Dovresti smetterla.» La sua voce era calma, ma non c'era nulla di indulgente.
«Di fare?» chiesi, il tono più distratto di sempre.
«Essere ubriaco ogni volta che mi vedi.»
C'era un fondo di preoccupazione nel suo sguardo che non riusciva a nascondere.
Mi leccai le labbra, ancora umide del bruciore dell'alcol, e piegai la testa di lato, come un cane che si divertiva a provocare il padrone. Sorrisi, stupido, incosciente.
«E tu dovresti smetterla di essere sempre così sobriamente attenta quando mi vedi.»
Le acute note del brano musicale rimbombavano nella sala, taglienti come un richiamo alla fuga. La folla intorno ballava come se nulla fosse, ma io non riuscivo a respirare. Mi sentivo inghiottito da quel labirinto di corpi che non faceva che confondermi.
Mi guardai intorno, frenetico, in cerca di un'uscita. I miei occhi scorrevano sui muri scuri, sulle luci psichedeliche che cambiavano colore, sulle labbra, sorrisi e lingue intrecciate. Volevo solo andare via. Ma il corpo era lì, inchiodato al pavimento.
«Adonis» mi chiamò, e la guardai, pronto, attento e persino sobrio. «Adesso sei tu ad avere l'aria di uno che vorrebbe scappare.»
Un momento prima ero certo della mia scelta, un istante dopo mi ritrovai catapultato in un universo che non credevo nemmeno potesse esistere.
Heather iniziò a ballare, trascinandomi nel suo mondo. Un viandante travestito da zucca ci superò, e senza pensarci gli passai l'ingombrante bottiglia che mi impediva di toccarla, di sfiorarla.
Lei muoveva le mani tra i capelli, dimenava il bacino con una sensualità precisa, come quelle ballerine di Broadway che avevo visto esibirsi in spettacoli perfetti.
Posai una mano sulla sua mascella, avvicinai le labbra alla sua trachea e le depositai un bacio, morbido, per paura di romperla.
Heather si aggrappò a me, sollevandosi sulle punte dei piedi, e per un istante i suoi occhi incontrarono i miei, senza paura, senza esitazione. Le afferrai la mano, la liberai dalla corda invisibile che la tratteneva, e distesi le nostre braccia nel vuoto, come se il mondo intero fosse nostro.
Pierre-Auguste Renoir aveva dipinto un quadro come questo: Ballo a Bougival.
Nell'opera, due ballerini si muovevano con grazia, i loro corpi stretti in un abbraccio che sospendeva il tempo. La donna, con un cappellino rosso che incorniciava il volto sorridente, appariva raggiante, perfetta nella sua delicatezza.
Sullo sfondo, l'ambiente rustico prendeva vita: un tavolo occupato da una coppia di giovani intenti in una conversazione tranquilla, e più in là, altri sconosciuti. Ma la coppia che danzava apparteneva al più puro, al più lontano mondo.
Potevamo essere noi, brillanti nelle menti confuse di quei pittori, in una visione romantica e non sporca, impossibile da catturare nella sua interezza.
Li vedevo, nascosti tra le ombre della sala, pronti a immortalarci, a renderci parte di un quadro che non avrebbe mai raccontato tutta la storia.
Perché se ci fosse stata, la nostra sarebbe stata scritta col sangue.
«Hai una sigaretta?»
Ci rifugiammo dietro il locale, nel vicolo cieco che puzzava di rifiuti. I bidoni della spazzatura stavano accatastati lungo il muro, creando una barriera tra di noi e l'esterno. Un vecchio cancello arrugginito, nascosto quasi completamente, era l'unico passaggio che portava sulla strada principale.
Sfilai il pacchetto di sigarette dalla tasca e glielo porsi. Lei lo prese senza dire alcunché, estraendo una sigaretta con un movimento deciso.
«Non pensavo che fumassi.»
«Non fumo, infatti» rispose, consegnandomi il pacchetto e sostituirlo con l'accendino. Accese la cicca e, ispirando profondamente il fumo, lo sbuffò fuori con un gesto lento. I suoi occhi si chiusero un istante, assaporando la lentezza dei muscoli che si rilassavano. Quando li riaprii, la fissò intensamente, guardando la colonna di tabacco che bruciava gradualmente. «L'ultima volta che ti ho visto, mi hai fatto venire voglia di provare.»
Il mio sguardo vagava distrattamente, sfiorando ogni angolo senza realmente fissarsi su nulla, finché qualcosa mi strappò dal torpore: un topo, silenzioso, si insinuò in un angolo nascosto, portando con sé un pezzo di pane che era nettamente più grande della sua struttura corporea.
«Da dove hai detto che vieni?» Decisi di rompere il ghiaccio.
Lei mi lanciò uno sguardo inespressivo, il fumo che si sollevava dalla sigaretta in un velo opaco. «Non l'ho mai detto.»
Un sorriso furbo mi curvò le labbra mentre mi appoggiavo al muro, osservandola più da vicino. «Non ti piacciono le risposte semplici?»
Lei sbuffò, ma non smise di fissarmi. Gettò il mozzicone per terra e alzò gli occhi verso di me, aspettandosi qualcosa.
Poi, senza preavviso, si parò davanti, bloccandomi la strada.
«E se ti dicessi che non vengo da nessun luogo?»
«Mi farebbe ridere» risposi, con un tono secco e un sorriso ironico. «Impossibile. Tutti noi veniamo da qualche parte. Anche tu.»
Lei fece un passo indietro, e senza alcun preavviso, sospirò: «Non io» Si avvicinò alla porta sul retro. «Andiamo?»
Non sapevo cosa dire, il suo atteggiamento mi stava scombinando. Mi limitai a fare un passo verso di lei, ma proprio in quel momento l'accendino mi scivolò dalle mani e cadde sull'asfalto. Mi chinai per raccoglierlo, ma un suono curioso mi congelò sul posto.
Il grido stridulante di un topo – ma non il solito schiocco secco e furtivo – fu straziante, come se l'animale avesse avuto un incontro fatale con un predatore.
Un brivido mi percorse la schiena. Gli occhi si fissarono nell'angolo buio da cui provenne il suono.
Rimasi immobile, abbassato sulle ginocchia, in attesa che qualcosa - o qualcuno - emergesse.
I gatti randagi non esitavano a mostrare la loro preda, vantandosi della cattura. Ma stavolta, non c'era alcun randagio.
Nessuna figura in agguato, nessun rumore di zampette o artigli.
Poi, un altro suono. Anzi, un rumore.
Un fruscio, un crepitio profondo, seguito dal terribile strazio di denti che masticavano carne cruda.
«Adonis.»
«Shh!» la interruppi bruscamente, raddrizzando la schiena. «Non hai sentito?»
«Che cosa?» Lei si mise subito in allerta, voltandosi velocemente, gli occhi che scrutavano nell'oscurità.
Mi voltai a guardarla. Ero davvero l'unico che aveva sentito tutto?
«Penso di essere ancora abbastanza ubriaco» ammisi, cercando di giustificarmi con un sorriso forzato.
Lei alzò un sopracciglio. «In realtà è la prima volta che ti vedo così sobrio.» Mi guardò, provando a decifrare qualcosa nei miei occhi, ma proprio in quel momento, un altro suono stridente squarciò l'aria: unghie che straziavano l'asfalto. Un rumore così secco che mi gelò il sangue.
Lei si fermò di colpo, il sorriso sparito in un attimo. Mi fissò per un istante.
«Che diavolo è stato?» Il tono roco, quasi ridotto in un sussurro.
Heather non rispose subito. «Non lo so» mormorò, cauta. «Ma inizia a non piacermi.»
Nella penombra, emerse una figura: una bambina. Ma non una bambina qualsiasi. I suoi movimenti erano innaturali, come quelli di una marionetta mossa da fili invisibili. Avanzava a quattro zampe, e ogni movimento, troppo calcolato, troppo strano per essere umana.
La sua testa pendeva da un lato in modo innaturale, se il collo troppo debole per sostenere il peso del cranio. I capelli castani, sporchi e aggrovigliati, si muovevano a ogni suo spostamento, impregnati di qualcosa di vischioso, assorbiti da anni di pioggia e decadenza.
I suoi occhi... quei due occhi: pozze di zolfo liquido, incandescenti, brillavano con una luce malata e innaturale, fissandoci con un'intensità che era in grado di penetrare la carne, di lacerare la nostra esistenza, di divorare la nostra anima.
Erano occhi che non dovevano esistere. Occhi che non appartenevano a nessuno.
Continuava ad avanzare con una lentezza inquietante.
Dalla bocca di labbra screpolate e gonfie, emerse un suono, un gracidio stridulo e inumano, che sembrava provenire dalle viscere stesse della terra. Dal volto pallido, si stirò in un'espressione che non riuscii a definire; non era un sorriso, né un pianto, ma qualcosa che mescolava in: corri o muori.
«Ana jaye.» Ho fame.
«Adonis...» La voce di Heather era appena un sussurro, il tono carico d'urgenza. Mi girai lentamente verso di lei, percependo il tremore nel suo respiro. «Allontanati lentamente e non guardarla negli occhi.»
Le parole arrivarono come un comando, ma il suo labiale tradii un leggero tremolio.
Un ringhio basso e minaccioso sfuggii dalle labbra della bambina. Fece dei movimenti più rapidi, stufa di giocare con la nostra paura. I suoi occhi gialli, incandescenti, bruciavano nella penombra, fissandoci con una determinazione che gelava il sangue.
In un attimo, il panico mi colpì. Non avevo il tempo di pensare. Arretrai, facendo un passo indietro, ma il movimento non fu abbastanza veloce; si lanciò su di me in un'azione aggressiva, scaraventandomi a mezzo metro di distanza.
Mi schiacciò a terra con il peso della sua stretta ferina.
«Adonis!»
Cercai in ogni modo di bloccarla, ignorando il dolore alle ossa, ma i suoi denti taglienti e ingialliti si piantarono nella carne del mio braccio, provocandomi un urlo dal profondo della gola. Il sangue sgorgava dai fori causati dai suoi canini, imbrattando il suolo sottostante. Digrignando i miei, diventai rosso per lo sforzo sovrumano.
In seguito, il corpo della bambina venne scaraventato contro il muro, permettendomi così di respirare. I miei occhi, offuscati dal peso del dolore, si spinsero sulla figura di Heather che, con un vassoio rugginoso recuperato dall'immondizia, le aveva assestato un colpo imprevisto.
«Adonis!»
Si inginocchiò, il volto pallido e teso dalla preoccupazione, abbandonando l'arma. Le sue mani tremavano mentre si avvicinavano alla ferita, esitanti, temendo di farmi ancora più male. Non appena le sue dita sfiorarono la lacerazione, un grugnito di dolore mi sfuggì involontario; il braccio si contrasse e il calore del sangue - che ancora scorreva - esplose in una fitta lancinante.
«Dobbiamo... dobbiamo andare in ospedale» farfugliò.«Potrebbe infettarsi» aggiunse, come se stesse cercando di convincere sé stessa più che me.
«Che diavolo... è quella... cosa?» domandai con un filo di voce; la fatica di respirare e il dolore che sopraggiunse a graduazioni. Tentai di sollevare il busto, ma ogni volta era più difficile.
Heather alzò gli occhi di scatto, fissandomi con uno sguardo carico di una verità che non avrebbe mai osato pronunciare ad alta voce. I suoi occhi, normalmente impenetrabili, si aprirono per un istante, ma non disse una parola.
La bambina, furiosa come una tempesta in piena, si rialzò con un ruggito sordo, gli occhi fiammeggianti di rabbia. Un battito di ciglia, e tutto accadde: con un movimento fulmineo, si scagliò contro Heather, la velocità sovrumana della sua corsa quasi invisibile.
Heather, presa di sorpresa, riuscii a reagire solo con un colpo disperato, ma i suoi artigli la afferrarono il collo con una forza brutale, in una morsa di ferro. Il respiro le si bloccò in gola mentre i suoi stivali penzolavano nell'aria, le punte a pochi millimetri da terra. Un suono metallico risuonò nel silenzio, un rumore secco mentre veniva schiacciata contro il muro, lo stesso che pochi istanti prima aveva testimoniato una scena ben diversa.
Il tempo sembrava essersi fermato. Ogni respiro, ogni secondo, erano dettati da un orologio a pendolo che scandiva la fine.
I miei occhi, rapidi e sperduti, scivolarono su ogni angolo del vicolo, fino a quando, una bottiglia di vetro abbandonata, attirò la mia attenzione. Strisciai sull'asfalto, trascinandomi verso l'oggetto con l'ultimo slancio di forza che mi restava.
Il dolore, un fuoco che mi stava divorando dall'interno. Riuscii ad afferrare la bottiglia con l'unico braccio che ancora rispondeva agli stimoli, lottando contro la possibilità di svenire o morire.
In uno sforzo titanico, mi misi in piedi. Schiantai la bottiglia sul bordo di un bidone, rendendola un'arma dalle estremità affilate. Presi posizione nei confronti di quell'essere che tratteneva Heather in sospensione, il cui corpo penzolava come un burattino spezzato. Sollevai il braccio buono, preparandomi a colpire, ma lei rovesciò la testa in un'angolazione del tutto innaturale, distorcendo il volto in un ghigno tremendo. E con un colpo secco mi spintonò, sbattendomi contro il muro opposto.
Il dolore aumentò facendosi soffocante. Mi tolse il respiro mentre assistevo, indifeso, alle schegge di vetro incastrate nell'addome; il sangue che macchiava la stoffa del maglione. I miei occhi faticavano a restare aperti, percepivo i suoi calci disperati, la lotta per riuscire a liberarsi e a non morire.
La mia vista si annebbiò, il mondo circostante parve subire un brusco rallentamento.
L'aria cambiò, assumendo una temperatura raggelante tale da farmi battere i denti.
A quel punto, chiusi gli occhi, ma non prima di aver assistito all'esplosione di un lampione nelle vicinanze, la cui luce tenue, come un singolo testimone, si sprigionò sotto lo stimolo di un'energia singolare.
༒
Aprii lentamente gli occhi, il battito del mio cuore che risuonava in ogni parte della testa. Un colpo di tamburo che martellava senza pietà. Sbattendo le palpebre, cercai di mettere a fuoco, ma il corpo era pesante, rallentato dalla fatica e dal dolore.
Mi mossi con cautela, ma una fitta acuta all'addome mi fece digrignare i denti. Portai la mano sulla ferita, sentendo la pelle lacerata e il calore del sangue che continuava a scivolare via. Un brivido di panico mi attraversò la mente, ma non era per me stesso.
Non sapevo nemmeno quanto tempo fosse passato.
Man mano che la mia vista metteva a fuoco, la figura di Heather diventò più chiara, ma la sua immobilità mi gelò il sangue nelle vene; giaceva a terra, supina, il corpo disteso come se fosse solo un involucro vuoto, privo di vita.
«Heather!» Mi spezzai in un grido, la voce rotta continuando a spingermi in avanti, strisciando sull'asfalto. Il dolore mi squarciava da ogni angolo del corpo, ogni muscolo e ogni osso urlava contro di me.
Accostandomi a lei, il respiro affannato che lacerò la mia gola, posai due dita sulla carotide, cercando di sentire i battiti del suo cuore. Ma ciò che avvertii fu solo un flebile tamburellare, debole.
La luce fioca del lampione distrutto filtrava attraverso le nuvole temporalesche, disegnando l'infelicità spettrale del suo volto.
La sua testa penzolava, come un peso morto.
Il nodo al collo, troppo stretto, troppo crudele.
Qualcuno ci aiuti.
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