𝟮𝟰. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖
Iniziai a disprezzare sempre di più la luce del sole, come se fossi il discendente dimenticato del famigerato Dracula, scoprendo una strana intolleranza.
Sistemai gli occhiali da sole, leggermente inclinati sul naso, e incrociai le gambe con disinvoltura, seduto sulle fredde sedie metalliche della tribuna del campo da football. Al centro dell'arena, la squadra si preparava per un'altra sessione di allenamento, mentre le cheerleader, con la stessa determinazione, si esercitavano tra salti acrobatici e cori entusiastici.
Gonfiai le guance e sollevai lo sguardo verso il cielo, dove la sfera solare brillava con un'intensità che si attenuava dietro le lenti scure degli occhiali.
Gli occhi stavano meglio; il collirio stava facendo effetto.
Non ero più l'incarnazione di un vampiro.
L'incidente aveva lasciato una cicatrice invisibile agli occhi, una ferita che, paradossalmente, faceva più male di qualsiasi segno sulla pelle.
Perché mi ricordava, ogni giorno, quanto fossi stato vicino alla morte.
Alla mia età, l'apatia si era insinuata in me come un ospite indesiderato, rendendo monotono tutto ciò che mi circondava. Fare sesso era diventato un bisogno fisico, un imperativo che mi spingeva a cercare ristoro anche nel fumo, consentendo al vapore di mescolarsi con pensieri e pentimenti.
Gli ingranaggi del mio cervello ruotavano incessantemente, mulinando ricordi e memorie, una struttura che non trovava mai riposo, nemmeno nella tranquillità del mio letto.
La verità era che, ogni giorno che passava, ogni momento, non faceva che prepararmi a un altro round di lotta.
Uno come me aveva tutto dalla vita, eppure non riuscivo ad apprezzare nulla di tutto ciò. Non vedevo con gli stessi occhi degli altri, non mi sentivo fortunato, né grato di svegliarmi ogni mattina.
Se avessi potuto saltare quella parte, allora sì che avrei potuto considerarmi davvero fortunato.
Il fischio che segnava la fine dell'allenamento mi strappò dai miei pensieri. Sbattendo le palpebre per adattare la vista, offuscata dalle lenti scure, mi ritrovai a fissare il campo da football.
Le cheerleader, sedute in panchina, avevano terminato la loro sessione, così come i giocatori. Eppure, il mio sguardo si spostò oltre, attirato da una figura femminile che attraversava la pista di atletica.
I suoi capelli biondi, selvaggi, ondeggiavano come una bandiera al vento e, i leggings attillati, non lasciavano davvero nulla all'immaginazione. Teneva in mano una borraccia che posò, con disinvoltura, vicino alla linea di partenza.
Un impulso improvviso mi colpì, come se una scarica elettrica. Mi alzai di scatto, senza pensarci due volte. Tolsi gli occhiali da sole, un gesto istintivo, gli occhi ancora fissi su di lei. Si piegò in avanti, le gambe divaricate, eseguendo la base dello stretching.
Era un magnete e io la sua calamita.
Alcuni giocatori di football, passandole accanto, fischiarono con tanto di occhiate lunghe; ma lei era fin troppo concentrata sul suo riscaldamento.
Scesi velocemente i gradini della tribuna, spinto da una forza che non riuscivo a controllare. C'era un'urgenza che non capivo, un bisogno di raggiungerla che... No, non avevo ancora capito.
I miei occhi seguivano i movimenti della sua silhouette, piegandosi con grazia per un altro esercizio di riscaldamento.
Aveva gli auricolari alle orecchie e, senza neppure guardarsi indietro, si lanciò dalla linea di partenza. Calcolai velocemente la distanza che mi separava da lei.
Heather concluse il primo giro di corsa, sfrecciandomi davanti senza nemmeno accorgersi di me, completamente immersa nella corsa.
Non volevo ascoltare la voce del detective che mi aveva chiesto di tenerla d'occhio.
Non volevo ascoltare il mio corpo che si ribellava, come se ogni fibra di me si fosse piantata nel cemento.
E soprattutto, non volevo ascoltare i miei pensieri. Perché quelli, più di tutto, erano la parte peggiore: confusi, sporchi, come acqua torbida che non riuscivano a filtrare e purificarsi.
Agganciai gli occhiali da sole al collo della maglietta e mi lanciai dietro di lei. Le gambe, allenate agli scatti brevi e potenti sul ghiaccio, stavano lottando contro il calore dell'asfalto.
Eppure, non c'era nulla che mi spingesse come quella frenesia. Mentre correvo, immaginavo il genere di musica che stava ascoltando, il corpo che si muoveva al medesimo ritmo.
Lei continuava a correre, ignara, di me, alle sue spalle.
Il desiderio di strapparle le cuffie, di farle sentire la mia voce, era così forte che quasi mi bruciava nei tendini delle gambe. Volevo afferrarla per le spalle, scuoterla con rabbia, costringerla a fermarsi, e darmi almeno un secondo per riprendere fiato.
Rallentò appena, e finalmente, il ritmo delle sue gambe era più vicino al mio.
Aveva rallentato.
Quando la raggiunsi, la distanza tra noi svanii in un miraggio. La sua coda di cavallo ondeggiava a destra e a sinistra, come una bandiera che mi invitava a raggiungerla.
Con un ultimo scatto, la distanza non esisteva più.
I suoi occhi, ampi e sorpresi, mi fissavano increduli. Con un movimento rapido e di stizza, si liberò di un auricolare.
«Che cavolo stai facendo?»
«Devo parlarti» sforzai il fiato. I suoi occhi si strinsero in una smorfia di disappunto.
«Io non ho niente da dirti!» ribatté, rimettendosi l'auricolare. Un altro passo avanti, e riprese a correre, più veloce di prima.
Il sangue mi pulsò nelle tempie. «Ma che cazzo pensi di fare?» sbottai, non appena la affiancai.
«Non ci parlo con te!» fu la sua risposta, un grido che si disperse tra gli alberi che circondavano la pista.
Ero esausto, il respiro stentato, ma le stavo attaccato al sedere. Scivolai gli occhi sulle sue gambe e un ghigno sfacciato arricciò le mie labbra umide. «È in assoluto la prima volta che ti guardo il culo» affermai, il petto che si contorceva su e giù. «Posso restare a fissarlo per ore, a meno che tu non smetta di correre.»
Lei rallentò all'improvviso, e io, colto di sorpresa, rischiai di perdere l'equilibrio. I miei passi si confusero, ma mi ripresi in fretta. Non appena mi fermai, ero ansimante, il petto che si sollevava e si abbassava come se volesse esplodere. Lei era a pochi passi dalla linea di partenza, ancora con le spalle rivolte a me, come se non avesse nemmeno la voglia di guardarmi.
Mi abbassai, mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. Quando alzai gli occhi, vidi i suoi piedi muoversi.
«Che cosa vuoi?» domandò, tagliente, con le mani sui fianchi. I suoi occhi mi scrutavano, pieni di irritazione. «Se non me lo dici subito, me ne vado!» minacciò, con la postura rigida, da non riuscire a nascondere quel sottile tremore che tradiva quanto avesse bisogno di sapere, di capire.
In un attimo, raddrizzai la schiena, afferrandole il polso con una presa decisa. Lei cercò di colpirmi con un movimento rapido, ma io bloccai il suo colpo con una prontezza che nemmeno lei si aspettava. Le sue braccia si incrociarono in una x. Digrignò i denti, lo sguardo di pura intensità fissato nel mio, sfidandomi a fare il passo successivo.
«Scappi sempre quando le cose non vanno come vuoi?»
«Lasciami, coglione!» esclamò con voce imperiosa, provando a svincolarsi.
La mia presa era inesorabile, una morsa che non concedeva scampo. Il movimento intrecciato delle nostre braccia rendeva la sua fuga un'impresa ardua. Si dibatteva, provando a liberarsi dal mio contatto, ma ogni tentativo era invano. La tensione dei suoi muscoli tradiva lo sforzo, ma i nostri sguardi rimanevano fissi l'uno nell'altro.
«Voglio solo parlarti» sibilai, la voce bassa e vibrante, a un palmo dal suo viso.
Le liberai i polsi con un colpo secco e, in un attimo, le immobilizzai le braccia, forzandola a voltarsi. La schiena incollata contro il mio torace, il culo premuto contro la patta dei miei pantaloni; il contatto involontario e rovente, mi fece trattenere il respiro.
L'avevo bloccata solo perché non volevo darle la possibilità di scappare.
Il suo respiro irregolare, cominciò a placarsi, e in quel silenzio che ci circondava, mi avvicinai lentamente con le labbra, sfiorandole l'orecchio.
«Non accetti un 'no' come risposta, vero?» La sua considerazione non era affatto una domanda a cui avrebbe voluto ricevere un consenso monosillabo.
Non cercava una risposta, bensì una reazione.
«Ricordamelo quando ti avrò liberata.»
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