𝟭𝟴. 𝗨𝗡 𝗗𝗘𝗠𝗢𝗡𝗘 𝗧𝗥𝗔𝗩𝗘𝗦𝗧𝗜𝗧𝗢 𝗗𝗔 𝗔𝗚𝗡𝗘𝗟𝗟𝗢
Potevo imparare a vivere anche senza le scarpe che mi piacevano tanto, senza i vestiti larghi che mi rendevano più invisibile di quanto volessi ammettere. Potevo seguire le lezioni rischiando di addormentarmi sul banco... Potevo. Lo facevo.
Abituarmi all'idea che Heather Wallace soffrisse di manie di controllo maniacali non sarebbe stato facile, ma alla fine era qualcosa che avrei dovuto fare. Eppure, c'era qualcosa di più profondo che mi bloccava: il peso di un trauma che la rendeva taciturna, distante, difficile da gestire. Mi facevo forza per restare calma, per non reagire ogni volta che quel muro invisibile tra le nostre anime, ci separava dalle sue verità da quelle che io volevo sentire.
E poi c'era il Padre. L'ombra che incombeva su Heather, la divinità che non la vedeva per quello che era, ma scelta come bersaglio. Heather era l'obiettivo perfetto per i suoi rimproveri, per la sua frustrazione, per tutto ciò che non riusciva a gestire nel mondo che aveva costruito per sé stesso.
E io, in qualche modo, mi trovavo nel bel mezzo di tutto questo, pagando il prezzo per qualcosa che non avevo mai scelto.
Colpì lo sportello della lavatrice a gettoni, il suono metallico che mi fece stringere i denti. La macchina, che fino a poco prima stava svolgendo il suo dovere senza intoppi, ora non dava più se gno di vita.
«Dannazione.» Un calcio, poi un altro.
Mi arresi all'idea che non l'avrei mai fatta funzionare, e così, esausta, crollai su una panca al centro della saletta.
Dall'uscio dell'entrata della lavanderia, sbucò un ragazzo, immerso nella sua musica, con delle cuffiette nelle orecchie e una cesta di biancheria da lavare. Sollevai un sopracciglio, non accorgendosi minimamente della mia presenza, abbandonata e arrendevole sulla panca. Scagliò il cesto a terra con un gesto distratto e aprii la porta dell'oblò, piegandosi e rialzandosi ripetutamente per ficcare i vestiti nella lavatrice.
Il volume della musica nelle cuffie era talmente alto che riuscivo a sentire la melodia riverberare.
Indossava una semplice t-shirt bianca e un paio di pantaloncini rossi della tuta, ma non era il suo abbigliamento a catturare la mia attenzione. Era la sua attitudine - il corpo teso, le mani che si muovevano con una frenesia che contrastava con l'ordinato processo di lavaggio. C'era qualcosa di irrequieto, come se ogni movimento fosse dettato dall'ansia.
Aveva il volto serio, la mascella contratta, e una linea di stress visibile intorno alla bocca. Guardandolo di profilo, notai il suo naso delicato, le labbra carnose che sembravano quasi esaltarsi nel momento in cui piegava la testa per guardare l'oblò. Non ero troppo vicina, ma nemmeno abbastanza lontana da non vedere le piccole lesioni sparse su alcuni frammenti di pelle scoperta.
Osservai attentamente l'orologio sospeso vicino alla porta.
Al massimo, potevo chiedergli un piccolo aiuto, ma non ero certa che avrebbe detto di sì. E se lo avesse fatto, non sapevo nemmeno se sarei stata in grado di accettarlo senza sembrare ridicola.
«Scusami?» dissi su due piedi, le sollecitazioni dei post-it di Heather che mi ronzavano nella testa.
Il ragazzo, immerso nella sua musica e l'espressione imparziale e seria, si tolse la t-shirt bianca, usando solo un braccio per farlo.
Sgorgai, incurante dell'accidentalità e del corpo che si contorceva per una strana scarica elettrica, infida e bruciante.
«Oh, merda.»
Il cestino che avevo appoggiato vicino alle gambe si rovesciò e, gli indumenti imbrattati, finirono sparpagliati sul pavimento. Il rumore di tutto questo non sembrò nemmeno attirare la sua attenzione, né tantomeno le mie parolacce. Ciò che catturò il suo sguardo fu la mia franchezza: senza alcuna emozione visibile, girò lentamente la testa, gli occhi fissi su di me con naturalezza quasi passiva, come se fossi solo una comparsa di passaggio nella sua giornata.
«Hai detto qualcosa?» chiese, sfilandosi un auricolare, dal quale la musica rimbombò con chiarezza, come se fosse appena stata strappata dall'aggeggio.
Lo ignorai, ma quando i suoi occhi si fecero più sottili, sanguigni, mi precipitai a recuperare i vestiti sporchi dal pavimento.
Un alone di luce al neon sfavillò sopra le nostre teste. Non sapevo se considerarlo un invito a correre ai ripari o se fosse meglio ignorarlo, far finta che non fosse successo nulla.
Mi guardai alle spalle, sperando che non fosse diretto a me, ma l'istinto mi tradì. La sua voce, improvvisa e netta, tagliò l'aria: «Sto parlando con te.»
Il timbro della sua voce mi fece rabbrividire, costringendomi a focalizzare l'attenzione sulle sue sopracciglia che schizzarono verso l'alto. «Stai dicendo a me?» domandai, autoconvincendomi che la domanda fosse inutile.
Naturalmente stava parlando con me; non c'era nessun altro lì, nessun altro al di fuori di noi.
Quando riaprii gli occhi, il ragazzo si sfilò anche l'altro auricolare, facendolo scivolare nella tasca, distrattamente.
«No, io...» In quel momento, il pensiero di come avessi rovinato il bucato mi sopraffece. «Sei capace di maneggiare una lavatrice?»
Il ragazzo mi scrutò per un attimo. Poi rispose, con un tono secco, quasi divertito: «Qual è il problema?»
Mi voltai verso la lavatrice, una ladra silenziosa che aveva inghiottito il mio bucato senza pietà, rifiutandosi di restituirlo.
«È bloccata» gli spiegai rapidamente.
Lui si avvicinò, il petto nudo così vicino che la distanza tra noi sembrò ridursi all'improvviso. Il profumo della sua pelle, misto alla lavanda del detersivo, mi investì come un'ondata calda.
«È il programma» ribatté lui con una calma che mi fece sentire fuori posto. Chinandosi verso il display della lavatrice, scorse le dita con la stessa destrezza di un pianista. Si fermò un attimo, le dita sospese, cercando la nota giusta da premere. «Dovevi resettare il sistema.»
Schiacciò un paio di pulsanti in ordine sparso, mantenendo premuto l'ultimo per qualche secondo. Con uno scatto deciso, la lavatrice si riavviò.
«Facile» risposi, cercando di nascondere l'imbarazzo sotto un sorriso che non riuscì a sembrare del tutto naturale. In realtà, non avevo la minima idea di come funzionasse una lavatrice. «Grazie per l'aiuto.»
Il ragazzo annuii senza fretta, voltandosi con la stessa calma con cui era arrivato, parte del suo modo di essere.
Rimasi lì a fissarlo, osservando il torace nudo che si stagliava sotto la luce al neon, l'andatura rilassata e i muscoli della schiena che si muovevano sotto la pelle in un modo quasi innaturale.
Poi, proprio quando pensavo che fosse ormai un'ombra nel mio campo visivo, si girò improvvisamente, avvertendo il mio sguardo dietro di sé.
«Ci siamo già visti da qualche parte?»
«No» risposi e, stringendo gli occhi, aggiunsi: «Non credo. Me lo ricorderei.» Con un movimento rapido, recuperai la biancheria che giaceva sul pavimento, mettendola nella cesta.
«Io, credo, di averti già visto» insistette, gesticolando con una mano.
Il suo atteggiamento mi fece scattare un piccolo brivido di irritazione. «Io no. Non ti conosco.» ribattei, cercando di far passare il tono più schivo possibile.
Riprendendo il controllo, strinsi la cesta tra le mani, in grado di tenermi salda in quel momento.
«Mi ricordi qualcuno» disse, guardandomi con quell'aria di chi era convinto di aver ragione.
«Conoscere e ricordare sono due cose completamente diverse» risposi, mantenendo un tono neutro, ma il mio atteggiamento tradii una lieve irritazione. «Aspetta! Ci stai provando per caso? È un modo per attaccare bottone?» domandai, senza nascondere il mio scetticismo davanti al suo comportamento.
«Attaccare bottone?» ripeté lui, alzando un sopracciglio. «Nessuno più usa quel termine.»
«Sì, ma...» cominciai, incerta su dove volesse andare a parare.
«Non credo che saresti il mio tipo, comunque.» La sua risposta mi fece sgranare gli occhi.
«Come, prego?» Alzai un sopracciglio, incredula. «Mi hai vista?»
Lui mi squadrò con uno sguardo calmo, misurato, poi scrollò le spalle. Senza aggiungere altro, si voltò, andando a sedersi dall'altro lato della saletta. Indossò le auricolari con una certa nonchalance, rilassandosi contro il muro, di spalle. Chiuse gli occhi, isolandosi dal mondo.
E da me.
Rimasi a fissare il vuoto, confusa e stranita.
Mi aveva appena ignorata.
༒
Poco distante dal parcheggio, scendendo da una piccola collina, si apriva una scena di pura frenesia: molti studenti si erano radunati attorno a un grande falò acceso ai piedi del fiume. Le fiamme danzavano in un gioco ipnotico di luci e ombre, mentre la musica, un remix carico di sensualità e lussuria, permeava l'aria.
Per i più timidi, però, quella stessa musica dava coraggio, spingendo molti a scambiarsi effusioni con la persona più attraente del loro corso.
Mi concentrai sui miei piedi, cercando di evitare le rocce nascoste sotto la terra arida e sconnessa del bosco. Il tacco degli stivali non rendeva il terreno più amico, ma appena misi piede su un tratto più solido, spolverai la giacca muovendomi con maggiore sicurezza.
Il calore del falò non riusciva a scaldarmi. Nonostante le fiamme, dentro di me c'era solo freddo. La musica, che per tutti gli altri era un invito a unirsi alla festa, per me era solo un lamento; una melodia che faceva risuonare il mio disappunto.
«Heather!» La voce di Margot arrivò dritta alle mie orecchie, cogliendomi di sorpresa.
La guardai rapidamente, trovandomi davanti la sua figura radiosa, l'opposto di me in quel momento. Era a suo agio tra la folla.
«Vuoi che ti prenda qualcosa da bere?» mi chiese, gli occhi già puntati su un angolo della festa dove c'era una scorta di bevande.
«Acqua» risposi, cercando di sembrare più disinvolta di quanto mi sentissi.
Margot fece una smorfia contrariata, roteando gli occhi. «Quanto sei noiosa.» Mi strizzò l'occhio, avvicinandosi alla scorta, tra risate e chiacchiere.
Mi girai di nuovo verso la folla, incapace di non notare quanto fossi diversa da loro - quanto Heather lo fosse.
Quando Margot tornò, mi passò la bottiglia d'acqua. La ringraziai, svitando il tappo.
«Che cosa si celebra?» chiesi, sorseggiando.
«È la cerimonia di iniziazione delle matricole» fece lei, come se fosse una cosa del tutto normale.
«Ma quante persone ci sono?» Alzai lo sguardo verso la folla, ma senza realmente vedere nessuno.
Margot sorrise con quel suo solito entusiasmo. «Assurdo, vero?» disse, guardandomi con un'espressione che mischiava sorpresa e incredulità. «Neanche la scomparsa di un giocatore di football ha fermato questo delirio!»
Io, però, non riuscii a concentrarmi. La mia mente era ancora ferma sulle parole che mi aveva appena detto. «Un ragazzo è scomparso?»
Margot annuii con disinvoltura, sorseggiando della birra, senza fretta. «Sì, Miles Campbell, il quarterback. Il campus è letteralmente zeppo di volantini con la sua faccia» spiegò, «ma adesso non pensiamoci.»
Senza aspettare una risposta, mi prese la mano con una presa decisa e mi trascinò via. «Vieni, la cerimonia sta per iniziare.»
La scena davanti a me sembrava uscita da un film: quattro ragazzi che si sfidavano a chi riusciva a bere di più senza crollare. La folla li incitava come se stessero correndo una maratona, ma invece di applausi, c'erano grida di esultanza per ogni sorso che ingurgitavano.
Mi sentivo a disgustata, come un'osservatrice esterna, incapace di farmi coinvolgere. Lo ero prima e lo ero anche adesso.
La tossita del ragazzo che aveva quasi perso il controllo del suo stomaco, i suoi occhi pieni di sofferenza mentre cercava di riprendersi, mi avevano fatto sentire stranamente nauseata.
Quando finalmente riuscii a rimettersi in piedi, il pubblico esplose in un applauso liberatorio. Tutti risero e si abbracciarono, ma quella risata suonava vuota, come se ci fosse qualcosa di marcio sotto la superficie.
«È disumano» mormorai, scuotendo la testa, osservando alcuni ragazzi che piazzavano scommesse su chi avrebbe vinto la prossima sfida.
Margot non era preoccupata. Si girò verso di me con il sorriso che stavo imparando a conoscere fin troppo bene, quello che nascondeva sempre una punta di malizia. «Il college è proprio così, Heather. Devi solo lasciarti andare. Vivi un po'!»
«Vado a prendermi da bere. Vuoi qualcosa?» chiesi, cercando di allontanarmi almeno per un momento dalla folla, dal caldo soffocante del falò.
Margot alzò gli occhi al cielo, un'espressione esageratamente drammatica. «Tu e le tue acque! Ma okay, vai pure. Io rimango qui.»
Rapidamente mi allontanai dalla confusione per dirigermi verso un angolo più tranquillo, lontano dal rumore della festa, nei pressi del falò.
Mi avvicinai a un refrigeratore portatile e aprii il coperchio con un gesto meccanico. Lì, in fondo, trovai l'ultima lattina di Coca Cola rimasta. La presi, sorridendo soddisfatta, e con un po' di impazienza cominciai a smanettare con la linguetta per aprirla. Il rumore della lattina che si apriva si mescolava al crepitio del fuoco e, distratta, sollevai lo sguardo: la figura di un ragazzo emerse tra l'oscurità.
Lo riconobbi subito, anche se non avrei saputo spiegare perché.
Il ragazzo della lavanderia.
Non avevo bisogno di indizi: era lui, anche se la sua presenza lì, era decisamente strana.
Rimasi a osservarlo con curiosità mentre cercava di salire la collina, sbagliando ogni passo. Era perso, eppure c'era qualcosa di strano nel suo equilibrio; troppo brillo per camminare in modo lineare. Il suo volto, nascosto in gran parte dalla penombra, non lasciava dubbi: era lui. Lo stesso atteggiamento teso, la stessa aria di conflitto che avevo notato nella lavanderia.
Scivolai tra i gruppi di studenti, cercando di non attirare troppa attenzione. La collina era tutta da percorrere, ma io mi mantenni a distanza, abbastanza vicina da non perderlo di vista. Mi rifugiai dietro un albero, cercando di non fare rumore, e aspettai.
Si addentrò nel parcheggio, il cui asfalto nero si allungava sotto i suoi passi incerti. La sfilza di auto gli faceva da sostegno, permettendogli di non crollare a terra, anche se a fatica. Lo osservai mentre si avvicinava a una macchina; si piegò, ma non cadde.
Pareva un ragazzino smarrito, più che un giovane uomo.
Guardai intorno a me, sperando che qualcuno intervenisse e, che qualcuno - non io - lo aiutasse. Ma non c'era nessuno, solo noi due in quel piccolo angolo buio.
Era chiaro che stava male, eppure la domanda che mi assillava era: perché stavo lì a guardarlo? Non volevo avere nulla a che fare con lui, non dopo la presunzione di quel pomeriggio. E soprattutto, odiavo gli esseri umani come lui.
Si prese la testa tra le mani, le dita che affondavano nei capelli con violenza, scacciando i pensieri che lo tormentavano. La sua postura storta tradiva la fatica, il peso che ostentava di sostenere.
Uscii da dietro l'albero e mi avvicinai a lui con passo deciso. Il suo sguardo, che si era spostato da terra a me, diventò ancora più scuro, ma non disse niente.
«Hai bisogno di aiuto?»
«No.»
«È chiaro che hai bevuto» continuai, incrociando le braccia, «e adesso sei ubriaco.»
Lui mi fissò, ma il suo volto non tradiva alcuna emozione.
O forse era solo troppo stanco per reagire.
Si raddrizzò lentamente, quasi con riluttanza, come se l'affermazione avesse tolto un po' della sua riservatezza. Il respiro gli usciva irregolare, ma cercò comunque di mantenere una sorta di dignità nel modo in cui si sorreggeva alla macchina.
«Non è un affare tuo» rispose, ma la voce suonò meno sicura questa volta; più seccata, ma anche stanca. «Vai via.»
Sentii un brivido passarmi lungo la schiena. Non mi era mai piaciuto che qualcuno cercasse di intimidirmi in quel modo, ma qualcosa nel suo comportamento stanco e frastornato, mi fece riflettere.
«Se hai bevuto, probabilmente non dovresti stare da solo» dissi, cercando di mantenere la calma. «Sarebbe meglio se qualcuno ti accompagnasse.»
Lui sbuffò e alzò gli occhi al cielo, come se fossi l'ennesima persona a mettersi in mezzo nella sua serata già difficile.
«Non ne ho bisogno» replicò bruscamente.
La sua reazione mi fece pensare che, in fondo, non fosse solo l'alcool a influenzarlo. E, nonostante la sua ostilità, il mio istinto mi diceva che non sarebbe stato giusto andarmene.
«Se non vuoi aiuto, va bene» dissi, ma non mi allontanai. Il respiro si fece più profondo, lanciando un'occhiata alla luce del fuoco che brillava in lontananza. «Torno alla festa» dissi, dandogli le spalle.
«Aspetta!»
Mi voltai, alzando un sopracciglio. Lui mi lanciò uno sguardo veloce, come se fosse una battaglia mentale, ritraendosi leggermente. Appoggiò una mano sulla macchina, sorreggendosi. «Il mio dormitorio non dista molto da qui.»
«Posso chiamare qualcuno per un passaggio?»
«No» inveii, scuotendo la testa. «Nessuno. Solo... portami al dormitorio.»
«Posso chiedere alla mia compagna di stanza di darci un passaggio in macchina...»
«Ma che cazzo! Ho detto di no!» sbottò in un'esplosione di voce grossolana che mi fece sobbalzare. Lo guardai perplessa. Il suo petto si alzava e abbassava in fretta. Poi, con uno scatto che tradiva la sua stanchezza, disse: «Accompagnami...» enunciò, tra un respiro e l'altro. «A piedi.»
Mi guardò in modo così intenso che mi chiesi se volesse solo liberarsi di me o se, in realtà, avesse davvero bisogno di qualcuno. Ma, in fondo, non avevo molto da perdere, se non il tempo.
«Okay» dissi, infine, frustrata. «A piedi, allora.»
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