𝟭𝟳. 𝗔𝗗𝗢𝗡𝗜𝗦 𝗟𝗘𝗕𝗟𝗔𝗡𝗖

La palestra, in cui i giocatori di basket svolgevano i loro allenamenti quotidiani, era deserta e silenziosa.
Il coach Piper, invece, sembrava avere occhi solo per il pallone che vagava solitario in mezzo al campo.

Noi, la squadra, eravamo seduti sugli spalti, osservandolo con aria seccata mentre eseguiva tre palleggi e tentava di lanciare la palla verso il canestro. La palla colpì il ferro e rimbalzò via, schiantandosi prima contro il pavimento, poi facendone due e infine tre rimbalzi sul legno lucido. Fortunatamente, Piper aveva anni di esperienza come allenatore di hockey su ghiaccio, ma la sua abilità nel basket, purtroppo, lasciava parecchio a desiderare.

Ritornò verso di noi con le mani sui fianchi e il mento chinato. Trattenni il respiro, così come gli altri. Di solito, quel suo modo di fare preannunciava qualcosa di urgente, un problema serio.

«Stamattina, la madre di uno degli studenti ha contattato il dipartimento di sicurezza dell'università. Ha segnalato di non avere notizie del figlio da diversi giorni. Il suo nome è Miles Campbell.»

«Miles Campbell, il quarterback?» borbottò un membro della squadra.

Strinsi lo sguardo, fissando l'espressione dell'allenatore che tradì una preoccupazione evidente. Se a sparire era un giocatore di football, perché convocarci?

«E noi che c'entriamo, coach?» sbottò uno dei ragazzi in fondo alle tribune, mettendo a voce alta il pensiero che mi stava frullando in testa.

«Perché siete voi che organizzate tutte le cazzo di feste, con quelle maledette aquile!» Le aquile erano i giocatori di football.

Prima che potessi intervenire, il brusio della squadra riempii l'aria, tappandomi le orecchie.

«Noi e la squadra di football non c'entriamo nulla, tantomeno con la sparizione di Campbell!» urlò qualcun altro.

Nonostante il caos da parte della squadra, la mia attenzione restò fissa sulla postura tesa del coach che continuava a strofinarsi le dita grosse sulla fronte ingrigita.

Buster mi diede una gomitata leggera. «Perché non fai qualcosa, capitano?»

«Hai un suggerimento, vice?»

Lui sorrise. «Non ho idea. Sei il capitano, qualcosa ti inventerai.» Poi fece un cenno di mento verso Piper. «Ma sbrigati. Piper non ha un bel colorito.»

Puntai gli occhi sul coach. «Pensi che quella vena sulla sua fronte gli scoppierà?»

«Gli scoppierà» confermò Buster, annuendo.

Il coach guardava verso la tribuna, fissando gli assistenti all'equipaggiamento e un medico incaricato di seguire la squadra durante le partite, sia in trasferta che in casa.

A un certo punto, le doppie porte si aprirono e uno sconosciuto fece il suo ingresso. Dai suoi movimenti e dal distintivo ben visibile sul gancio della cintura, era chiaro che doveva essere un detective.

Si avvicinò al coach Piper, i ragazzi della squadra si ammutolirono e Buster alzò un sopracciglio.

Io restai a fissarlo, mentre ringraziava il coach e prendendo il suo posto.

«Buongiorno» Il detective fece una pausa, gli occhi che scrutavano la stanza. «Sono il detective Rogers» aggiunse, indicando sé stesso con un gesto rapido. «Come ha già accennato il signor Piper, sono qui per indagare sulla scomparsa dello studente Miles Campbell. Il suo pickup è stato trovato abbandonato vicino al lago North Reservoir, lungo una strada poco battuta. Qualcuno di voi ha avuto contatti recenti con Miles? O magari è suo amico?»

Il silenzio divenne opprimente mentre il detective ci fissava; gli occhi affilati alla ricerca di volti familiari o di qualsiasi segno che potesse tradire qualcosa. Sentivo il battito del mio cuore rimbombare nelle orecchie, la gamba di Buster tremare dal nervoso.

Il detective Rogers si fece avanti, i suoi occhi spaziavano sulla sala con una freddezza glaciale. Sembrava che fosse abituato a leggere i silenzi, a fare domande senza risposta.

«Chi di voi conosce Miles Campbell?»

Non era una domanda, ma una sollecitazione. Un'azione calcolata per vedere chi avrebbe reagito.

Quell'uomo non mi piaceva.
C'era qualcosa di strano nel modo in cui osservava tutti.

Non mi piaceva il suo sguardo, quell'aria di chi era sempre un passo avanti.

Il coach fece un respiro profondo e superò il detective, ma nessuno di noi fiatò. Non per paura di finire nei guai, ma per ciò che il detective avrebbe potuto scoprire su di lui.

Miles non era una brava persona. Ma nessuno di noi lo avrebbe detto ad alta voce. In fondo, non era mai stato uno di quelli che ti aspettavi di vedere sparire nel nulla.

In caso contrario, era lui a far sparire.

«Detective Rogers, posso?» Il detective annuì senza scomporsi, facendo un passo indietro per dare spazio al coach. «Ragazzi, so che potrebbe sembrare fuori dalla nostra portata» disse. «Ma Miles non è solo un giocatore di football» Il suo sguardo si posò su ognuno di noi. «È uno studente come voi e la sua scomparsa sta preoccupando tutta la comunità universitaria.» Alcuni ragazzi della squadra abbassarono gli occhi.

«Voglio che tutti voi siate vigili.» La voce del coach si abbassò, ma non per mancanza di intensità. «Se avete visto o sentito qualcosa che possa aiutarci a capire dove si trova Miles, è fondamentale che parliate.»

«Conoscevo Miles.» La voce, profonda e leggermente incerta, risuonò dall'altra parte della palestra.

Tutti gli occhi si voltarono verso la fonte di quelle parole. Era Alex, il nuovo centrocampista della squadra, sempre così riservato, così lontano dai riflettori.

«Abbiamo frequentato un corso insieme l'anno scorso» continuò. «Non eravamo amici, ma...» si fermò un attimo, fissando il pavimento. «È strano pensare che sia scomparso.»

Il detective Rogers annuii lentamente, lo sguardo fisso su Alex mentre annotava qualcosa su un taccuino. «Perché pensi che sia strano...» fece una pausa, come se le sue parole fossero un invito a svelare di più.

«Alex» lo interruppe il ragazzo, senza distogliere lo sguardo.

«Sì, Alex. Perché lo pensi?»

Alex rimase in silenzio per un attimo, la fronte corrugata, cercando di mettere insieme le parole giuste.

«Perché lo è. Se conosciamo qualcuno e quest'ultimo scompare, ci sembra sempre strano!» ribatté alzando il tono di voce in un'ottava, difendendosi dalla domanda.

Il detective Rogers ridusse lo sguardo in due fessure sottili. Non sembrava convinto.
Poi, senza dire una parola, chiuse il taccuino con un gesto secco.

«Vi ringrazio per la vostra cooperazione» disse, fissando Alex per un momento. «Le informazioni che avete fornito sono importanti. Capisco che per molti di voi possa essere difficile parlare di Miles, ma la situazione è delicata. La sua famiglia lo sta cercando.» Fece un cenno verso il coach.

«Coach Piper.»

Senza aggiungere altro, si girò verso l'uscita.



«Miles Campbell è veramente scomparso?»

Ellen osservava la sicurezza del campus coprire ogni angolo, ogni punto d'ombra dell'università, con volantini che informavano della sua sparizione. «Credevo che l'idea dei volantini fosse uno stupido scherzo da parte dei suoi amici.» aggiunse

Diedi un morso al sandwich che avevo comprato in caffetteria, senza fretta, cercando di sembrare disinteressato.

«Così pare» mormorai, inghiottendo il boccone. «Mi era capitato di vederlo poco prima di partire, quel fine settimana, dai miei genitori... Ma non credevo che la situazione potesse essere così grave.»

«Ho sentito dire che Miles è disprezzato dalla maggior parte delle ragazze del campus.» mormorò, come se le stesse dicendo a sé stessa più che a me, scuotendo la testa con un gesto che tradii la sua perplessità.

Spostai lo sguardo su Ellen, sorpreso dalla sua calma.

«Che cosa dicono su di lui?»

Ellen fece oscillare le gambe nel vuoto, completamente a suo agio. Era seduta su un tavolo di legno consumato, tipico di quel campus, con il sandwich tra le mani, ma sembrava più interessata a decorarlo che a mangiarlo. «Alcune voci dicono che Miles picchia le sue ragazze.» La voce era piatta, priva di emozione.

«Ha più di una ragazza?» La domanda mi sfuggì senza pensarci. Non riuscivo a capire se la cosa mi turbasse di più o mi stupisse.

Ellen annuii senza alzare gli occhi dal sandwich. «Ma nessuna mai lo ha denunciato.» aggiunse, accompagnata da una smorfia.

«Non è il momento di saltare alle conclusioni» dissi. «La scomparsa di qualcuno è sempre un affare serio, a prescindere da ciò che pensiamo di lui.»

Mi rivolse uno sguardo penetrante. Il suo viso era impassibile, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che suggeriva che non si fidasse completamente delle mie parole.

«Può darsi che tu abbia ragione» rispose lentamente. «Ma non puoi certo negare che ci sono molte voci su di lui, e non tutte sono infondate.»

«Perché non me ne fotte di cosa dicono.»

«Tu non lo fai mai, Adonis.»

«È un ragazzo nero» dissi, perdendomi nei miei pensieri per un attimo. «Sai cosa significa questo?»

Ellen alzò lo sguardo. «Davvero me lo stai chiedendo?» Sbuffò, appallottolando il sandwich nella carta. «Sono una ragazza asiatica che vive in America, e tu mi fai questa domanda?»

La preoccupazione di Ellen rispecchiava un problema ben più grande, qualcosa che permeava tutta la società: la disparità di trattamento delle persone a causa di pregiudizi razziali ed etnici. Si potevano introdurre leggi, forzarne l'applicazione, ma alla fine gli esseri umani avevano bisogno di tempo per abituarsi alla diversità, per cambiare davvero il loro modo di pensare e agire.

«Ellen...» dissi, abbandonandomi a un sospiro più pesante del solito.

Ellen, però, non sembrava ascoltarmi. Con un rapido movimento, sistemò i libri sotto il braccio, gettando un'occhiata veloce all'orologio al polso. «Ho un corso accelerato di informatica imminente» disse, secca. «Devo sbrigarmi.»

Sbuffai frustato, afferrandole il polso senza pensarci troppo. Lei si bloccò, alzando gli occhi su di me, ma non sembrava arrabbiata.

«Non volevo dire quello... lo sai.» Il suo sguardo si fece più morbido, come se stesse cercando di leggere tra le righe.

«Lo so» rispose lentamente, passandosi la lingua sulle labbra con un'espressione riflessiva. 

Abbassò poi lo sguardo sulla mia mano che ancora le teneva il polso. «Mi lasci andare, ora?» chiese, un tono di voce più dolce, ma con una punta di urgenza.

La guardai per un momento, prima di mollarle il polso rapidamente.

Fece un piccolo sorriso. «A dopo.»

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